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CAPITOLO 2: Analisi di un nuovo mercato

1.4. L’accessibilità dei paesi

Come già introdotto in precedenza, l’accessibilità è data dalla presenza o meno di barriere all’ingresso che rendono difficile l’entrata nel Paese. Oltre a questo fattore, anche l’ambiente competitivo deve essere analizzato, considerando le caratteristiche della domanda e degli altri operatori nel mercato, sia locali che internazionali. Alcuni di questi possono essere aziende di cui si conoscono già le caratteristiche, ma altri possono risultare del tutto sconosciuti. Una volta individuati, l’impresa dovrà recuperare tutte le informazioni possibili e capire quali sono i vantaggi competitivi che la distinguono da questi. Andranno prese in esame la strategia adottata, le risorse e le competenze di cui si dispone e gli obiettivi perseguiti. Un quadro sintetico della strategia dei concorrenti può aiutare a prevedere le loro mosse future. Le infrastrutture di marketing sono un altro elemento da considerare quando si parla di ambiente competitivo: questa barriera concorrenziale è rappresentata dalla presenza o meno di canali di distribuzione e comunicazione e dalle loro caratteristiche. I canali distributivi possono essere diversi dal Paese di origine per tipologia di sbocchi commerciali (sia per la grande distribuzione che per quella tradizionale), dinamica dei rapporti industria/distribuzione e i servizi accessori. In India, ad esempio, la presenza sul territorio di grandi magazzini e centri commerciali è minima e i prodotti di uso quotidiano vengono invece comprati nei piccoli negozietti che invadono le strade delle città chiamati “kirana stores”. Nei piccoli villaggi indiani inoltre non si riesce ad arrivare con i mezzi a motore come treni, camion e automobili.

Oltre a queste problematiche, si aggiungono anche quelle delle barriere artificiali, ossia impedimenti che nascono da provvedimenti del governo locale atti a ostacolare l’ingresso di imprese straniere nel Paese. A tal proposito, sono nate organizzazioni internazionali che si impegnano a garantire la riduzione di questi ostacoli. Un esempio è la WTO, la World Trade Organization, che regola e gestisce le negoziazioni multilaterali dei 164 Paesi membri (World Trade Organization, 2016). Questa organizzazione si è occupata di armonizzare il concetto di “paese di origine”, la cui definizione prima era a discrezione di ogni singolo stato. Nasceva però un problema di attribuzione dell’origine effettiva

merce è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata, effettuata da un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o che abbia presentato una fase importante del processo di fabbricazione” (Valdani & Bertoli, 2014).

In generale, però, non esiste alcun paese in cui vi sia una forma di commercio completamente libero. Le motivazioni per fare in modo che questo scenario non si verifichi sono tante: la prima è la volontà di migliorare la bilancia dei pagamenti (Valdani & Bertoli, 2014). La domanda interna viene infatti dirottata verso i produttori nazionali, che assumono più personale. L’aumento dei redditi e quindi della capacità di spesa permette il risanamento dei conti con l’estero. Questo meccanismo generà però un circolo vizioso, nel quale anche i paesi esteri diminuiscono le importazioni e aumentano le barriere all’entrata, dando il via ad una politica protezionistica. Un’altra motivazione è la volontà di proteggere l’industria nascente, ossia quelle imprese che hanno grosse difficoltà nella loro fase iniziale a causa della concorrenza internazionale. Un ragionamento analogo viene fatto per i settori considerati strategici per l’economia e la sicurezza del Paese. Le barriere artificiali possono essere create anche per influenzare le decisioni di localizzazione produttiva delle imprese: si incentiva la produzione interna con l’applicazione di elevati dazi all’importazione e agevolazioni per le imprese estere che si vogliano insediare nel territorio (in modo da carpire il know-how necessario per la realizzazione del prodotto). Le politiche industriali degli ultimi anni hanno portato alla costituzione delle cosiddette “zone franche”, aree geografiche in cui vengono concessi finanziamenti vantaggiosi e procedimenti burocratici semplificati ad imprese che producono un determinato bene.

Le barriere artificiali possono essere di due tipi (Valdani & Bertoli, 2014):

§ Tariffarie: vi è l'imposizione di una tariffa obbligatoria da pagare nel caso in cui le merci facciano ingresso nel territorio doganale del paese;

§ Non tariffarie: non vi è un tributo da versare al governo locale, ma si hanno gli stessi effetti delle barriere artificiali tariffarie. Si riduce infatti la competitività, ma spesso l’individuazione di queste norme non è immediata, o addirittura si cerca di farla rimanere occulta;

Il dazio doganale è la più comune barriera tariffaria. È un’imposta indiretta che viene riscossa nel momento in cui il prodotto entra nel territorio doganale del paese. L’effetto del dazio è quello di ridurre, se non annullare nel peggiore dei casi, il margine dell’impresa, la quale dovrà assorbire il costo riducendo il prezzo per gli importatori di un importo pari a quello del dazio. Vi sono due tipologie di dazi, che si differenziano per la loro finalità (Valdani & Bertoli, 2014): i dazi a scopo fiscale hanno lo scopo di conseguire un’entrata per la finanza pubblica, andando a colpire i consumi delle merci provenienti dall’estero; i dazi a scopo protettivo sono invece finalizzati a impedire o limitare l’entrata di imprese estere per salvaguardare i produttori nazionali. Nei paesi in via di

sviluppo è spesso la prima motivazione che prevale, mentre nei paesi industrializzati risulta essere necessaria la seconda. Solitamente sono più gravosi i dazi a scopo protettivo rispetto a quelli fiscali. Altre misure di difesa commerciale che si annoverano tra i dazi protettivi e che sono accettati anche dalla WTO sono i dazi antidumping, i dati compensativi e i dazi di salvaguardia. I primi si attuano per contrastare l’omonimo fenomeno, che permette all’importatore di vendere la merce ad un prezzo notevolmente inferiore rispetto alla media del paese di origine. I dazi compensativi invece servono a riequilibrare il prezzo di beni importati da aziende che godono o hanno goduto di sussidi. Infine, i dazi di salvaguardia si applicano nei casi in cui per una categoria merceologica vi sia in atto o sia prevista una crisi dovuta ad un’alterazione dei flussi commerciali, ovvero un rilevante incremento della disponibilità di un prodotto dovuto alla sua importazione.

I dazi vengono inoltre calcolati in diversi modi (Valdani & Bertoli, 2014): ad valorem, ad pesum e misti. Il dazio ad valorem è una percentuale proporzionale del valore imponibile del bene importato. Il metodo ad pesum assegna un’aliquota fissa per ogni unità di bene importato. Il criterio misto utilizza congiuntamente i due appena menzionati, indipendentemente dal prezzo.

Vi è poi una ulteriore barriera tariffaria che nella realtà produce gli stessi effetti dei dazi tariffari, ma è molto distinta da essi: i cosiddetti “diritti integrativi di confine”, un insieme di tributi e spese imposti dalle autorità doganali. Molto comune è l’imposta sul valore aggiunto (IVA), riscossa dalle autorità doganali e pari al valore fissato anche per il traffico nazionale. In Italia corrisponde ad un’aliquota del 22% per tutti i beni, esclusi quelli alimentari e i servizi turistici (su cui vige un’imposta del 10%) e i beni di prima necessità tassati al 4% (quindi alimentari, stampa quotidiana o periodica, ecc…). Precedentemente si è parlato di una diversa tipologia di barriera artificiale: quella non tariffaria, che produce gli stessi effetti delle barriere tariffarie sopra esplicate ma non è un reale contributo corrisposto ad una autorità. Oggigiorno sono utilizzate per scopi leciti, da parte del governo per rispondere a gruppi di interesse nazionale, e spesso vogliono tutelare la salute, l’ambiente e la sicurezza, ma l’identificazione di queste barriere risulta essere difficoltosa perché non sono esplicite e trasparenti. Alcuni esempi sono le limitazioni quantitative al commercio con l’estero, gli ostacoli tecnici e le misure sanitarie, le norme e le procedure doganali, le misure valutarie, ecc…

L’impresa che voglia esportare il proprio prodotto all’estero può trovarsi a dover affrontare dettagliate specifiche tecniche, ovvero caratteristiche relative alla forma, design, dimensione, funzione o performance, che la merce deve possedere per poter essere importata nel Paese. Negli ultimi anni alcune organizzazioni come la ISO (International Standard Organization) hanno provato ad armonizzare le diverse normative che prevedevano per uno stesso prodotto specifiche diverse a seconda del paese di importazione. Ad esempio, nell’Unione Europea, alcune categorie di prodotti,

per essere vendute, devono possedere il bollino “CE” (Conformité Européenne) che indica la conformità di queste rispetto ai regolamenti sulla sicurezza e la tutela dei consumatori.

Figura 10 - Bollino Conformité Européenne

Prodotti come la carne, latticini, frutta fresca e verdure devono avere determinati requisiti per essere importati, per evitare la contaminazione e il contagio di esseri umani o altre specie. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) favorisce uno standard internazionale definito da associazioni come il Codex Alimentarius della FAO e si impegna per il riconoscimento dell’equivalenza fra standard di paesi differenti.

Per i prodotti agricoli, vi sono ulteriori restrizioni in merito alle importazioni: la normativa prevede il rispetto dei calendari d’importazione, ossia periodi dell’anno in cui si può liberamente introdurre un prodotto nel paese ed altri periodi in cui è vietato. L’apertura del mercato coincide solitamente con la bassa stagione agricola, quando la produzione interna è già stata completamente assorbita dal mercato. Questo può portare a casi un cui l’impresa è pronta con il proprio raccolto all’esportazione, ma le viene negata la possibilità di questo flusso commerciale, con una conseguente diminuzione delle vendite e un incremento dei costi legato alla struttura produttiva.

Nei successivi capitoli verranno approfonditi nel dettaglio le normative riguardanti i prodotti agroalimentari, con un particolare approfondimento sulle denominazioni di origine.

CAPITOLO 3: le opportunità dei prodotti di lusso agroalimentari nei mercati