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CAPITOLO 4: L’Italia e il commercio estero

4.3. Il valore del Made in Italy

Il primo riconoscimento del “Made in Italy” avvenne nel 1985 ad opera di Fortis, che lo definì come “l’insieme dei settori operanti nelle aree moda, arredo-casa, tempo libero e alimentazione mediterranea” (Fortis, 1985). Egli considerava in questo insieme anche la meccanica collegata e riconosceva come elementi distintivi la specializzazione della produzione artigianale, la lavorazione di materie prime pregiate e l’aggiunta di valore al prodotto (tramite miglioramenti qualitativi, con l’attenzione per il design o grazie alla scelta dei materiali) (Curzio & Fortis, 2000). Le quattro “A” che Fortis individua essere le eccellenze manifatturiere italiane sono quindi: “abbigliamento-moda”, “arredo-casa”, “automazione-meccanica” e “alimentari e bevande”. Oltre a questi, inserisce anche i settori ad alto contenuto tecnologico come le auto di lusso, le navi da crociera, elicotteristica e aerospazio, difesa, chimica e farmaci, biomedicina.

Secondo il commercio internazionale, il Made in Italy è un aggregato di settori eterogenei che hanno in comune un saldo attivo e permanente nella bilancia dei pagamenti (Curzio & Fortis, 2000). La causa di ciò sono dei particolari processi di apprendimento o di sintesi legati al contesto territoriale in cui avvengono e che distinguono l’economia italiana da tutte le altre. Questo è un vantaggio competitivo derivante dall’insieme delle abitudini e modi di vivere della società del Paese specifico. Si viene a formare quindi un’immagine positiva del Paese Italia, caratterizzata da imprenditorialità, abilità manuale e versatilità pratica. Negli anni si è costruito sul suolo italiano un tessuto locale in cui il capitale umano è elevato e basato sulle capacità e abilità delle persone, che grazie all’iniziativa imprenditoriale ha generato i distretti industriali dove confluiscono molte delle piccole e medie imprese che puntellano il territorio (Becattini, 2006). Queste realtà sono costruite sulla fiducia reciproca e una condivisione delle responsabilità verso la comunità di appartenenza (ICE, 2017). Questo non è sinonimo di chiusura e ostacolo all’integrazione internazionale, ma anzi dai distretti sono nate molte imprese multinazionali che oggi sono la parte competitiva del sistema industriale italiano.

Procedendo storicamente, negli anni Sessanta si inizia a fare riferimento al concetto di Made in Italy contemporaneamente con il declino del fordismo e quindi della standardizzazione. L’Italia in quegli

anni intercetta la necessità di una maggiore varietà e variabilità sviluppando specializzazioni e competenze su prodotti di nicchia e produzioni artigianali (Curzio & Fortis, 2000). I distretti industriali reagiscono bene nei settori della cura della persona e dell’industria meccanica, mentre perdono terreno sull’high tech e sulle produzioni su larga scala, che richiedevano investimenti cospicui e competenze troppo specifiche.

Recentemente le imprese italiane hanno iniziato a produrre a rete, con l’utilizzo dell’outsourcing. Le grandi imprese hanno imparato dai distretti industriali a concentrarsi sul core business e a ricorrere ad esterni per le altre aree non fondamentali. In questo modo si è più flessibili e agili nel reagire ai cambiamenti del mercato. Il superamento dei confini nazionali porta l’impresa ad operare su un piano più alto, un unico mercato globale estremamente fluido con moltissimi concorrenti diretti e indiretti. Ed è in questo contesto che il Made in Italy diventa a tutti gli effetti un brand, che conferisce benefici a tutti i prodotti che sottostanno all’ombrello. Il consumatore straniero infatti cerca la qualità superiore, il design e il packaging legati alla cultura italiana, allo stile di vita e al lusso. Ma a volte può cadere in alcune trappole, come imitazioni e contraffazioni. Le contraffazioni di prodotti alimentari erodono il fatturato di circa 8 miliardi (infoMercatiEsteri, 2017) ed incidono per il 27% sull’export nazionale. Il cosiddetto fenomeno dell’”Italian Sounding” consiste nell’imitazione di prodotti italiani esistenti con un’impropria attribuzione di italianità. Questo, insieme alla contraffazione, ha un giro d’affari di circa 100 miliardi di euro, di cui 320 milioni solo in Italia. Un altro fenomeno è l’agropirateria, che consente ad alcune aziende di produrre senza rispettare i disciplinari della produzione e senza sottoporsi ai periodici controlli. Un modo per combattere il problema è attraverso le denominazioni di origine, che forniscono una doppia tutela per l’impresa e per il consumatore.

Il vantaggio competitivo di un’azienda italiana che produce in Italia è proprio il territorio, nella sua “dimensione culturale, organizzativa, fiscale” (Pilati, 2004). Può essere efficacemente utilizzato come leva di marketing nella comunicazione al consumatore, puntando sull’eccellenza di un prodotto dovuta al particolare luogo di produzione. In questo senso, il miglior mezzo per tutelare e comunicare al consumatore è la denominazione di origine, che certifica la qualità della materia prima sulla base della provenienza geografica (Pilati, 2004).

In Italia, la prima normativa a tutela dell’origine dei prodotti è stata emanata nel 1963. Ha posto le basi del sistema di norme che regolano la produzione e il commercio del settore vinicolo. Successivamente, nel 1992 il regolamento CEE n.2081 ha introdotto la tutela dei prodotti agroalimentari, a cui tutti gli Stati membri dell’Unione Europea si sono conformati.

La normativa italiana suddivide i vini in due categorie principali: quelli a denominazione di origine e quelli da tavola (questi ultimi di minor pregio qualitativo e identificati solo dal colore, non dalla provenienza delle uve). I primi invece si distinguono ulteriormente in:

§ Vini ad Indicazione Geografica Tipica (IGT);

§ Vini a Denominazione di Origine Controllata (DOC);

§ Vini a Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG);

La qualità aumenta passando dalla classificazione IGT a DOC a DOCG. Per le ultime due, la produzione deve estendersi in un territorio ben definito, ossia la zona deve essere mappata e deve rispettare la disciplina in materia di tecniche produttive. Secondo questa normativa, i produttori devono registrare i propri vigneti e segnalare le varietà d’uva coltivate. Inoltre, vi sono limiti nella resa consentita per ettaro di terreno e standard organolettici da rispettare. Per ottenere la certificazione, inoltre, la vinificazione e l’invecchiamento devono avvenire nella stessa area di produzione, mentre solo l’imbottigliamento è facoltativo. Diversamente dalla certificazione DOC, la DOCG prevede l’idoneità ad un esame chimico, fisico e organolettico effettuato da una commissione di degustazione con sede presso le Camere di Commercio Industria e Artigianato (Pilati, 2004). Le norme per i vini IGT sono meno restrittive e consentono zone di produzione più ampie, ma sempre delimitate e riconosciute. Almeno l’85% delle uve utilizzate nella produzione deve essere originaria della zona geografica di cui il vino porta il nome.

I prodotti agricoli e agro-alimentari, esclusi i vini, sono sottoposti ad una diversa regolamentazione per la tutela della qualità d’origine. Il Regolamento 2081/92, modificato negli anni successivi, prevede due certificazioni (Pilati, 2004):

§ Denominazione di Origine Protetta (DOP); § Indicazione Geografica Garantita (IGP)

La prima viene concessa quando la produzione, trasformazione e tutte le successive lavorazioni avvengono nella zona di origine. La certificazione IGP si ha quando la materia prima proviene da un’altra area ma tutti i successivi processi di trasformazione vengono svolti nella zona delimitata. È anche prevista una speciale attestazione di Specialità Tradizionale Garantita (STG), che prevede tutele differenti dalle menzioni di origine: è infatti il “riconoscimento di una tradizione associata ad una certa zona, in modo non esclusivo, senza alcun vincolo sull’origine degli ingredienti e senza l’esigenza di dimostrare l’influenza dei fattori naturali e umani sulla qualità del prodotto agro- alimentare” (Pilati, 2004). Una ricetta può ottenere suddetta attestazione e ciò non preclude a chi risiede all’interno della Comunità di aderire e applicare il disciplinare. In Italia, le STG riconosciute sono la Mozzarella e la Pizza Napoletana.

La regolamentazione comunitaria, da cui quella italiana prende spunto, si basa su dei presupposti fondamentali di garanzia di informazioni chiare e corrette per il consumatore. Inoltre, deve esistere un nesso tra le caratteristiche del prodotto ed il territorio per poter ottenere la certificazione. Secondo la Comunità Europea, la qualità dei prodotti agro-alimentari può essere l’ago della bilancia tra domanda e offerta nel mercato. In casi eccezionali, può tutelare un intero Paese, con un prodotto che deve essere originario di tale regione e con caratteristiche riconducibili sono a quella particolare zona geografica. Deve anche essere trasformato e lavorato nello stesso luogo.

La certificazione non si ottiene automaticamente, ma bisogna appositamente richiederla attraverso una domanda di registrazione. Se il procedimento va a buon fine e il prodotto ha tutti i requisiti, allora questo viene inserito nel registro comunitario delle DOP e IGP e il riconoscimento viene pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Comunità Europea.

Le certificazioni operano solo a livello comunitario e quindi non garantiscono una protezione a livello mondiale. Per questo, fuori dall’Unione Europea sono molto comuni i fenomeni dell’italian sounding e dell’agropirateria, che erodono il fatturato delle imprese italiane esportatrici.

Negli anni, le tutele richieste sono state sempre maggiori. Per questo nel 1997 sono state apportate delle prime modifiche al Regolamento 2081/92, con ad esempio una introduzione di una tutela per i prodotti commercializzati anche per i cinque anni precedenti la registrazione. Nel 2003 sono state apportate ulteriori modifiche, ampliando i prodotti agricoli registrabili, a cui vengono aggiunte le birre, le bevande a base di estratti di piante, i prodotti della panetteria, pasticceria, confetteria e biscotteria, le gomme e le resine naturali, le paste alimentari, gli oli essenziali, il sughero, la lana, il vimine, ecc. Inoltre, viene prevista ora la protezione in Paesi terzi, sulla base di una regola di reciprocità e condizioni equivalenti.

Ad oggi le denominazioni italiane di prodotti agroalimentari sono ben 295 (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, 2017), ponendo così il bel Paese in testa alla classifica europea. Le categorie merceologiche più marchiate sono vegetali e formaggi, seguiti da carni fresche, oli, grassi e carni preparate.

La tutela del tipico è necessaria per sconfiggere la crescente concorrenza dei Paesi dell’est Europa e per aumentare il valore delle produzioni. Da una indagine di Nomisma (Piccoli, 2005) è emerso che a parte le denominazioni più note, le altre produzioni marchiate sono ancora poco conosciute. A volte succede che il consumatore conosce il marchio, ma non è in grado di attribuire le qualità e le peculiarità al prodotto. Dietro le eccellenze agroalimentari, l’Italia vanta secoli di ricerca scientifica, sperimentazione e innovazione.

percezione adeguata. Il marketing dovrà incrementare la brand awareness, con azioni volte a creare una desiderabilità del prodotto e una successiva intenzione di acquisto. Un’attività largamente usata da molti brand in questi ultimi anni è l’”ingredient branding”, ossia l’utilizzo all’interno di un prodotto di alcuni ingredienti brandizzati di aziende terze facilmente riconoscibili, sfruttando così la notorietà dell’ingrediente per aggiungere valore al prodotto finito. Notevoli sono anche i vantaggi in termini di awareness per l’azienda terza che, contrariamente al normale, acquisti visibilità sugli scaffali nell’ambito della product offering sul mercato. Alcuni esempi si trovano nella grande distribuzione organizzata: McDonald’s Italia che ha inserito nei menu la Chianina IGP, mentre Autogrill ha introdotto nei propri menu prodotti come lo speck IGP e Toma piemontese DOP nel panino “Boschetto” o la mozzarella di bufala DOP nel panino “Bufalino”.