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di Matilde Collari Galli Formulazione teorica

Il relativismo culturale è una teoria della moderna antropologia. L im­ pegno con cui gli antropologi agli inizi del XX secolo si erano dedicati agli studi interculturali, combattendo le teorie evoluzionistiche con cui autori quali Bachofen e Morgan avevano esaminato le popolazioni primi­ tive, li aveva guidati ad affermare la necessità di giudicare i valori di ogni cultura nel loro specifico ambito culturale. Boas e Rivers avevano criticato la « metafisica del progresso come fatto necessario e processo unilineare» (1), contrapponendole la concezione di un pluralismo di civiltà considerate unità organiche e compiutamente integrate.

Malinowski aveva dimostrato che ogni cultura è un insieme integrato di istituzioni interdipendenti, ed aveva precisato che la funzione di ogni istituzione poteva essere compresa solo nel suo contesto culturale.

Ruth Benedici aveva affermato che ogni cultura è caratterizzata da un suo substrato ideologico ed affettivo e che è necessario quindi indivi­ duare il pattern culturale di un popolo se vogliamo comprendere i singoli elementi della sua cultura.

Da questi presupposti teoretici nasceva, con una chiara consapevolezza dei suoi compiti ed un preciso impegno ideologico, la moderna antropo­ logia. Il rispettò della dignità di ogni essere vivente diventa rispetto per

il suo modo di intendere la vita, per i suoi costumi, i suoi valori, le sue istituzioni, per ciò che lo fa essere storicamente uomo: la cultura della sua comunità. In queste posizioni c’è già in embrione il relativismo cultu­ rale: ogni comunità elabora un suo specifico sistema di valori strettamente connessi al mondo culturale in cui operano, ed ogni valore va giudicato in rapporto all’ambito culturale in cui nasce e vive (2).

(1) Tullio Altàn Carlo, L’antropologia culturale e le scienze storiche e sociali,(2) Secondo alcuni autori in «De homine », n. 1, 1962, pag. 70. (N . , , •

icola Abbagnano, Il relativismo culturale, in « Quaderni di Sociologia», n. 1, 1962, pagg. 5-22; Giorgio Costanzo, Relativismo culturale e impegno sociale, in « La rivista di servizio s^ale», n. 4 1962

Dae-ff 5-35* Paul F Schmidt, Some Cmticism of Cultural Relativismi m «Ine Journal of Philosophy », n. 52, 1955, pag. 781) i relativisti culturali avrebbero nei sofisti i loro illustri antenati. Il relativismo culturale si sarebbe

successi-Il maggiore espositore del relativismo culturale è l’antropologo statu­ nitense Melville J. Herskovits, che sviluppò in una teoria organica questo principio, divenendone il più strenuo difensore.

Nella sua opera Man and His Work, pubblicata nel 1948, egli dedicava al problema del relativismo culturale un intero capitolo; in esso il rela­ tivismo culturale veniva definito come un metodo per rispondere ai pro­ blemi che insorgono ogniqualvolta si voglia analizzare la natura ed il ruolo di una società.

vamente sviluppato attraverso le opere di Galileo, di Cartesio, dei positivisti inglesi, delle dottrine storiciste di Dilthey, Spengler, Spranger.

Il relativismo culturale è spesso fatto risalire a Erodoto, e a prova di questa affermazione Abbagnano cita il brano in cui questi racconta di Dario, che un giorno aveva chiesto ai Greci che erano con lui a qual prezzo avreb­ bero acconsentito a cibarsi dei loro padri morti, invece di bruciarli come era loro costume. E i Greci avevano risposto che non lo avrebbero fatto a nessun prezzo. In presenza dei Greci, allora, Dario aveva convocato gli Indiani Callati, chiedendo loro a qual prezzo avrebbero acconsentito a bruciare i cadaveri dei loro padri, invece di cibarsene come era loro costume. E gli Indiani avevano risposto che a nessun prezzo lo avrebbero fatto. « Se — commenta Erodoto — si proponesse a tutti gli uomini di scegliere fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliere la migliore, ognuno, dopo aver riflettuto, sceglie­ rebbe quella del suo paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori i propri costumi ».In questo racconto a nostro avviso si può individuare più che un’afferma­ zione di relativismo, un riconoscimento di pluralismo e determinismo cultu­ rale. Ci sembra necessario rilevare la differenza esistente fra pluralismo e relativismo. Con pluralismo si intende la constatazione dell’esistenza di più culture, ed essa scaturisce da un’osservazione di senso comune, che probabil­ mente è più antica dello stesso Erodoto. Ma riconoscere che gli uomini scel­ gono diversi accomodamenti culturali non implica necessariamente il ritenerli equivalenti e degni di rispetto. E’ questa invece l’essenza del relativismo cul­ turale, che possiamo definire una dottrina costruita per fornirci una spiega­ zione e una giustificazione del pluralismo.

Così i Greci avevano scoperto — ma ugualmente lo scoprono anche i più reazionari colonialisti — che esistono culture diverse, regolate da leggi diverse. Questo non può però farci concludere che il mondo greco intendesse rifarsi ad un relativismo culturale, intendendo equivalenti tutte le culture e vietando l’emissione di un giudizio negativo su di esse. La posizione greca è contro 1’esistenza di una legge assoluta, mitica ed immutabile, e per dar forza a queste opposizioni si rifà all’esistenza di leggi diverse, ma mai ha sostenuto l’equi­ valenza di queste leggi. E’ il togliere la legge alla sfera dell’assoluto e darla all’uomo, alla comunità ; è il grande sforzo greco di « laicizzare » il diritto, che genera tale posizione. L’uomo è misura di tutte le cose: l’uomo citta­ dino della polis e, per traslato, la comunità. Ma se l’uomo, e non più la divinità è la misura delle cose, se la comunità è creatrice delle norme, niente ci auto­ rizza a far coincidere tale atteggiamento laico con quello relativistico.

Le leggi sono create dalla comunità e proprio per questo possono mutare. « Ciò che per una data città apparisce giusto e bello, codesto anche è, per quella

Herskovits inizia la sua esposizione notando che i giudizi umani sono basati sull’esperienza, e l’esperienza è interpretata da ogni individuo in base alla propria inculturazione ; una prima conferma alla sua ipotesi egli la trova osservando che i princìpi estetici, di giustizia, di normalità vengono assorbiti dal gruppo in cui si nasce e si vive. E la stessa perce­ zione del mondo fisico è mediata dallo schermo inculturativo ; nella lette­ ratura antropologica infatti vi sono numerosi esempi di realtà fisiche percepite in modo diverso da membri di diverse società.

Il principio che i giudizi derivano dall’esperienza ha inoltre una sicura base psicologica, come hanno dimostrato gli studi di Sherif, i cui esperi­ menti sono fondamentali e il cui concetto di /rame of reference (la base cui si riferisce l’esperienza) è divenuto un pilastro della psicologia sociale.

Il principio postulato sulla base di tali esperimenti è, nelle parole di Sherif, il seguente: « la base psicologica per stabilire norme sociali, quali stereotipi, mode, concezioni, valori, costumi, è la formazione di comuni frames of reference, prodotti dal contatto di più individui. Quando tali frames of reference si stabiliscono in un individuo, entrano come impor­ tanti fattori per determinare e modificare le sue reazioni alle situazioni che dovrà in seguito risolvere, ed esse interverranno attivamente anche quando la situazione non trova riscontro in modelli di comportamento individuali » (3). Si possono portare come esempi il modo di riconoscere i gradi di parentela, di considerare l’incesto; e perfino la definizione di ciò che è normale e di ciò che è anormale è legata al /rame of reference di una data cultura.

città, e giusto e hello, finché così ella reputi e sancisca » (Platone, Teeteto, XX, 167). Ma l’enfasi è sull’affermazione che è la comunità che si dà le leggi e che le leggi non sonò immutabili, ma variano con il variare delle vicende umane. La tesi di Protagora non è dunque la dichiarazione del principio del relativismo culturale, ma è l’embrione della dialettica storica.Mancano tutte le caratteristiche del relativismo: l’affermazione dell incom­ parabilità delle varie culture, della impossibilità di emettere giudizi su culture diverse, e mancano proprio perché il greco era convinto d’essere il portatore della vera cultura e la constatazione dell’esistenza di culture diverse dalla sua non lo portava a ritenere tutte le culture uguali, né lo spingeva al rispetto teorico e pratico della altre culture.Pensiamo che per suffragare la nostra tesi siano sufficienti queste annota­ zioni critiche, riferite ai presunti precedenti di un relativismo sofista. Ci limitiamo inoltre ad accennare che anche le posizioni di Galileo, Cartesio, Hume devono riferirsi principalmente allo sforno necessario per elaborare nuove metodologie nella ricerca della verità, e all’atteggiamento polemico di questi pensatori verso l’assolutismo deìl’ipse dixit.

(3) M. Sherif, The Psychology of Social Norms, Harper & Bros., New Yoik, 1936, pagg. 32, 92-106.

Ogni cultura sarebbe quindi un mondo a sé stante, con un suo specifico ordine etico. I giudizi negativi sui valori di altre società sono giudizi irrazionali perché riferiti a fenomeni culturali estranei e privi, quindi, di significato per coloro che li emettono. Tali giudizi derivano dall’etnocen- trismo, dal considerare cioè il proprio gruppo superiore ad ogni altro, ed Herskovits, analizzando i miti e la storia di numerosi popoli, afferma che tale pernicioso principio opera in ogni cultura. L’etnocentrismo diventa un grave pericolo quando in suo nome si tenta di imporre ad altri questa presunta superiorità. Ed è un frutto del nostro etnocentrismo la classifi­ cazione delle culture in «civilizzate» e «primitive».

Il termine « primitivo » è stato usato inizialmente dagli antropologi evolu­ zionisti per indicare i popoli che hanno subito attardamenti nel processo evolutivo; successivamente è stato applicato a gruppi sociali dotati di una cultura più «semplice». Ma, prosegue Herskovits.. è sempre rimasto indefinito e vago il criterio usato per stabilire una scala delle culture. Egli passa quindi a difendere il relativismo culturale dall’accusa di negare la validità di ogni codice morale; il relativismo culturale sostiene che la moralità non esiste in assoluto, ma riconosce che essa è un valore univer­ sale. Per chiarire il suo pensiero Herskovits introduce la differenza tra « assoluto » e « universale » : « assoluto » è un valore immobile, che non ammette variazioni, non differisce da una cultura all’altra, da un’epoca all’altra; «universale» è il denominatore comune che si può estrarre dal grado di variazione che ogni fenomeno manifesta. La moralità è universale, anche se si attua con mezzi diversi e se assume connotati diversi.

Herskovits conclude la sua esposizione descrivendo quelli che per lui sono i tre aspetti fondamentali del relativismo culturale: metodologico, filosofico e pratico.

Come metodo il relativismo dà forza al principio dell’antropologia: cer­ care di raggiungere il massimo grado di obiettività scientifica; non si devono giudicare i modelli di comportamento presi in esame né cercare di cambiarli. Si deve piuttosto, stabilendo delle relazioni all’interno della cultura esaminata, cercare di capirli e astenersi da interpretazioni che scaturiscono da un frame of reference preconcetto.

Il relativismo come filosofia riguarda la natura dei valori culturali e, oltre a ciò, le implicazioni che derivano dall’attribuire forza e potere al processo di inculturazione, quale condizionatore nel modellare pensiero e comportamento.

I suoi aspetti pratici implicano l’applicazione, la pratica, dei princìpi filosofici derivati da tale metodo alla più vasta scena del paragone fra più culture.

Herskovits ispirò a tale teoria gran parte della sua opera; il relati­ vismo culturale significò per lui una battaglia ideale che egli sostenne con fede ed impegno. Nel 1947, quale Presidente dell’Esecutivo dell’Asso­ ciazione americana di antropologia, presentò alla Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, lo Statement of Human Rights. Era sua inten­ zione che i princìpi del relativismo culturale fossero inclusi nella dichia­ razione dei diritti umani. Nello Statementr infatti, 1 autore espone questi tre princìpi fondamentali:

1. L’individuo realizza la propria personalità attraverso la propria cultura: di conseguenza il rispetto per le differenze individuali implica quello per le differenze culturali.

2. Il rispetto per le differenze tra le culture trova convalida nella scienza che non ha scoperto alcuna tecnica di valutazione qualitativa delle culture.

3. Costumi e valori sono relativi alla cultura da cui derivano (4). La Commissione delle Nazioni Unite non tenne presente queste racco­ mandazioni. « E ciò — come nota Robert Redfield — era inevitabile, data la contraddizione insita nella dichiarazione » (5). Infatti 1 alternativa offerta era di accettare il rispetto di tutti i valori nell’ambito delle pro­ prie tradizioni — e quindi anche la caccia di teste, il cannibalismo, la discriminazione razziale nel Mississipi, il nazismo — oppure emettere un giudizio negativo su tali fenomeni culturali e togliere allora ogni validità alla dichiarazione.

Del resto, la tesi relativistica, così come è postulata da Herskovits, è stata oggetto delle critiche di molti antropologi culturali e degli studiosi delle più varie discipline: economisti, filosofi, storici, biologi, giuristi.

Seguendo gli indirizzi di questo dibattito concettuale e metodologico, abbiamo articolato la nostra trattazione in tre parti.

Una prima parte sarà dedicata alla critica letterale del concetto e sarà suddivisa in:

—- critica al concetto di Herskovits;

— critica al relativismo culturale quale metodo antropologico, — risposte di Herskovits a tali critiche.

(4) Melville J. Herskovits, Statement on Human Rights, in « American Anthropologist», vol. XLIX, 1947, pag. 539.(5)

Robert Redfield, The Primitive World and Its Transformations, Cornell University Press, Ithaca-New York, 1953, pag. 141.

Una seconda parte analizzerà il concetto alla luce dei princìpi e dei metodi su cui si fonda l’antropologia culturale e cercherà di spiegare, inquadrandole storicamente, le ragioni del suo successo fra i cultori delle scienze sociali. Tale parte sarà suddivisa in :

-— esame del concetto in rapporto alle finalità e alla metodologia del­ l’antropologia culturale ;

— il relativismo culturale come ideologia.

La parte finale vaglierà il concetto alla luce della moderna realtà storica e in rapporto alle nuove prospettive della nostra scienza.

Critica al concetto di Herskovits

Per esaminare criticamente le premesse essenziali del relativismo, isoliamo il concetto di Herskovits di determinismo culturale. Una cultura determina i valori conosciuti dai suoi membri; una cultura quindi determina i valori che i suoi membri debbono conoscere. Questa affermazione ci suggerisce una prima domanda : tutti i valori conosciuti dai membri di uno stesso gruppo sono determinati dalla loro cultura? E in quale misura avviene tale determinazione?

Secondo Eliseo Vivas i gradi di determinazione variano da comunità a comunità, ed entro una stessa comunità alcuni valori sono determinati più di altri. Queste variazioni di intensità del determinismo culturale divengono evidenti se introduciamo il paragone fra una società « primitiva » e una società « complessa » che stia subendo una rapida trasformazione. In quest’ultima notiamo la coesistenza di valori diversi e spesso anti- nomici; per risolvere le loro perplessità morali i suoi membri non sempre possono fare ricorso alla propria cultura. Una filosofia che non tenga pre­ sente questo problema è irresponsabile tanto dal punto di vista intellet­ tuale quanto da quello morale. Moralmente, perché fornisce il mezzo per risolvere le perplessità morali solo ai membri di società statiche, in un mondo dominato da trasformazioni sempre più rapide e che coinvolgono tutta l’umanità. Intellettualmente, perché non ricorda che le categorie usate nell’esame delle culture primitive non possono essere applicate, per lo meno non alla stessa maniera, a culture complesse in fase di trasfor­ mazione.

Una seconda osservazione deve essere fatta analizzando il determinismo dei relativisti: nella scoperta e nella realizzazione dei valori gli esseri umani esercitano una spontaneità — libertà e creatività — diversa da gruppo a gruppo, ma presente in ognuno di essi. Una categorica

afferma-zione del determinismo non è dunque giustificata. L’antropologo, com­ piendo la sua analisi culturale, deve chiedersi in qual misura e grado la cultura determina i valori; questo procedimento sarà più proficuo per il suo lavoro di quanto non lo sia l’ipotizzare una mancanza di interazione fra cultura e individui.

Una terza osservazione sul determinismo riguarda la tesi di Sumner che è implicita nel pensiero di Herskovits : « i valori determinati da una cultura sono i valori che i membri devono riconoscere » (6). Questa tesi è inammissibile; essa infatti non tiene conto dell’importante distinzione fra i reali costumi di una comunità (mores) e i suoi ideali e le sue norme di condotta non ugualmente operative; ignora cioè la differenza fra le azioni umane e gli ideali che le sorreggono.

L’antropologo statunitense David Bidney ha criticato la tesi di Herskovits rilevando gli errori idealistici e positivistici che in essa coesistono. Hersko­ vits segue l’idealismo storico quando cita la tesi del simbolismo dei lin­ guaggi di Cassirer, per dar vigore alla sua affermazione che « 1 esperienza è definita dalla cultura » (7). Proseguendo il suo ragionamento, Herskovits afferma che i soli valori accettabili dall’individuo sono quelli validi per la sua cultura, in quel momento storico. I relativisti postulano la realtà culturale come una realtà sui generis, che rende comprensibili tutti ì fenomeni dell’esperienza; i valori sono condizionati dalla cultura, ma la cultura è data per scontata, come spiegazione di se stessa.

Tanto Bidney quanto Vivas notano inoltre nella teoria di Herskovits un errore tipico del positivismo: far derivare il dovere dall’essere. L osser­ vazione dell’esistenza di diversi codici morali non giustifica da sola l’affer­ mazione che questo pluralismo debba esistere e che quindi vada rispettato e difeso. Inoltre si compie un salto logico quando, dalla constatazione che i valori sono determinati da una cultura, si giunge ad asserire che per tale determinazione i valori possono essere giudicati solo con criteri propri alla cultura.

Lo stesso errore positivistico può essere individuato anche nella distin­ zione che Herskovits ha fatto fra i valori « assoluti » e i valori « univer­ sali ». Nota Paul Schmidt che la tesi per cui la morale è un valore uni­ versale — perché, pur essendo comune a tutte le società, varia da società a società — è una tesi « descrittiva ». Affermare però che non esiste una

(6) William G. Sumner, Folkways, Yale University Press, New Haven, 1906, pag. 79. Trad, italiana di V. Gilardoni, Costumi di gruppo, Comunità, Milano, 1962. (7) Melville J. Herskovits, Cultural Anthropology, Knopf, New York, 1900,,

morale umana poiché la morale varia da società a società, significa tra­ sformare con un salto logico la tesi « descrittiva » in una tesi « pre­ scrittiva » (8).

Il problema, come è formulato dai relativisti, offre due uniche alterna­ tive: o accettare una dottrina che postuli i valori come assoluti, immobili e trascendenti, o negare le norme oggettive in favore di una relatività storica e culturale dei valori. Questa visione limitata è inoltre un ulte­ riore errore logico. Non è lecito infatti rigettare 1’esistenza di norme morali oggettive, solo perché alcune norme morali hanno una validità soggettiva entro un dato contesto culturale. Compito specifico dell’antro­ pologo è quello di spiegare la varietà — la variabilità — di queste norme, e niente ci vieta di affermare che i progressi degli studi antropologici ci daranno in futuro tale spiegazione.

Questa falsa dicotomia, nota però lo Schmidt, spiega il successo del relativismo culturale fra gli antropologi; perché in genere i giudizi tra­ scendenti e assoluti sono legati ad una imposizione divina e l’antropologia ha gettato una buona dose di scetticismo su di essa, gli scienziati sociali hanno accettato il relativismo culturale come negazione delle norme ogget­ tive trascendenti.

Ma le alternative pratiche ed efficaci non sono tra 1’assolutismo e il relativismo culturale; ma tra «assoluti mitologici», destinati a perpe­ tuare crisi e conflitti, e norme razionali, con una potenzialità per essere accettate e realizzate universalmente.

« Il concetto di valore assoluto — dice Bidney — è una norma regolativa significante: appartiene all’esperienza tanto quanto il dato empirico del positivista, ma è un “ fatto ” di altro genere » (9). La norma assoluta, cioè, è reale, in quanto è concepita come una possibilità ideale, la cui validità è indipendente dalla sua attuale realizzazione. L’ideale assoluto quindi è radicalmente diverso dal processo culturale, anche se questo lo ricorda, e serve come fine del tentativo culturale. Si possono allora emettere giudizi di valore sulle culture, senza essere condizionati dal relativismo e dall’etnocentrismo.

Redfield si affianca in questo caso alla posizione di Bidney. Per lui, infatti, è possibile stabilire un « migliore » o un « peggiore » : come entro una società o in un individuo avviene una correzione dei giudizi di valore, quando l’azione è paragonata ad un ideale — cioè a una norma assoluta

(8) Paul F. Schmidt, op. tit., pag. 786.

(9) David Bidney, The Concept of Value in Modern Anthropology, in « Anthro­

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