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Centro sociale A.12 n.65-66. Note di antropologia culturale

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Academic year: 2021

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65*66

“Centro Sociale”

note di

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Centro Sociale

Periodico b im estrale del C en tro d i E d u cazion e P ro fession ale per A s s is te n ti S o cia li (C E P A S )

C om itato scien tifico

A. Ardigò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - W. Baker, Center for Community Stu­ dies, University of Saskatchewan - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federation of Settlements, New York - F. Botts, FAO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casaro, Ministero Pubblica Istruzione, Roma - G. Cigliano, Istituto Sviluppo Edi­ lizia Sociale, Roma - E. Clunies-Ross, Institute of Education, University of London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - J. Dumazedier, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A. Olivetti », Roma - R. Innocenti, Fondazione « A. Oli­ vetti », Ivrea - F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L. M ini- c/ier, International Cooperation Administration, Washington - G. Molino, Amministrazione Atti­ vità Assistenziali Italiane e Internazionali, Roma - G. Motta, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - R. Nisbet, Dept, of Sociology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Uni­ versità di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaroni, Facoltà di Architettura, Università di Roma - M. G. Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osser­ vatorio di Economia Agraria, Università di Napoli - M. Smith, London Council of Social Service - J. Spencer, Dept, of Social Work, University of Bristol. - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Direzione Servizi Sociali Società Olivetti, Ivrea - E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS Roma.

C o m itato d i redazione

A. Antonangeli Marino - Teresa Ciolfi Ossicini - Egisto Fatarella - Giuliana Milana Lisa - Velelia Massaccesi.

Direttore responsabile: Anna Maria Levi - Diresione, redazione, amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 - Roma - tei. 573.455

Abbonamento a 6 numeri annui L. 3.000 — estero L. 4.000 ($ 6,50) — un numero L. 650; arretrati il doppio — sped. in abbonamento postale gruppo IV — c.c. postale n. 1/20100 —

Prezzo di questo faseicolo L. 1.300.

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Centro Sociale

scienze sociali - servizio sociale - educazione degli adulti sviluppo di comunità

anno XII, n. 65-66, 1965 S o m m a rio

N ote d i antropologia cu ltu rale

T. Tentori G. Harrison M. Collari Galli J. Travers Motzo G. Vincelli e G. Di Cristofaro G. Costanzo

III Introduzione. L’antropologia culturale oggi in Italia 1 Individuo e cultura nel pensiero di Abram Kardiner 33 II relativismo culturale

63 Modelli nella cultura 79 Tema culturale

87 Problemi di acculturazione: gli «scanzati»

129 Recensioni

I. M. Josselyn, Lo sviluppo psico-sociale del fanciullo e L'adole­ scente e il suo mondo (A. Antonangeli Marino); M. R. Stein, A. J. Vi- dich, J. Bensman, Reflections on Community Studies (E. Hytten); G. Bastin, Le tecniche sociometriche (A. Antonangeli Marino); M. L. Northway, La sociometria scolastica (A. Antonangeli Marino); F. Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione (K . H. Wolff).

149 Estratti e segnalazioni

{A cura di Adele Antonangeli Marino, Teresa Ciolfi Ossicini, Giu­ liana Milana Lisa, Oscar Massoni, Mario Zucconi).

179 Documenti

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Introduzione - L’antropologia culturale

oggi in Italia

di Tullio Tentori

L’interesse di « Centro Sociale » per l’antropologia culturale non è una novità né è occasionale. Quando in Italia l’antropologia culturale veniva confusa con l’etnologia, quando era considerata un sottoprodotto ingenuo di una cultura anglosassone che, non alimentata dalla solidità della specu­ lazione storicistica italiana aveva costituito a fini pratici una pseudo scienza, « Centro Sociale » prese l’iniziativa di dedicare un intero numero ad illu­ strarne i princìpi teorici, a indicare i successivi apporti di diversi autori attraverso i quali essa venne costituendosi come scienza sociale, e a dare un esempio di ricerca sul campo. Ci riferiamo qui al n. 16-17, a IV, 1957, curato da Amalia Signorelli, che costituiva l’ampliamento della sua tesi di laurea sostenuta presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, sotto la guida dello scrivente e del prof. Ernesto De Martino. Da allora l’interesse per l’antropologia non è mai venuto meno. Specie negli ultimi anni, quasi in ogni numero della rivista è stimolato da saggi, note, recen­ sioni, schede.

A distanza di dieci anni circa dal volume monografico sopra citato, il presente fascicolo non è stato impostato come un nuovo, aggiornato tenta­ tivo di sintesi della teoria antropologica, ma solo come invito alla discus­ sione di alcuni aspetti di questa. L’occasione alla progettazione del fasci­ colo è stata fornita da un seminario organizzato dal Centro Italiano di Antropologia Culturale presso l’Istituto di Filosofia della Facoltà di Lettere di Roma, ma solo una parte dei contributi forniti in quella occasione dai partecipanti appare qui — ed in forma modificata . A questi è stato aggiunto lo studio di Giorgio Costanzo, che si impone all’attenzione non tanto per la metodologia di ricerca, quanto per le intuizioni in esso conte­ nute, assai valide nel quadro di una teoria antropologica generale (1).

Al seminario parteciparono vari operatori sociali per 1 interesse che naturalmente li spinge verso l’antropologia culturale, disciplina che nel­ l’azione sociale ha visto costantemente la finalizzazione del proprio contri­ buto specifico ai princìpi che regolano l’organizzazione della realtà socio- culturale. La presenza di questi operatori non fu, pertanto, un fatto

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sionale, ma una partecipazione ad un dibattito che li interessava diretta- mente. E’ del resto noto che l’atto di nascita accademico della antropologia culturale non è stato rogato nelle aule universitarie, ma sui banchi delle scuole di servizio sociale. I dirigenti di queste, che hanno sempre tenuto presente la finalizzazione dei vari insegnamenti alle future attività pro­ fessionali degli allievi, furono i primi a riconoscere l’utilità formativa della antropologia culturale nonché la sua utilità di strumento tecnico di ricerca nella realtà in cui dovevano operare i futuri professionisti.

Del resto anche le prime ricerche antropologiche in Italia non ebbero fini conoscitivi generici, ma mirarono ad analizzare e denunziare situa­ zioni di miseria materiale e morale. I « sassi » di Matera, le capanne di San Cataldo ed altre situazioni intollerabili in una società moderna e responsabile hanno avuto la precedenza su altre ricerche che sul piano della scienza « pura » potevano offrire vantaggi accademici agli autori o sul piano del successo editoriale potevano offrire vantaggi materiali con la trattazione di argomenti « stuzzicosi ». La letteratura antropologica ha in genere ignorato le tematiche evasive ed ha combattuto l’evasione come fenomeno socio-culturale. L’esotico, il « curioso », sia nelle manifestazioni folkloriche che in quelle snobistiche, così come nello studio delle popola­ zioni primitive, è stato evitato come argomento di trattazione fine a se stesso. Ciò perché l’antropologia, pur qualificandosi come scienza delle culture, implica in coloro che la coltivano una vocazione al chiarimento, alla demistificazione, alla demitizzazione culturale.

Il fine di chi studia una cultura non è l’esame di attraenti ed interes­ santi manifestazioni di essa in questa o quella società, bensì il desiderio di contribuire ad un processo di liberazione dell’uomo dall’inconsapevolezza dei moventi culturali dell’organizzazione sociale nella quale è immerso, dei propri valori, del proprio comportamento, è il desiderio di favorire una sempre più ampia presa di coscienza dei propri problemi da parte dell’uomo e della società. In questa prospettiva la cultura — che rende possibile la comunicazione e la vita sociale —, quando l’analisi antropologica ne avrà divulgato la natura ed i fini, dovrebbe sempre meno esser paragonabile a quella vecchia cameriera della quale parla Sully Prudhomme in quei suoi versi sull’abitudine, la quale, discreta, umile, fedele, s’istalla nella casa, prevede i nostri bisogni, necessità, desideri, capricci e, senza farsi notare né alzar la voce, servizievolmente li risolve per noi. Cioè la cultura — in una umanità consapevole della sua presenza e della sua funzione — non dovrebbe essere in ciascuno di noi una « straniera », un’« abitudine », che soppianta in noi volontà e ragione, che ci insegna a fare a meno di queste, ci diseduca alle scelte, alla responsabilità, alle soluzioni razionali. L’auto­ coscienza culturale dovrebbe contribuire ad aiutar l’uomo —• come le società — a realizzarsi responsabilmente. E a questa tendenza alla

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auto-coscienza può mirare solo chi consideri con interesse (curiosità in senso positivo) la vita, chi consideri con amore il prossimo, chi intenda impe­ gnarsi per la realizzazione di una migliore condizione umana.

L’impegno sociale dell’antropologia culturale e il rapporto di questa con l’azione sociale in genere e in particolare sono problemi dibattuti in questi anni in più sedi e perciò, nel presentare questo1 numero di « Centro Sociale » non ci sembra opportuno tornare su di essi (2). Più utile per i nostri lettori e per fornire indicazioni ad un futuro dibattito sulla posizione e sulle possibilità dell’antropologia culturale in Italia ci sembra, invece, richiamare l’attenzione sui motivi per cui gli studi antropologico-culturali si sono affermati — e devono affermarsi con una loro individualità — rispetto ad altri consimili ; per cui hanno incontrato ed incontrano resistenze nel nostro Paese e da parte di quali forze ; e, infine, su quali cause ritardano la loro istituzionalizzazione nel mondo accademico.

La conoscenza degli schemi culturali si attua negli uomini in modo spontaneo e non è qui il caso di ripetere che senza questa conoscenza intuitiva l’uomo non può attuare la vita di relazione. Ma altro e intuire (e seguire quindi) quali sono gli schemi culturali, i valori culturali seguiti, approvati, disapprovati della società nella quale si vive o con le quali si entra in contatto, quali sono le norme culturali del proprio status, altro è conoscere mediante una metodologia le manifestazioni culturali. In questo senso riteniamo si possa parlare di tre modi di « antropologizzare » : quello, cioè, che è naturalmente realizzato in ogni uomo che sia membro di una società e non un isolato individuo della giungla; quello di chiunque, senza preoccuparsi di schemi di riferimento teorici e di controlli tecnicamente elaborati, descrive e analizza dei fenomeni e dei processi culturali; e, infine, quello scientifico dello specialista io).

La naturale inclinazione dell’uomo verso forme spontanee di antro­ pologia potrebbe indurre a chiederci perché come scienza sociale essa non si sia configurata che di recente. In effetti, ciò non era possibile prima che la riflessione sul pluralismo culturale portasse alla scoperta di quello che è il concetto base da cui parte ogni teorizzazione antropologica, quello

(2) Cfr il n. «3-4 de «Il pensiero critico», a. IV, luglio-dicembre 1962, contenente gli atti del I Convegno Nazionale di Antropologia Culturale, tenuto presso l’Università di Milano nel maggio 1962, e il numero di « De Homi® » in corso di stampa (giugno 1966) contenente gli atti del II Convegno Nazionale di Antropologia Culturale, tenuto presso l’Università di Roma (Facolta di Let­ tere e Filosofia e Facoltà di Scienze Statistiche Demografiche ed Attuargli .

(.3) Cfr sui tre modi di « antropologizzare » T. Tentori, Antropologia cul­

turale e letteratura, in « I problemi della pedogogia », n. 4, luglio-agosto 1695,

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cioè di cultura. Ralph Linton scrisse che la natura della cultura non poteva essere facilmente scoperta dall’uomo in quanto è difficile scoprire la natura dell’elemento nel quale si vive: l’ultima cosa dei quali i pesci potrebbero rendersi conto è la liquidità dell’elemento nel quale vivono. Così l’uomo non può facilmente scoprire le dimensioni, le qualità cul­ turali del proprio ambiente. Uscendo dalla propria cultura, viaggiando, l’uomo ha scoperto e scopre le differenze culturali e riflettendo su queste giunge alla comprensione dell’esistenza di un fenomeno che è alla base di quelle differenze. Ogni volta che, per i più vari motivi, delle società hanno dovuto porre a confronto i loro modi di vivere, i loro costumi, i loro valori e che l’evidenza di questi confronti è risaltata per il modo improvviso in cui si sono realizzati i contatti (e l’età delle grandi sco­ perte geografiche è stata una di queste occasioni) siamo stati vicini alla scoperta del concetto di cultura. Ma se il confronto culturale fu un prerequisito all’acquisizione del concetto di cultura, ciò non vuol dire che fosse da solo sufficiente alla sua scoperta scientifica. Che i Vikingi abbiano scoperto l’America prima di Colombo non ha avuto alcuna con­ seguenza sullo sviluppo della storia del mondo occidentale e forse la stessa scoperta di Colombo non avrebbe avuto conseguenze se non fosse avvenuta in un determinato periodo storico. Che sin dall’antichità si conoscessero ed utilizzassero alcune qualità del petrolio non ha impli­ cato nessuna rivoluzione tecnologica sino a che i tempi non furono maturi per essa.

Clyde Kluckhohn e Alfred Kroeber hanno messo in evidenza in Culture: A Criticai Review of Concepts and Definitions che una generica idea di cultura non è una novità nella storia del pensiero umano : la si può rintracciare nella Bibbia, in Omero, in Ippocrate, in Erodoto, nei pen­ satori cinesi del periodo della dinastia Han (4). Alcune anticipazioni di concetti e problemi dibattuti dall’antropologia culturale si intravedono in opere di storici, di filosofi, di viaggiatori dall’antichità classica all’otto­ cento. E’ stato messo in evidenza, ad esempio, che il relativismo culturale sarebbe già presente nel pensiero di Erodoto, dei sofisti, e si sarebbe, quindi, via via sviluppato in altri pensatori quali Galileo e Cartesio, nei positivisti inglesi, come nelle dottrine storicistiche di Dilthey, Spengler, Spranger.

Gli uomini che compivano esperienze interculturali sia viaggiando sia esplorando la varia successione delle civiltà nella storia, potevano

acqui-(4) La prima edizione apparsa nei « Papers of the Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology » (XLVII, 1) è del 1952. Le successive sono apparse nella serie « Vintage Books » (V-226) della A. Knopf Inc. and Random House Inc., New York.

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sire un seneo della pluralità culturale. E si potrebbero citare vari passi di autori che anticipano le problematiche scientifiche antropologiche. Boezio, ad esempio, nel De consolatione philosophiae, ricorda che « i costumi e le leggi delle diverse nazioni differiscono tanto che ciò che gli uni esaltano come degno di lode, gli altri condannano come meritevole di punizione », e anticipa così le osservazioni sul culturicentrismo.

Cartesio, nel Discorso sul metodo, evidenzia l’importanza della socializ­ zazione e dell’inculturazione quando scrive che « uno stesso uomo, col suo stesso ingegno, per il fatto che è cresciuto dall’infanzia tra fran­ cesi o tedeschi diviene differente da ciò che sarebbe stato se avesse sempre vissuto tra cinesi o cannibali » ; evidenzia la trasformazione cul­ turale ricordando che « fino alla foggia dei nostri abiti, la medesima cosa che ci è piaciuta dieci anni fa, e che ci piacerà forse ancora tra dieci anni, ci sembra ora stravagante e ridicola » (5).

Pascal si accosta al concetto di cultura trattando delle consuetudini e delle costumanze, e fa anzi opera demistificatrice discutendole. Nei Pensieri (XXIV, 10) sostiene, ad esempio, che quelli che consideriamo princìpi naturali non sono che princìpi consuetudinari, riconoscendo la differenza tra natura e cultura e stabilendo che la consuetudine ( = cultura nel linguaggio antropologico moderno) è « una seconda natura che si oppone alla prima. Nel porre, poi, la giustizia in rapporto alla consuetudine, Pascal (XXIV, 12) ricorda che « le nostre leggi saranno ritenute per giuste senza essere esaminate, perché sono ben stabilite», ma, sottolinea poi, « la moda come fa il dilettevole, così fa il bello ». E avanza il dubbio « relativistico » ancora criticando coloro che (XXIV, 14) « ammettono che la giustizia non consiste nelle costumanze, ma nelle leggi naturali note in ogni paese». Ed osserva al riguardo che non ci sono leggi natu­ rali fra gli uomini, « il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli e dei padri, tutto ha avuto il suo posto fra le azioni virtuose. Si può dar cosa piu buffa di questa, che un uomo abbia il diritto di uccidermi perche abita al di là del fiume, e perché il suo principe è in lite col mio, benché io non abbia nulla contro di lui?» (XXIV, 4). Nulla in sostanza, «seguendo la sola ragione, è giusto in sé: tutto crolla col tempo. La consuetudine fa tutta l’equità, per questa sola ragione che è ammessa da tutti; e questo il fondamento mistico della sua autorità... nulla di più fallace di codeste leggi che raddrizzano i falli; chi vi ottempera perché son giuste ottempera ad una giustizia ch’egli si immagina, non all’essenza della legge... Chi voglia esaminare il suo movente lo troverà così debole e

(5) Cfr. Pt. II, pag. 35, nella edizione tradotta, presentata e commentato da G. De Ruggiero (ed. Vallecchi, Firenze, 1925).

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leggiero, che, se non sia abituato a contemplare i prodigi dell’immagi­ nazione umana, si meraviglierà che abbia potuto ottenere per un dato tempo tanta pompa e tanta riverenza».

Gli autori che abbiano citato quasi a caso, ai quali molti altri se ne dovrebbero aggiungere, mostrano che il pensiero occidentale non sconosceva i problemi che l’antropologia pone oggi sistematicamente in termini scien­ tifici. Tali problemi erano stati messi a fuoco per altri fini, differenti da quelli del costituire una scienza della cultura. Perché questa si costituisse occorreva attendere il realizzarsi di condizioni nei rapporti fra i popoli che favorissero certi orientamenti di pensiero, ed era necessario attendere il costituirsi di altre discipline. Finché l’umanità « progredita » (è diffi­ cile non esprimersi in termini culturicentriei) era chiusa in distretti cul­ turali distinti e grettamente etnocentrici, entro i quali l’uomo realizzava se stesso con la convinzione di essere portatore di verità assolute (nel campo etico, sociale, artistica e del costume in genere), una disciplina relativisticamente orientata quale è l’antropologia culturale non poteva affermarsi. Finché l’economia delle società progredite era fondata su forze produttive frazionate in nuclei irrilevanti e le separazioni classiste e raz­ ziali dominavano la realtà sociale, l’antropologia culturale non poteva pro­ porre i suoi princìpi di rispetto della persona umana in ogni contesto culturale, né la conoscenza delle culture e delle subculture esistenti in uno stesso ambito sociale poteva conseguirsi correttamente. Era necessario che gli uomini spezzassero la clausura dell’etnocentrismo, che i mezzi di comunicazione favorissero l’intercambio fra uomini di culture diverse, che l’economia favorisse il contatto costante di grandi masse di individui appartenenti ad aree subculturali dissimili, che il fenomeno industriale, sviluppandosi poderosamente, imponesse i suoi problemi di mercato (per i quali era indispensabile che molti popoli considerati inferiori evolvessero dal livello di creature primitive, coloniali, marginali a quello di consumatori e di collaboratori); era necessario che la terra divenisse piccola e che la tecnologia riducesse le distanze tra i vari gruppi umani, perché l’antro­ pologia culturale venisse scoperta come lo strumento più adatto per la corretta conoscenza dei più diversi modi di configurarsi delle culture.

Sotto l’aspetto tecnico-scientifico, era poi necessario che si costituissero come scienze l’etnografia, la psicologia; era necessario che la psicoanalisi fornisse le sue teorie da verificare, che la sociologia rendesse attuale il problema delle strutture e del rapporto fra struttura e cultura, ohe la statistica fornisse lo spunto alla discussione sulla interpretazione dei dati sociali e stimolasse l’adozione di tecniche di ricerca quantitativa, che si sviluppasse il pensiero storiografico; erano necessari questi ed altri fattori perché l'antropologia culturale assumesse il suo ruolo negli studi diretti

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alla conoscenza dei fenomeni della cultura. Essa non poteva sorgere che in un mondo nel quale fosse in atto un vasto processo di sprovincializ- zazione. Essa ha così trovato un senso ed una funzione in rapporto all’indi­ rizzo di unità culturale della famiglia umana. Da qui il ruolo che ha avuto ed ha nel combattere pregiudizi sociali.

Ma se ora torniamo al sorgere dell’antropologia culturale come scienza sociale, dobbiamo constatare che la prima sistematizzazione di essa è opera di alcuni studiosi che dall’esame delle istituzioni, del sistema di vita delle società primitive, ricavarono l’atteggiamento di distacco che consentì l’in­ dividuazione dei fenomeni e dei processi culturali che sono alla base di ogni organizzazione sociale. I primi antropologi culturali furono etnologi, anzi alcuni di essi — per la particolare circostanza di essere inseriti nel sistema accademico nord-americano nel quale i dipartimenti di « antropo­ logia » comprendono le discipline che noi designamo come «preistoria», « archeologia », « etnologia », « folklore », « antropologia culturale », « lin­ guistica » ed altre integrative — furono al tempo stesso anche archeologi, linguisti, ecc. Franz Boas, formatosi in Germania e passato poi negli Stati Uniti, ove alla sua scuola si formò la prima generazione di antro­ pologi culturali, fu antropologo fìsico, etnografo, linguista. Ralph Linton fu archeologo, etnografo, antropologo culturale. Edward Sapir fu linguista (si occupò di teoria generale del linguaggio come di linguaggi indo-ameri­ cani, indo-europei, semitici), etnologo (si occupò sia di problemi metodo- logici di ricostruzione cronologica del passato delle popolazioni primitive che di storia delle religioni e della musica) e fu come antropologo culturale un pioniere degli studi sul rapporto cultura-personalità. Alfred Kroeber fu archeologo (in parte anche antropologo fìsico), etnologo, non trascurò la linguistica, fu antropologo culturale. Ruth Benedict fu etnologa e antropoioga culturale, lo stesso può dirsi di Clyde Kluckhohn, Margaret Mead, Burt e Ethel Aginski, Jules Henry, W. Lloyd Warner, Bronislaw Malinowski, Geoffrey Gorer, Robert Redfield. E non abbiamo citato con questi che pochi nomi di autori, ciascuno dei quali in qualche modo con­ tribuì allo sviluppo di qualche parte dell’antropologia culturale.

Tutti questi studiosi, e coloro che ad essi sono seguiti, ove praticano differenti campi di studio sono consapevoli delle differenze di ruolo. Ma di mano in mano che ci veniamo allontanando dalla prima generazione di autori che erano al tempo stesso etnologi e antropologi culturali (e che coltivavano eventualmente anche altre di quelle che nella terminologia anglosassone si chiamano scienze dell’uomo) dobbiamo constatare una sempre maggior differenziazione di interessi. La preparazione di un antro­ pologo culturale richiede altre conoscenze oltre quelle che richiede l’etnologia e viceversa. La convivenza delle varie specializzazioni (antropologia fìsica,

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linguistica, folklore, archeologia — termine con il quale sovente si com­ prende tutta la scienza del passato anche quella che vien da noi designata come preistoria — etnologia, antropologia culturale) è una tradizione. Ma, si può aggiungere, è una tradizione che subisce delle innovazioni, ad esempio con la fondazione dei dipartimenti misti di antropologia e sociologia o dei dipartimenti di «relazioni umane».

L’etnologo segue la propria vocazione dello studio delle popolazioni pri­ mitive. Raccoglie tutti gli elementi della civiltà di ogni popolazione primitiva che può ancora esplorare, così come ha fatto per il passato. Oggi anzi può procedere alla raccolta in modo più sistematico, e lo studio di una società primitiva spesso è compiuto da una équipe interdisciplinare. A ciò si aggiungono mezzi tecnici (registratori, fotografie, cineprese, ecc.) che consentono una nuova precisione. E proprio in virtù di questa nuova impostazione tecnica i vecchi studi sulle popolazioni primitive appaiono spesso incompleti, e inutilizzabili ai fini di certe teorizzazioni od analisi.

L’etnologo, come fa l’archeologo per le società estinte senza lasciar memoria scritta del loro modo di vivere, raccoglie tutti i documenti che testimoniano della vita, degli usi, dei costumi, del modo di pensare e di agire delle società primitive. In tal modo mette a nostra disposizione un vasto materiale sulle diverse soluzioni che le diverse società hanno saputo trovare per i loro problemi esistenziali, cerca di identificare la posizione delle società « illetterate » (cioè che non conoscono la tecnica della scrit­ tura) nella storia ideale dello sviluppo umano, tenta la ricostruzione crono­ logica dello sviluppo di usi, costumi o, in certi casi, di forme di civiltà. Gli evoluzionisti hanno tentato soprattutto l’identificazione della posi­ zione delle società primitive in schemi ideali, costruiti aprioristicamente, dello sviluppo delle istituzioni umane o delle civiltà umane. Tali ricostru­ zioni erano, però, troppo spesso arbitrarie ed ingenue ed hanno fornito lo spunto ad una scuola opposta di criticare le loro procedure e la loro impostazione teorica. Ci riferiamo alla scuola che si chiamò « storico­ culturale », ed trovò i suoi maggiori cultori nel mondo germanico, la quale ebbe anche essa il difetto di esagerare l’importanza del mondo primitivo come fossile umano vivente, attribuendo al presente primitivo una antichità che rimane da provare. Sull’operato di queste scuole rimane valida la critica mossa dal nostro Ernesto De Martino in Naturalismo e storicismo nella moderna etnologia, che se pure è da aggiornare rimane fondamentale (6). Va aggiunto anche che molti di questi etnologi hanno spesso scambiato la ricerca cronologica con la ricerca storica, pur se hanno lavorato con molto impegno. Contro di essi si appuntarono anche

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le critiche di Franz Boas, sospettoso nei confronti di tutte le ricostruzioni troppo vaste, e contro di essi Alfred Kroeber impostò una polemica per precisare cosa deve intendersi per storia, richiamandosi ad un concetto di storia diacronica e storia sincronica (impostazione che il Boas tuttavia non sembrò accettare).

Il Boas, contrario alle ricostruzioni cronologiche troppo ampie (indebi­ tamente considerate ricostruzioni storiche) trasmise questo orientamento critico ai propri allievi, i quali cercarono nuove vie per comprendere (non per descrivere) le società primitive, e poi cercarono di estendere questo metodo alle società contemporanee. Nacque così l’antropologia culturale, come ricerca non dello svolgimento di storie tribali, o di istituzioni, o di gruppi di istituzioni umane, ma come ricerca di ciò che caratterizza lo spirito di una popolazione, dei suoi valori; del rapporto cioè che intercorre tra questi e le passate esperienze, l’ambiente geografico e demografico, i sistemi economici, l’organizzazione politica, ecc. di un popolo. Si venne così caratterizzando una antropologia culturale che doveva prendere le mosse da un concetto di « cultura » differente da quello di « civiltà ». Ciò che interessava il nuovo antropologo era l’atteggiamento del gruppo umano studiato nei confronti della realtà, era scoprire come questo atteg­ giamento si viene costituendo in un contesto sociale in movimento, stori­ camente vivo. La descrizione etnografica serve da sfondo alla ricerca culturologica nuova, che tuttavia non si esaurisce e non può esaurirsi in essa. Essa viene utilizzata così come viene utilizzata ogni conoscenza economica, strutturale, ecc. che evidenzia la volontà del gruppo di muovere verso certi obiettivi. L’interesse per la storia è fondamentale, ma all’antro­ pologo culturale occorre una storia che non sia solo cronaca, che non si esaurisca nella registrazione dell’avvenimento politico. Da qui scaturisce una polemica nei confronti di certi storici, la quale, nel fervore della discussione, viene scambiata per polemica nei confronti di tutti gli storici ; ed è stato merito, tra gli altri, del Kroeber Taverne ristabilito le finalità. Ma assurge a importanza fondamentale lo studio del rapporto individuo- cultura, poiché è nel singolo individuo che si realizza concretamente la cultura ed è attraverso i singoli individui che si crea la comunicazione culturale. L’accento posto su questi studi fa sì che l’antropologia si identifica quasi, in un primo momento, con lo studio del rapporto personalità- cultura. Ma è via via che si precisano i fini di questo studio in rapporto a differenti ipotesi e metodi di lavoro (identificazione della personalità di base, esame delle culture e sottoculture nazionali, processi di sviluppo, interventi in aree in via di industrializzazione o, comunque, di trasfor­ mazione, esame della eziologia patologica sociale o individuale, ecc.) che l’equivoco si chiarisce. Come si chiarisce anche col tempo 1 equivoco della

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identificazione dell’antropologia culturale col funzionalismo malinowschiano e con lo strutturalismo inglese.

Si abbandonano anche talune ingenue, o talvolta malevole, denominazioni quali « antropologia applicata », con le quali si vuol designare la nuova scienza al servizio dell’amministrazione coloniale, dell’industria o degli operatori politici in genere, anche se gli uomini di azione cercano di trarre partito dalle sue analisi della realtà. Ma al di là delle utilizzazioni parti­ colari, inevitabili nei confronti di una scienza che intende comprendere l’uomo, si precisa il carattere demistificante dell’insegnamento, della filosofia culturologica. Questo prende anzi il sopravvento su tutte le altre interpre­ tazioni della sua funzione nella storia della scienza. In questa direzione si impegnano molti antropologi, pur senza illudersi di non essere essi stessi al di fuori della cultura, di non essere essi stessi al di sopra delle passioni. Il dibattito sulla obiettività scientifica si svolge ad un livello di consapevolezza e di umiltà che fa onore ad alcuni dei maggiori cultori della disciplina attraverso le conclusioni che essi sanno trarre dalle loro esperienze.

La rapida affermazione, il successo che l’antropologia culturale ha avuto nel mondo scientifico, come in quello degli operatori sociali, non sono esenti, però, da pericoli. Questi possono profilarsi in più direzioni. Ad esempio l’entusiasmo per i fini che essa persegue possono far perdere di vista i limiti nei quali deve contenersi l’azione sociale degli antropologi, i quali non possono trasformarsi in missionari sociali, in riformatori, in « ingegneri sociali » : una confusione di ruoli non giova né alla conoscenza, né all’azione. L’interesse per alcuni argomenti che l’antropologia in certi momenti tratta a preferenza di altri per l’urgenza che essi hanno in quei dati momenti storici, non deve far scambiare l’antropologia per la scienza di quegli argomenti. Se per l’importanza che assumono i pregiudizi raz­ ziali l’antropologia dedica molte energie allo studio di questi, essa non deve tuttavia esser considerata la scienza dei problemi razziali, ma solo una scienza che ad essi dà un proprio contributo. Se per l’importanza che assumono i problemi della emancipazione femminile o dei rapporti tra i sessi nel mondo moderno l’antropologia dedica largo campo ad essi, non deve tuttavia essere scambiata per la teorizzazione del femminismo o per una moderna sessualogia, ma solo come un metodo di conoscenza che offre dei propri contributi al chiarimento di situazioni e problemi del genere.

Un altro pericolo può venire dal successo che riscuote la letteratura antropologica (molte opere antropologiche sono annoverate tra i best sellerà), e ciò può spingere gli editori ad accogliere o a favorire una produzione di basso livello, per indulgere ad una tendenza nel pubblico verso

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certi argomenti trattati in una certa maniera. Gli stessi motivi possono spingere molti scrittori a improvvisarsi antropologi, senza avere la adeguata preparazione e senza aver meditato abbastanza su ciò che producono e che ritengono di carattere antropologico-scientifico, anche se è piuttosto di carattere antropologico-intuitivo. E parte di questa produzione può essere di enorme interesse per la identificazione di ipotesi, per la evidenziazione di problemi, che ovviamente poi richiederanno altri approfondimenti. Ma il pericolo maggiore non viene da questi autori — i quali appunto per la loro acutezza di osservazione sono consapevoli dei loro limiti — quanto da coloro i quali possono utilizzare l’etichetta antropologica per trattare argomenti di successo tra il pubblico (ad esempio sessuologici) e ornare di un belletto scientifico delle personali o banali osservazioni. E’ ovvia­ mente compito della critica agire con severità nei confronti di queste intrusioni.

La richiesta della società per l’analisi antropologica è tuttavia un dato indiscusso: il pubblico desidera certe informazioni che possono giungergli ad un livello accettabile di obbiettività attraverso l’analisi antropologica, e gli operatori politici e sociali hanno bisogno di dati culturali in misura sempre crescente e per i fini più vari. A questo riguardo ci sembra opportuno porre il problema in termini nazionali. Chi potrà fornire tali dati se non esistono le sedi nelle quali gli specialisti vengono formati, se non esistono incentivi alla formazione di questi? La mancanza di spe­ cialisti non può essere oggi considerata soltanto come una deficienza nelle strutture di uno stato in formazione, ma va piuttosto considerata come una responsabilità da parte di uno stato, che nell’impegno di riassetto e razionalizzazione delle proprie strutture non ha ancora pensato a includere nell’ordine delle priorità la preparazione di quegli specialisti che a tale processo di riassetto e razionalizzazione sono in grado di fornire un con­ tributo concreto. Poiché il luogo della formazione specialistica è 1 uni­ versità, l’antropologia culturale deve entrare nelle università a livello di dignità pari a quello con il quale vi sono entrate e vi entrano le altre discipline che hanno una funzione da adempiere nella preparazione della classe dirigente. Cioè non deve entrare casualmente in questa od in quella facoltà a seconda delle sensibilità e delle possibilità dei consigli di facoltà e dei senati accademici. Deve essere considerata a seconda dei casi insegnamento fondamentale o complementare, deve avere la sicurezza di una continuità didattica garantita dalla istituzione graduale e a seconda dei casi — di cattedre tenute non solo da incaricati annuali, ma anche da ordinari. In certe facoltà sarà opportuno che la cattedra sia completata dalla istituzione di istituti nell’ambito dei quali sia possibile stimolare e

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far lavorare i giovani che intendano specializzarsi, al fine di scegliere fra di essi i migliori.

Occorre, tuttavia, tener presente che l’insegnamento dell’antropologia culturale nelle università non deve avere solo il fine di creare degli specia­ listi per la ricerca e l’analisi antropologica, ma anche quello di informare i futuri professionisti su problemi che concerneranno la loro attività. In questa prospettiva appare opportuno l’inserimento della disciplina non solo nelle facoltà di scienze politiche e sociali (nelle quali però deve essere considerata non tra le materie a scelta, ma tra quelle obbligatorie), ma anche in molte altre facoltà, ad esempio in quelle di lettere e in quelle di magistero, destinate alla preparazione di docenti i quali non possono ignorare i problemi culturologici nella loro azione: in esse l’inse­ rimento dovrebbe avere carattere di urgenza nell’ambito di un piano di riforma.

I saggi che seguono — dei quali alcuni sono propriamente teorici, altri più spiccatamente didattici — mostrano alcuni aspetti ed applicazioni del­ l’antropologia, ed essi non hanno un senso se non considerati nel quadro del più generale contributo che « Centro Sociale » ha dato e offre alla puntualizzazione e divulgazione delle problematiche antropologiche. Ed è proprio ricordando tale azione che ci è parso opportuno, in questa sede, di far cenno anche alla responsabilità di chi trascura l’azione per lo sviluppo di una scienza che ha una insostituibile funzione in un mondo che sta compiendo delle scelte culturali fondamentali.

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Individuo e cultura

nel pensiero di Abram Kardiner

di Gualtiero Harrison

La reciproca relazione di congenialità tra il gruppo di caratteristiclie psichiche e comportamentali degli individui e il campo totale delle istituzioni di una data cultura

Differenze caratteriali e differenze culturali tra i vari gruppi umani - La comune natura delle nazioni secondo G. Vico - Le speculazioni teorico-metafisiche sul problema delle differenze tra i popoli - La spiegazione « culturale » della moderna antropologia - La ricerca delle interrelazioni fra le differenze^ di cultura e le differenze di personalità nella dottrina di A. Kardiner - Definizione di Basic Personality Structure (*) - Il Seminario kardineriano - Lo « studio dell'uomo » e il coordinamento interdisciplina/re di scienze sociali e scienze psicologiche - La visione olistica della cultura e Videntificazione in M. Mauss dell'uomo totale e del fatto sociale totale - La « struttura della personalità di base », concetto strutturale e basico, genetico e integrativo - I postulati al con­ cetto secondo R. Linton - I sistemi di «valori-atteggiamenti» che sono alla base della configurazione della personalità individuale - La « struttura » della personalità di base » quale « matrice » dei tratti caratteriali individuali - 1 precedenti della nozione kardineriana negli scritti di Erodoto e di Cesare - La dottrina kardineriana quale metodologia di ricerca - La « fecondità » della nozione di « struttura della personalità di base » - L'indispensabile unità delle conoscenze umane - La dottrina kardineriana quale ipotesi di ricerca - La « coerenza psicologica » che spiega tanto l'integrazione culturale quanto il tipo di personalità caratteristico dei membri di una società.

(*) Il termine « Basic Personality Structure » è di solito tradotto abbreviato in « personalità di base ». (Cfr. Mikel Dufrenne, La personnalité de base. Un

concept sociologique, Presses Universitaires de France, Parigi, 1953; Antonio

Miotto, La « personalità di base » nel pensiero di A. Kardiner, in « Rivista di

psicologia», anno L, fase. II, aprile-giugno 1956, pagg. 125-141). Nella tradu­ zione italiana di due opere di Abram Kardiner, They Studied Man e The

Individuai and His Society, Enzo Sticco e Elena Spagnol Vaccari propongono come traduzione « struttura della personalità di base ». Franco Ferrarotti nella Premessa alla traduzione italiana di: Jean Stoetzel, La psychologie sociale

(Flammarion, Parigi, 1963) a cura di A. Catemario (Psicologia sociale, Armando Armando, Roma, 1964), rifacendosi allo stesso Stoetzel preferisce la termino­ logia « struttura fondamentale della personalità ». Questa ultima traduzione è quella che si avvicina forse più fedelmente al significato voluto dal suo autore. In questo articolo, però, per evitare la confusione con la terminologia adottata dai traduttori ufficiali di Kardiner, verrà usata l’espressione « struttura della per­ sonalità di base ».

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Oggi l’antropologia culturale si propone di postulare concettualmente l’antica area di speculazione propria della Völkerpsychologie. Giambattista Vico imposta in termini espliciti il problema nei suoi Principi di' scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1), e per tutto T800 storici e filosofi, psicologi e sociologi studiano le caratteristiche psichiche e culturali dei vari gruppi umani, rubricando i dati sotto la generica accezione di « spirito del popolo », o, come si dice con un linguaggio più alla moda, di « carattere nazionale ». Il maggior contributo dato dall’antro­ pologia culturale a questo campo di studi è quello di aver dimostrato che le differenze caratteriali dei vari popoli non sono dovute alla « razza » o alla « mente di gruppo », al « clima » o alla « geografia », ma alla «

cul-(1) « Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose » (147).

« Le proprietà inseparabili da’ subbietti devon essere produtte dalla modifi­ cazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci posson avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose » (148).

La coincidenza, in queste due « degnità » vichiane — la XIV e la XV — del­ l’origine storica e della natura, non solo è il fondamento dello storicismo asso­ luto : è anche un precorrere tutta l’antropologia culturale nella sua più recente rubrica di « cultura e personalità ». Relazionando le differenze tra i popoli ad una natura comune, Vico postula l’interazione tra istituti culturali e caratteri dei membri che, nel suo produrre un particolare nascimento,

caratterizza le molteplici diversità in certi tempi e con certe guise e fornisce a un tempo uno strumento concettuale, per l’universale comprensione delle unicità e delle differenze.

« E’ necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modifi­ cazioni per quanti diversi aspetti possan avere esse cose; siccome lo sperimen­ tiamo vero ne’ proverbi, che sono massime di sapienza volgare, l’istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante élleno sono, per tanti diversi aspetti significate » (161).

« Ma pur rimane la grandissima difficultà : come, quanti sono i popoli, tante sono le lingue volgari diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa gran verità: che, come certamente i popoli per la diversità de’ climi han sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanti costumi diversi; così dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la medesima diversità delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilità o necessità della vita umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo più diverse ed alle volte tra lor contrarie costumanze di nazioni; così e non altrimente son uscite in tante lingue, quant’esse sono, diverse... » (445).

Cfr. Giambattista Vico, Principi di scienza nuova d’intorno alla comune

natura delle nazioni, in questa terza impressione dal medesimo autore in un gran numero di luoghi corretta, schiarita e notabilmente accresciuta, 17UU.

Nell’edizione delle opere di G. Vico, a cura di Fausto Nicolini, Ricciardi,

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tura » (2). Le differenze nella personalità sono così da relazionare alla cultura che plasma la personalità dell’individuo: reciprocamente, le diffe­ renze culturali sono « funzioni » delle differenze nella personalità. Nel­ l’ambito di queste ricerche, la dottrina della Basic Personality Structure (Struttura della personalità di base) rappresenta l’apporto teoretico e meto­ dologico più interessante.

Col termine « struttura della personalità di base » si definisce, pertanto, quella costruzione esplicativa dei tipi di personalità caratteristici delle varie culture, ed insieme il processo per cui una data cultura risulta essa stessa coerente e congeniale a un determinato tipo di personalità. Abram Kardiner, psicoanalista e psichiatra americano, usa questa denominazione, per la prima volta, nel 1939, per indicare « quel gruppo di caratteristiche psichi­ che e comportamentali derivate dal contatto con le stesse istituzioni, quali linguaggio, specifiche connotazioni, ecc. » (3), nel tentativo di ovviare alla indeterminatezza dei termini « carattere di gruppo », « carattere nazio­ nale », « carattere sociale », « carattere o mente collettiva » : « perché un gruppo non può avere in comune un carattere, non più di quanto possa avere in comune un’anima o un paio di polmoni » (4).

Nell’uso, la denominazione di « struttura della personalità di base » defi­ nisce complessivamente la teoria che Kardiner è andato elaborando in questi ultimi trent’anni : essa è il risultato della intensa collaborazione di un gruppo di studiosi che, nella primavera del 1936, si riuniscono presso l’Istituto psicoanalitico della Columbia University di New York. A questo

(2) Col termine « cultura », l’antropologo culturale intende indicare «la. disposizione ad affrontare la realtà, disposizione che si costituisce negli individui in quanto membri di una società storicamente determinatasi e determinantesi ». La cultura, come, vuole Tullio Tentori, designa « quel patrimonio sociale dei gruppi umani, che comprende conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli, norme, valori, nonché le disposizioni all’azione che da tutti questi derivano e che si concretizzano in schemi e tecniche d’attività tipici di ogni società ». Cfr. Tullio Tentori, Antropologia, culturale, Studium, Roma, 1960, pag. 8 segg.

Dello stesso autore, Il concetto di cultura, in « Antologia di scienze sociali », voi I Teoria e ricerca nelle scienze sociali, a cura di Angelo Pagani, li

Mulinò, Bologna, 1960, pagg. 273-282. Per una storia del concetto antropologico di «cultura» v. AlfredL. Kroeberand Clyde Kluckhohn, Culture: A Criticai

Review of Concepts and Definitions. Papers of thè Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology of Harvard University, Cambridge, Mass., 1952, voi. 47, pagg. 1-223. (3) Abram Kardiner, The Individuai and His Society. The Psychodvnamics _ _,. _ of Primitive Social Organization, Columbia University Press, New York, 1939, pag. 12. Trad. italiana di E. Spagnol Vaccari, L’individuo e la sua società, Bompiani, Milano, 1965. (4) Abram Kardiner (with thè collaboration of Ralph Linton, Cora_Du Bois and James West), The Psychological Frontiers of Society, Columbia University

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primo seminario e ai successivi partecipano alcuni tra i più importanti antropologi americani : Ruth Benedict e Ruth Bunzel, Cora Du Bois e Ralph Linton.

Una comune esigenza lega i membri del « Seminario kardineriano » : coordinare ed integrare le teorie, i metodi e le ricerche della psicologia analitica e dell’antropologia culturale.

« Lo “ studio dell’uomo ” è certamente un’etichetta un po’ presuntuosa, per non dire assurda, se applicata all’attuale antropologia accademica » — scrive Bronislaw Malinowski (5). E Kardiner, ad apertura del suo libro The Psychologiccd Frontiers of Society, ribadisce che « oggi non c’è nessuna disciplina che meriti di essere definita come scienza della società ; c’è solo un gruppo di scienze sociali, ciascuna delle quali vive isolata e chiusa in se stessa per quanto riguarda l’argomento trattato » (6). In un suo scritto, incluso nel libro di Cora Du Bois The People of Alor, lo stesso Kardiner afferma, tuttavia, che « lo studio della relazione esistente tra gli individui che compongono la società, con le istituzioni da cui sono modellati e in cui vivono, e finalmente della relazione che lega le istituzioni l’una all’al­ tra (...) può diventare la base di una scienza della società» (7).

Il lavoro del Seminario kardineriano va visto, quindi, come il ten­ tativo di realizzare un nuovo orientamento scientifico, appunto, interdi­ sciplinare. Una « scienza della società » dunque nuova, e tale quale la vuole Marcel Mauss (8), quando richiede che il sociale si incarni nell’espe­ rienza individuale e che l’osservazione della realtà sociale si integri all’os­ servazione del « comportamento di esseri totali, e non divisi in facoltà » : « il semplice studio di quel frammento di vita che è la nostra vita in società non è sufficiente ». Questa esigenza di Mauss — che è poi l’esigenza di Karl Marx — di una identificazione dell’w.omo totale e del fatto sociale totale, per definire e comprendere la realtà, si sviluppa nelle scienze umane e sociali americane, con la ricerca di una sintesi psico-culturale che con­ senta di vedere la cultura « come un tutto » e di spiegare la « rassomi­ glianza » fra cultura e individuo (9).

(5) Bronislaw Malinowski, A Scientific Theory of Culture and Other

Essays, The University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1944. Trad. italiana di G. Faina: Teoria scientifica della cultura e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1962, pag. 13.

(6) Abram Kardiner, The Psychological Frontiers of Society, op. cit., pag. 1.

(7) Abram Kardiner, An Elaboration to « The People of Alor », in Cora

Du Bois, « The People of Alor », Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1960 (1* ediz. 1944), pag. 6.(8)

Marcel Mauss, Sociologie et anthropologie, Presses Universitaires de

France, Parigi, 1950. Trad. italiana di F. Zannino: Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965. Cfr. in particolare la parte terza, Rapporti reali e pratici tra la psicologia e la sociologia, pagg. 293-326.

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Il concetto di «struttura della personalità di base» descrive la costellazione delle caratteristiche di personalità che appaiono congeniali al campo totale delle istituzioni comprese in una data cultura : ed è un concetto « struttu­ rale e basico, genetico e integrativo » (10). In questo senso delinea quella configurazione della personalità che è condivisa dal nucleo dei membri di una società come risultato delle prime esperienze che hanno avuto in comune. Il concetto poggia — secondo Linton (11) — sui seguenti postulati:

1. Le prime esperienze deH’individuo esercitano un effetto duraturo sulla sua personalità, soprattutto sullo sviluppo dei suoi sistemi proiettivi.

2. Esperienze analoghe tenderanno a produrre configurazioni di per­ sonalità simili negli individui che le condividono.

3. Le tecniche che i membri di ogni società impiegano nella cura e nell’allevamento dei bambini, sono modellate culturalmente e tenderanno ad essere similari, anche se mai identiche, per le varie famiglie all interno della società.

Tali postulati — aggiunge ancora Linton — sembrano essere sostenuti dalla forza dell’evidenza, e da essi consegue che:

1. I membri di ogni data società avranno molti elementi della loro prima esperienza in comune.

2. Da ciò risulterà che avranno molti elementi della personalità in comune. 3. Poiché le prime esperienze degli individui variano da una società all’altra, anche le norme di personalità, e i conseguenti tipi fondamentali di personalità, saranno differenti per le varie società.

La struttura della personalità di base non corrisponde perciò alla per­ sonalità totale dell’individuo, ma piuttosto ai suoi sistemi proiettivi — o, per usare la definizione antropologica, ai suoi sistemi di « valori-atteg­ giamenti » (12) — che sono alla base della configurazione della perso­ nalità individuale. La cultura determina così un « tipo di personalità di La libertà comunista. Saggio di una critica della ragion « pura » pratica, Avanti, Messina, 1946; e per un’analisi parallela delle posizioni teoriche di Karl Marx e di Max Weber, sulla totalità quale vera categoria della realta cfr.

Franco Ferrarotti, Verso l’autonomia del giudizio sociologico - I. Max Weber,

Istituto Universitario di Scienze Sociali, Trento, 1965, pag. 107 segg.

(10) Abram Kardiner, An Elaboration to e. The People of Alar », op. cit.,

(11) Ralph Linton, Foreword to The Psychological Frontiers of Society, op.

cit.,(12) R pag. VIII.alph Linton, The Cultural Background of Personality, The Interna­ tional Library of Sociology and Social Reconstruction, Londra, 1958, 3* ediz. (1* ediz New York, 1945), passim; ed inoltre dello stesso autore cfr. The Study

of Man’ Appleton, New York, 1936 (in particolare il cap. XVI, Culture and Personality, pagg. 464-478).

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base » che si riflette in molte forme di comportamento e può entrare in molte differenti configurazioni della personalità totale. La struttura della personalità di base è quindi una « matrice », nella quale si sviluppano i tratti caratteriali individuali, e rappresenta a un tempo lo stile di vita caratteristico di una società e la base della personalità dei suoi membri (13). Come ammette lo stesso Kardiner, questa nozione è vecchia di millenni. Ne troviamo implicita traccia negli scritti di Erodoto e di Cesare : entrambi questi autori riconoscono che i popoli da essi descritti non solo hanno pratiche e costumi unici, ma sono unici anche nel temperamento, nella disposizione e nel carattere (14).

Ma la dottrina kardineriana va guardata soprattutto come una metodo­ logia di ricerca. Lo stesso Kardiner, del resto, afferma che la « struttura della personalità di base » non è altro che uno strumento, una tecnica, per lo studio del rapporto tra cultura e personalità (15): va giudicata allora nella concreta interpretazione del fenomeno culturale, e non come dedu­ zione logica di astratti postulati. Bisogna vedere all’opera il contributo di Kardiner per apprezzarne ciò che più importa al suo autore : la fecondità, attraverso la quale « la vecchia nozione di carattere nazionale si trova ringiovanita e giustificata » (16). Questa fecondità, come pare, è il risultato della collaborazione interdisciplinare del Seminario kardineriano e fornisce una nuova base all’unità delle conoscenze umane, oggi ricercata dalla mag­ gioranza degli scienziati sociali (17).

(13) Abram Kardiner, Psychodynamics and Social Sciences, in Stephen S.

Sargentand Marian W. Smith (Eds.), « Culture and Personality », Proceedings

of an Interdisciplinary Conference Held under thè Auspices of Viking Found., nov. 7-8, 1947, Viking Found., New York, 1949.

(14) Abram Kardiner, The Individuai and His Society, op. cit., pag. 131, e

The Psychological Frontiers of Society, op. cit., pag. 24. (15) Ibidem, pag. 15.

(16) Cfr. Mikel Dufrenne, La personnalité de base. Un concepì sociologique,

Presses Universitaires de France, Parigi, 1953, pag. 131.

(17) In quest’ambito interdisciplinare gli studiosi italiani dell’uomo e della società hanno ribadito l’importanza della teoria kardineriana, quale valido strumento per lo studio dei rapporti fra « cultura e personalità » e per l’inter­ pretazione unitaria della realtà sociale ed umana.

Cfr. Filippo Barbano, Teoria e ricerca nella sociologia contemporanea, Giuf-

frè, Milano, 1955, pagg. 73-81; dello stesso autore, Cultura e personalità nel pensiero sociologico americano, in « Il pensiero americano contemporaneo. Scienze sociali », a cura di Ferruccio Rossi Landi, Comunità, Milano, 1958, pagg. 3-36; dello stesso autore, ancora, La sociologia e le altre scienze sociali, in « L’integrazione delle scienze sociali. Città e campagna », Atti del I Con­ vegno naz. di scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1958, pagg. 197-207.

Cfr. Franco Ferrarotti, Premessa a Psicologia sociale di Jean Stoetzel,

op. cit., pagg. 7-11.

Cfr. Angiola Massucco Costa, Intercaratterologia e personalità di base, in

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La « struttura della personalità di base » può essere configurata così, come una « ipotesi di ricerca » per spiegare due fenomeni di ordine diverso : l’interrelazione tra le diverse istituzioni di una cultura e le somiglianze di personalità fra i vari membri di una società. In realtà la teoria coordina i due problemi, asserendo che è la stessa « coerenza psicologica » a spie­ gare tanto l’integrazione culturale quanto il tipo di personalità caratteri­ stico. Serve così a descrivere l’ambito entro cui si forma il carattere indi­ viduale e insieme gli efficaci strumenti di adattamento, che sono comuni ad ogni individuo nella società (18).

La coerenza tra le diverse istituzioni di una cultura e la configurazione di personalità degli individui

Il comune denominatore della personalità degli individui, «punto focale» del­ l’integrazione culturale - « Cultura » secondo R. Linton - L’adattamento del­ iindividuo. alla cultura che riflette un sistema di attitudini e di valori - La Rapporti tra psicologia sociale e le altre scienze sociali, in « L’integrazione delle scienze sociali. Città e campagna», Cfr op. cit., pagg. 219-228.

Antonio Miotto, La « personalità di base » nel pensiero di A. Kardmer,

in « Rivista di psicologia », a. L, fase. II, 1956, pagg. 125-141; dello stesso autore La formazione della personalità, in « Antologia di scienze sociali », voi. I, Teoria e ricerca nelle scienze sociali, a cura di Angelo Pagani, op. cit., pagg. 131-137.

Cfr. Antonio Santucci, Sul significato di cultura nella moderna prospettiva

sociologica, in « L’integrazione delle scienze sociali. Città e campagna », op. cit., pagg. 255-276.Cfr. Tullio Tentoei, Antropologia culturale, op. cit., pagg. 81-196; dello stesso autore v. inoltre, Il concetto di cultura, op. cit., e Alcuni aspetti dell an­ tropologia culturale, in « Sociologia », n. 1, 1957, pagg. 1-25.

Cfr. Liliana Bonacini Seppilli, Romano Calisi, Guido Cantalamessa Car­ boni, Tullio Seppilli, Amalia Signorelli, Tullio Tentori, L’antropologia

culturale nel quadro delle scienze dell’uomo. Appunti per un memorandum, in « L’integrazione delle scienze sociali. Città e campagna », op. cit., pagg. 235-253.

Per una ricerca operativa condotta secondo una metodologia di ispirazione kardineriana, cfr. inoltre il gruppo di ricerche realizzate da P. G. Grasso, in

Pier Giovanni Grasso, I giovani stanno cambiando. Risultati di ricerche psico­

sociologiche sul quadro giovanile di valori, PAS Verlag, Zurigo, 1963.

Cfr. infine Luciano Cavalli, La socializzazione, in « Antologia di scienze

sociali », voi. I, Teoria e ricerca, op. cit., pagg. 403-462. In questo a,rticolo Cavalli si rifà alla posizione polemica di Talcott Parsons nei confronti della teoria kardineriana; citando il Parsons — del quale condivide integralmente le posizioni — enfatizza l’importanza della « sua elaborazione del concetto di per­ sonalità di base » (ibidem, pag. 411), e al tempo stesso liquida, troppo rapida­ mente, l’impostazione teorica dello psichiatra Kardiner che, in questo scritto del Cavalli, è presentato come uno degli antropologi della scuola di « cultura e personalità»; «Questa è la personalità basica che antropologi psicoanalitica- mente orientati, come Kardiner, hanno spiegato soprattutto con le esperienze dei primi anni di vita » (18) A (ibidem).

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teoria kardineriana quale contributo risolutore al problema configurazionale di R. Benedict e al problema della coerenza istituzionale di B. Malinowski - I « tipi psicologici » di R. Benedict e i pattem s culturali - Le costellazioni carat­ teristiche inconscie generatesi a seguito dell’adattamento dell’individuo alle istitu­ zioni primarie - L’azione della struttura della personalità di base nel determi­ nare il « tono emozionale » delle istituzioni secondarie - Lo « schema evolutivo » degli antropologi evoluzionisti - La cultura e la personalità secondo S. Freud - L’istituzione, nuova unità di base delle scienze umane e sociali, secondo E. Dur­ kheim e F. Boas - Il problema delle interrelazioni istituzionali in un contesto culturale specifico - L’unità umana quale variabile per l’analisi funzionale delle istituzioni - La compatibilità delle istituzioni all’interno di una cultura - La spiegazione analogica con le entità scoperte in psicopatologia - Mutua compa­ tibilità e compatibilità individuale delle istituzioni con i vari aspetti della struttura della personalità di base - L’integrazione culturale, fenomeno tridi­ mensionale secondo R. Linton - L’applicazione della psicodinamica ai dati antropologici spiega il modellarsi della personalità in funzione delle istituzioni, e insieme l’esistenza di fenomeni secondari (miti, religione, folklore) originati da tale struttura della personalità di base - I tre sistemi collegati di conoscenza : processi omeostatici, personalità di base, dinamiche culturali.

Abram Kardiner colloca il « punto focale » dell’integrazione culturale nel comune denominatore della personalità degli individui che fanno parte di una cultura. Cultura — come la definisce Linton — è « una maniera di organizzare i modi dei responsi in relazione alle varie situazioni che si ripetono » (19). Questi modi, nei confronti delle diverse situazioni, sono adattati mutualmente: e questi adattamenti costituiscono il rapporto che è alla base dell’integrazione funzionale. I vari modi riflettono reciproca­ mente la presenza di un sistema particolare di attitudini e di valori, cioè un allineamento di base della personalità comune ai membri « normali » della società. La teoria kardineriana si rifà così alla problematica di Ruth Benedict, e insieme a quella degli antropologi funzionalisti.

Ruth Benedict tenta infatti di ottenere dai dati culturali caratterizzazioni psicologiche di culture totali, nei termini di alcuni « tipi psicologici », descrittivamente presentati come adatti ai valori dominanti e al generale pattern della cultura. Kardiner, invece, estrae questa « configurazione » dalle costellazioni caratteristiche inconscie, generatesi negli individui in rapporto alle loro prime esperienze, nella fase cioè del loro adattamento alle con­ dizioni ambientali, naturali e sociali, in cui si trovano a nascere e vivere. Queste condizioni sono definite da Kardiner istituzioni di base della cul­ tura — o « istituzioni primarie ». Le « costellazioni psicologiche caratte­ ristiche » — o struttura della personalità di base —- esercitano una mediazione, e un’influenza, determinando soprattutto il « tono emozionale » su quegli altri aspetti culturali, nei quali e attraverso i quali si esprimono

(19) Ralph Linton, Foreword to The Individual and His Society, op. cit.,

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