3. I temi della Vita Scolastica
3.5. L’arte di “trasmettere” la sapienza
Tra i termini notevoli della Vita Scolastica, particolarmente ricorrente è quello di «ars». Questa ‘arte’ assume in alcuni casi il significato di ‘abilità’, e nei rimanenti quello di ‘sapere’. Ai vv. 217-218 («Hic propter bursam falsus, periurus, iniquus, discors, detractor, non caret arte doli») l’‘arte dell’inganno’ è un’abilità, benché esecrabile, propria dell’avaro. Poco oltre, ai vv. 327-330, il ‘calunniatore’ è precipitato nella ‘fossa’ a causa della sua stessa ‘arte’, secondo una concezione ciclica della vita per cui il male si ritorce contro chi lo provoca:
Occorrenze Significati Testo
arte pater padre nell’arte «Ipsum diligito, metuas, pro patre teneto,
cum tibi sit vere moribus, arte pater.» (vv. 584-585)
artis opus l’effetto dell’arte
«Clavis quinta monet retineri dogmata mente,
qua sine patrande perditur artis opus.» (vv. 755-756)
Artem distribuas
Distribuisci
l’arte «Artem distribuas, plus erit aucta tibi.» (v. 760)
ars sterilis
est l’arte è sterile
«Doctorem dignum non sola scientia reddit,
moribus ars sterilis est olus absque sale.» (vv. 775-776)
artis studium
lo studio dell’arte
«Artis fac studium, non sollicitamina falsa,
discipulos multos accumulare tibi.» (vv. 796-797)
artem […] ars
l’arte (ogg./sogg.)
«Dum decores artem, decus ars dabit et bona lucra.» (v. 799)
arte bona di una buona
arte «Qui caret arte bona, vivere fraude parat.» (v. 800)
Artes le arti
«Moribus ut proprios informes – ecce secundum – discipulos, artes moribus absque nocent.» (vv. 801-802)
ars bene recta
l’arte ben
indirizzata «Usque iuvat dominos ars bene recta suos.» (v. 812)
artis ope per effetto dell’arte
«Fac memores hortatus eos, bona quanta sequentur, intima si repleant uberis artis ope.» (vv. 843-844)
Artem l’arte «En sit postremum tradendo viriliter artem» (v. 883)
ars tua la tua arte «Fac tibi sis merita dignus mercede recepta,
57 Hoc iuvenis quidam monitu faciendo parentis
fugit ab iniuste perdicione necis, vitavit foveam, quam proditor invidus egit,
in quam detractor incidit arte sua.
Infine, nella metafora venatoria «Nam natum, cui plus blanditur simia, pinguem venator cicius decipit arte sua» (vv. 671-672) è richiamata l’abilità del cacciatore nel catturare il cucciolo favorito dalla scimmia, perché pingue. Bonvesin cela in questa immagine un preciso monito per l’insegnante. Egli, infatti, non deve - come la scimmia - “accarezzare” gli allievi prediletti, bensì rimproverarli più spesso, per correggerli: «Quem plus doctor amat, corrigit ille magis» (v. 674).
La seconda delle «quinque claves sapiencie» prescrive all’allievo di «decorare magistrum» (v. 491): il primo dei ‘cinque modi’ con cui raggiungere questo scopo è condurre una vita ‘pacifica, saggia e garbata’ (vv. 491-492), senza dubbio imitando il maestro. Dopo aver elencato i comportamenti da tenere e quelli da evitare, Bonvesin esprime questo monito: «Ipsum diligito, metuas, pro patre teneto, | cum tibi sit vere moribus, arte pater.» (vv. 584-585). Lo scolaro è tenuto a rispettare l’insegnante proprio come farebbe con suo padre: anzi, egli è veramente suo padre, ‘nei buoni costumi’ e nel ‘sapere’ che egli stesso ha assimilato in passato e che ora mostra ai suoi «discipuli».
La perenne utilità dell’«ars» viene richiamata più avanti, nell’illustrazione dell’ultima “chiave della sapienza”: «Clavis quinta monet retineri dogmata mente, | qua sine patrande perditur artis opus.» (vv. 755-756). ‘Tenere a mente’ gli insegnamenti del maestro è indispensabile per godere dell’‘effetto dell’arte’: questo ‘effetto’, che si può facilmente intendere come ‘beneficio’, indica la possibilità di usufruire per tutta la vita di ciò che è stato imparato a scuola. Per di più, l’allievo non deve tenere per sé il ‘sapere’: l’‘arte’ dell’apprendimento comporta la condivisione dei risultati ottenuti. Bonvesin esorta infatti così lo scolaro: «Artem distribuas, plus erit aucta tibi» (v. 760). La condivisione, oltre ad aumentare la gioia per gli obiettivi raggiunti, può essere utile all’allievo perché, in futuro, potrà egli stesso partecipare ai “progressi” altrui, in modo tale da ‘accrescere’ la propria ‘arte’ e avvicinarsi così al maestro. Passiamo ora al «regimen» del maestro (v. 767) e all’esercizio dell’«ars» come vero e proprio “mestiere”. Bonvesin dimostra come l’‘arte’ sia utile da apprendere per gli allievi, e sia allo stesso tempo vantaggiosa da praticare per l’insegnante. Come primo di «tria observanda», egli deve condurre una «vita magistra» per i suoi «discipuli», la «sciencia» non dev’essere mai separata dai «mores», perché «moribus ars sterilis est olus absque sale» (vv. 772-776).
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Secondo la metafora, se i buoni costumi sono il ‘sale’ che insaporisce la ‘verdura’, l’ ‘arte’ non può essere che la ‘verdura’, o più generalmente la ‘vivanda’ stessa. L’esercizio del “mestiere” non dev’essere pertanto impersonale e disinteressato, metaforicamente “insipido”, ma “condito” con la buona condotta.
Altro importante dovere dell’insegnante è indurre l’allievo a praticare il suo stesso «artis […] studium», che possiamo intendere semplicemente come ‘studio’ oppure come ‘impegno’ o ‘passione’, rifuggendo dai «sollicitamina falsa» (v. 797). In questo modo l’insegnante vedrà non solo i propri allievi ben “formati”, ma anche numerosi scolari accorrere a lui («discipulos multos accumulare tibi», v. 798).
L’educazione degli scolari ai «boni mores», per il maestro, deve assumere la stessa importanza della trasmissione dell’«ars». Bonvesin lo afferma chiaramente nel secondo dei «tria observanda» indirizzati all’insegnante: «Moribus ut proprios informes […] discipulos, artes moribus absque nocent» (vv. 801-802). Se non è accompagnata da una buona condotta, la sapienza non è solo, come visto sopra, “insipida” - si conceda il gioco di parole -, ma addirittura ‘nociva’. È proprio allora che interviene la capacità “artigiana” del «doctor» di ‘plasmare’ («informes», v. 801) i suoi allievi secondo il modello dei buoni costumi. È forse qui che Bonvesin conferisce più esplicitamente alla “professione” del maestro, intellettuale qual è, un carattere “artigianale”. Il “modello” a cui deve ispirarsi per realizzare la sua opera rende tuttavia particolare questo “artista”. Abbiamo visto come il «doctor» debba innanzitutto condurre una «vita magistra» per i suoi «discipuli» (v. 772): se, riconosciuto ciò, gli allievi dovranno essere ‘plasmati’ secondo i buoni costumi, significa che essi dovranno essere “modellati” da e come il loro stesso maestro. L’insegnante è dunque colui che trasmette e, allo stesso tempo, ispira la propria «ars». Bonvesin lo avvicina così significativamente al Dio della Creazione: «Et creavit Deus hominem ad imaginem suam» (Gen., I, 27). Questa duplice funzione di “artefice” e di “esempio”, se svolta correttamente, porterà un vantaggio bilaterale: al maestro, perché «usque iuvat dominos ars bene recta suos» (v. 812) e agli allievi, perché in futuro ricorderanno «bona quanta sequentur, intima si repleant uberis artis ope» (vv. 843-844).
L’ultimo dei «tria observanda» esorta il maestro a ‘tramandare l’arte con coraggio’: «En sit postremum tradendo viriliter artem» (v. 883). Questo monito, implicito nel primo insegnamento – condurre una vita “esemplare” – e nel secondo – “conformare” gli allievi ai buoni costumi, è ora dichiarato da Bonvesin con la massima forza. Il maestro, infatti, può assicurare il futuro della propria ‘arte’ solo con la determinazione.
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In particolare, l’autore consiglia quattro modi per realizzare questo scopo. Per primo, ancora una volta, si colloca lo «studium» dell’«ars»: «Primo continues studium, dum tempora prestant, aut alios doceas, aut tibi sepe legas» (vv. 885-886). La sapienza, infatti, non è un’acquisizione fissa, delimitata da confini, ma un processo che si autoalimenta inesorabilmente: il «doctor», infatti, pur essendo colui che trasmette la sapienza, non è colui che la possiede interamente, ma desidera fortemente condividere ciò che ha appreso.
Insieme alla “lode” e alla “dignità”, l’amore per la «sciencia» deve portare al maestro anche qualcosa di concreto, sotto forma di una giusta remunerazione. Infatti, praticando un’«ars bona» (v. 800), il maestro si assicurerà «decus et bona lucra» (v. 799).
Bonvesin offre poi al «doctor» questo consiglio: «Fac tibi sis merita dignus mercede recepta, ars tua te laudet, ditet, honore levet.» (vv. 887-888). Ogni lavoratore, infatti, oltre alla soddisfazione personale e al buon nome, si aspetta dal proprio mestiere una ricompensa adeguata. Essa permetterà all’insegnante non solo di mantenersi, ma anche di procurarsi nuovi “strumenti”: la cattedra, i banchi e i libri, a cui Bonvesin è particolarmente legato, compaiono altresì nei suoi testamenti16.
Ricollegandosi al tema dei “contenitori della sapienza”, si può dire così: se consideriamo la «sapiencia» come il contenuto dell’apprendimento, possiamo pensare all’«ars» come al
contenitore dell’apprendimento, vale a dire la “veste” che il maestro sa dare alla «sapiencia»
in modo da renderla per l’allievo accessibile, apprezzabile e utile.
Ricollegandosi, infine, al tema del “coltivare la sapienza”, si può ricavare un duplice valore sia di «sapiencia» che di «ars». Mentre la prima costituisce il “seme”, l’oggetto che il maestro “impianta” nell’allievo, la seconda rappresenta l’azione della “semina”, con la sicurezza, in futuro, di un prospero e utile raccolto.
Infine, dall’analisi tematica sull’azione di “plasmare gli allievi” è emerso come la lettura, e il conseguente apprendimento, siano volti ad un concreto “modellamento” dell’allievo, che deve “formare” la propria conoscenza e “conformare” al bene la propria condotta.
Da tutte le occorrenze analizzate, possiamo infine ricavare che, se la «sapiencia» rappresenta lo scopo dell’apprendimento, l’«ars» non è altro che l’apprendimento stesso, inteso come
processo di “trasferimento”, dal maestro all’allievo, della «sapiencia».
16 D’A. S. AVALLE, Bonvesin da la Riva, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 17, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1976, pp.465-469.
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