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L’ASCOLTO DEL MINORE NEI PROCEDIMENTI CIVILI

Relatore:

Prof.ssa Anna Maria DELL’ANTONIO

Ordinario di psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari nell’Università di Roma

Il tema dell’ascolto del minore nei procedimenti giudiziari per la sua tutela diventa sempre più attuale con il comparire di leggi e di con-venzioni internazionali che lo prevedono o lo raccomandano. Già la legge sull’adozione del 1983 prevedeva il consenso del minore all’ado-zione e all’affido dopo il compimento del quattordicesimo anno di età e il suo ascolto al dodicesimo anno, e – se opportuno e possibile – an-che prima. Alla fine degli anni ottanta la Convenzione dell’O.N.U. sui diritti del fanciullo, ratificata e quindi accettata dall’Italia, stabiliva che

“gli Stati Parti della Convenzione devono assicurare al bambino/a ca-pace di formarsi una propria opinione, il diritto di esprimerla libera-mente e in qualsiasi materia, dovendosi dare alle opinioni del bambi-no/a il giusto peso relativamente alla sua età e maturità. A tale scopo in tutti i procedimenti giuridici e amministrativi che lo coinvolgono deve essere offerta l’occasione affinché il bambino venga udito direttamen-te o indirettamendirettamen-te per mezzo di un rappresentandirettamen-te o di una apposita istituzione, in accordo con le procedure della legislazione nazionale”.

Più recentemente la Convenzione de L’Aja sull’adozione interna-zionale entrata in vigore nel mese di maggio del corrente anno – Con-venzione alla cui stesura ha contribuito anche l’Italia anche se non la ha ancora firmata, ma da varie parti si preme perchè ciò avvenga nel minor tempo possibile – stabilisce tra le clausole perchè tale adozione possa essere realizzata che le autorità competenti dello Stato di origi-ne abbiano confermato che tenuto conto dell’età e del grado di matu-rità del bambino “siano stati presi in considerazione i desideri e le opi-nioni espresse dal bambino”, “qualora il suo consenso sia richiesto il bambino abbia usufruito di una adeguata consulenza e sia stato debi-tamente informato degli effetti che l’adozione e il consenso dato pro-durranno” e che “il consenso non sia stato indotto da pagamenti o compensi di alcun tipo”.

Molti Paesi da cui i bambini provengono per essere adottati in Ita-lia hanno d’altra parte già legiferato il loro ascolto prima dell’adozio-ne, a volte senza determinare l’età minima per esso, a volte stabilendo che esso avvenga a partire da età diverse, anche inferiori a quelle sta-bilite per l’ascolto del bambino nella legge italiana del 1983 (l’Albania per esempio stabilisce i 10 anni, lo Sri Lanka i 9 anni).

In Italia si è discusso e si discute ancora sulla possibilità che il mi-nore stesso partecipi consapevolmente ed attivamente alle decisioni che vengono prese per lui: e senz’altro il tema è di notevole importan-za visto che esse non raramente cambiano in modo netto e/o brusco il suo modo di essere e di rapportarsi agli altri, e possono pertanto ac-centuare la precarietà della sua situazione personale e relazionale.

Può essere utile pertanto fare riferimento a quanto è stato finora elaborato in proposito sia nell’àmbito del diritto che della psicologia

Le capacità e le possibilità di un minore di autodeterminarsi sono state discusse nel primo àmbito sia a livello teorico che giurispruden-ziale sopratutto dopo l’entrata in vigore del Nuovo Diritto di Famiglia, nell’intento di evidenziarne la presenza già prima della maggiore età, anche se alcuni autori hanno evidenziato l’impossibilità di una defini-zione esatta dell’età in cui esse si sviluppano, data la unicità della maturazione dei singoli minori. Questa discussione è stata peraltro poi quasi lasciata in sospeso mentre veniva messa in dubbio l’oppor-tunità di ascoltare i minori contestando la loro capacità di avere opi-nioni effettivamente utili per il loro bene (1) o ritenendo che egli possa essere traumatizzato dall’ascolto medesimo o possa ricavarne solo una situazione di maggior conflitto con i genitori. Queste argomentazioni sono state peraltro non raramente ribadite anche da giudici minorili (in questo senso sono state anche formulate perplessità nei confronti dell’ascolto di minori in stato di adottabilità o in affido preadottivo) e probabilmente non a caso, nonostante la già avvenuta ratifica di parte dell’Italia della Convenzione dell’O.N.U., l’ascolto del minore non è previsto – al di là di quello attualmente in vigore con la legge 184 – dalle proposte di riforma del diritto minorile che sono state fatte al ter-mine della passata legislatura.

Certamente l’attuale normativa per quanto concerne l’“ascolto”

del minore in situazioni in cui si ritiene siano compromesse le sue

pos-(1) F. GIARDINA, in “La condizione giuridica del minore”, ed. Jovine, Napoli 1980, per esempio ritiene che il minore si avvantaggi nell’essere considerato “incapace” per-ché ciò permette di proteggere meglio la sua immaturità.

sibilità di ulteriore sviluppo è senz’altro disomogenea: esso è infatti previsto in alcune fasi dei procedimenti di adozione e di affidamento eterofamiliare ma non nel processo di separazione dei genitori, nè nei procedimenti di decadimento o limitazione della loro potestà, mentre è lasciato alla discrezionalità del giudice nel divorzio dei genitori. L’ul-tima legge emanata a proposito di quest’ulL’ul-tima evenienza, sembra anzi adombrare il “pericolo” già accennato dell’ascolto del minore (es-sa infatti non recita più come nella prima stesura “quando il giudice lo ritenga opportuno”, ma “quando sia strettamente necessario”).

Ci si deve comunque chiedere anche fino a che punto oggi l’audi-zione del minore venga davvero considerata un mezzo per favorire la sua autodeterminazione, dato che, tranne nei casi in cui è esplicita-mente richiesto il suo consenso, la norma prevede solo il suo “ascol-to”: termine vago che può essere inteso anche come testimonianza e quindi solo come apporto di ulteriori elementi di giudizio per una decisione che rimane del giudice.

Il problema di riconoscere al minore capacità di autodetermina-zione oltre che di semplice testimonianza rimane pertanto aperto. Nel-la dottrina giuridica esso viene affrontato in riferimento a “capacità di discernimento”, ma l’età che garantisce il raggiungimento di tale capa-cità non viene definita, anche se viene collocata dai vari autori che si sono interessati della materia tra i quattordici e i sedici anni (alcuni giuristi, commentando la giurisprudenza, si sono posti la domanda e non sia possibile riferirla anche bambini più piccoli) (2).

È peraltro interessante notare come in tale capacità quasi tutti gli autori comprendono sia la capacità del minore di capire ciò che è utile per lui, sia di decidere autonomamente, senza essere influenzato dalla volontà di altri.

Ma in un’ottica psicologica queste due capacità non possono esse-re sovrapposte. La prima infatti implica una valutazione delle proprie esigenze ed una capacità di elaborare strategie adeguate per il conse-guimento della loro soddisfazione in base alla situazione contingente – e quindi anche in situazione di dipendenza dall’adulto in cui posso-no anzi essere agite attraverso comportamenti da lui accettati.

La seconda invece presume una capacità di formulare opinioni e scelte personali senza essere condizionati da altri. Essa peraltro non garantisce di per sè la possibilità di realizzare – in tutto o in parte – gli

(2) Un’ampia raccolta di queste posizioni si può trovare in A. DELL’ANTONIO,

“Ascoltare il minore”, ed. Giuffré, 1990.

obiettivi che possono essere formulati in base a tali opinioni ed a tali scelte. È quindi possibile che questa capacità pur acquisita non dia adito a scelte autonome: del resto lo stesso adulto, sopratutto se si trova ad avere scarso potere di gestione delle situazioni, tende non tanto a perseguire mete che ritiene ottimali per soddisfare le sue esi-genze, quanto piuttosto obiettivi più contenuti, ma che in esse posso-no essere realizzati.

Capacità di comprendere ciò che può essere di utilità nella situa-zione contingente ed autonomia di giudizio presumono peraltro anche livelli maturativi diversi. Già nei primi anni di vita infatti il bambino si configura gli spazi in cui può agire ma anche le strategie più oppor-tune da utilizzare nel rapporto con l’adulto per ottenere il massimo di soddisfazione dei suoi bisogni: l’accettazione, la protezione ma anche l’appartenenza ad un gruppo ben definito – la famiglia o un contesto alternativo ad essa – che gli permettono di costruire i suoi primi punti costanti di riferimento e quindi anche di sviluppare le prime basi della sua identità.

Si può così dire che il bambino ha fin d’allora una capacità di discernere cosa gli è vantaggioso nel contesto in cui vive: acquisendo quella che potremmo definire quasi una competenza specifica per quanto riguarda la dinamica relazionale che in esso si sviluppa e le sue possibilità di essere in esso accolto e soddisfatto.

Più complessa è la valutazione delle sue capacità di formulare giu-dizi personali e di compiere scelte autonome. Certo non prima dei 10-12 anni, età in cui si vengono delineando in lui le caratteristiche di una intelligenza ipotetico-deduttiva. Ma la maturazione di tali facoltà inizia anche precedentemente e la loro esplicazione è legata al com-portamento degli adulti, ed in particolare dei genitori, che possono favorire od ostacolare il graduale processo di autonomia del bambino.

Essi possono infatti indurlo ad adeguarsi acriticamente al loro pen-siero o possono favorire in lui lo sviluppo e l’espressione di opinioni e scelte personali, con un atteggiamento di ascolto e di valorizzazione delle sue idee ma anche dei suoi sentimenti e dei suoi vissuti.

Il grado di autonomia che un minore riesce ad esprimere è legata peraltro anche alla presenza di problemi nelle dinamiche familiari che rendono gli adulti meno disponibili ad “ascoltare” un bambino e quin-di anche a valorizzare la sua crescita autonoma, anche per un bisogno di coesione familiare basata su convinzioni ed atteggiamenti comuni.

D’altra parte in situazioni di crisi familiare gli stessi bambini ten-dono a non elaborare propri punti di vista e proprie scelte sia per l’an-sia che la situazione di fragilità familiare procura loro (significativi

sono a questo proposito recenti studi che evidenziano “la paura di pensare” del bambino che si trova in situazioni di profondo disagio psicologico) sia per il timore di perdere appoggi e punti di riferimen-to già molriferimen-to precari.

Si potrebbe presumere pertanto che in tutti i casi in cui un mino-re cmino-resce in situazioni familiari problematiche il suo atteggiamento sia condizionato dai genitori ed egli non sia pertanto in grado di espri-mere giudizi e scelte funzionali alle reali esigenze della sua crescita:

tuttavia bisogna ammettere che egli tiene ben conto degli elementi della sua realtà personale e relazionale. Le scelte che in queste condi-zioni egli fa possono quindi non essere autonome ma sono senz’altro

“sue”, corrispondendo alle sue esigenze nel presente.

Tutto questo va tenuto presente nel valutare se l’opinione espressa – o non espressa – dal minore corrisponde al suo interesse e se sia op-portuno o meno ascoltarlo. Va infatti anche considerata la possibilità, qualora venisse fatta per lui una scelta difforme da ciò che egli chiede o si aspetta, che egli non sia in grado di capirla e/o di tollerarla e di conseguenza la necessità di dover provvedere ad un suo sostegno nella crisi personale e relazionale cui può andare incontro. Il suo ascolto può diventare quindi comunque indispensabile per poter formulare indicazioni che permettano di aiutarlo ad affrontare i cambiamenti di vita che deriveranno dalle decisioni che verranno prese per lui.

L’ascolto del minore pone peraltro alcuni problemi. Uno di essi è dato dalla effettiva capacità o volontà del bambino – ma anche del ragazzo – di esprimersi, anche se richiesto di farlo. A volte un minore può non essere in grado di utilizzare uno schema di relazione che gli permette una maggior libertà di espressione e, quasi “spaventato” da tale libertà che non è abituato a gestire, può temerne effetti scono-sciuti o non controllabili. Sopratutto se l’essere “come gli altri voglio-no che sia” gli ha assicurato in passato vantaggi personali, egli potrà cercare non tanto di manifestare le proprie posizioni, quanto piutto-sto di risultare gradito anche al nuovo interlocutore utilizzando pro-prio quegli atteggiamenti di accondiscendenza e di delega che in pas-sato gli sono stati utili per garantirsi consenso, anche se in realtà essi ostacolano piuttosto che favorire un vero dialogo con lui.

Un ulteriore motivo di difficoltà a comunicare proprie opinioni può scaturire nel bambino, ma sopratutto nel ragazzo, quando gli eventi in cui è coinvolto lo hanno costretto a manipolare o negare alcuni elementi di realtà per fronteggiare vissuti di frustrazione e di ansia ed egli si rende conto che l’analisi di realtà a cui può essere con-dotto in un colloquio con un estraneo alla vicenda familiare potrà

met-tere in crisi queste sue difese. In questi casi è comprensibile che vi sia reticenza se non opposizione allo stesso colloquio.

Il bambino infine può essere esitante nell’esprimere scelte ed opi-nioni perchè teme che ciò possa alterare equilibri personali e relazio-nali da lui raggiunti – se pur sulla base di ambiguità e di scissioni – nell’ambito familiare e può rifiutare di esprimere scelte diverse, anche se proprie di quelle fatte dai genitori, o dal genitore che sente più sostenente. Non a caso sono state messe in evidenza reazioni depres-sive e sensazioni di abbandono proprio in seguito a scelte espresse – e a volte percepite solo in un secondo momento come dovute alla man-canza di scelta dei genitori. In queste reazioni gioca “peraltro forse anche la constazione della illusione di un potere nei confronti dei genitori – o del genitore scelto, nei casi di loro separazione – che si rivela presto inesistente, sopratutto se i genitori o il genitore lo hanno

“utilizzato” per porre in risalto la loro validità come persone.

Si fa anche spesso scarsa attenzione al ruolo giocato dai genitori – o da altri familiari con funzione allevante – nelle disponibilità del minore all’interazione con altri adulti, sopratutto se non in linea con le opinioni dei primi. È stato invece ampiamente dimostrato come il legame con il genitore o l’adulto allevante ha sempre importanza fon-damentale sul comportamento del bambino. Gli studi sull’attaccamen-to hanno messo in evidenza per esempio come sia primario il bisogno del bambino di instaurare un rapporto con l’adulto e come pertanto questo venga ricercato ed instaurato con i genitori – ed in particolare con la madre o con altri adulti che si prendono specificamente cura di lui –, anche se essi dimostrano disponibilità limitate nei suoi confron-ti o non sufficienconfron-ti capacità di soddisfare le sue esigenze.

Questi legami, se pur non gratificanti, veicolano al bambino la conoscenza del mondo che lo circonda e l’apprendimento di stili di comportamento, permettendogli l’acquisizione di modalità di approc-cio alla realtà e di richiesta di aiuto. Di conseguenza proprio nella ricerca di approvazione da parte di quell’adulto egli viene strutturan-do gli schemi di comportamento che sono più consoni, nell’ambiente in cui vive, per la soddisfazione dei suoi bisogni. Gli studi compiuti negli ultimi decenni da alcuni psicologi neocognitivisti (3) hanno

inol-(3) Sono gli studi condotti sui comportamenti infantili – sopratutto nei primi mesi di vita – e sulla loro predittività rispetto alle future competenze sociali. In proposito interessante può essere la consultazione di: R. SCHAFFER (a cura di) 1989 “L’intera-zione madre-bambino: oltre la teoria dell’attaccamento”, ed. Angeli, Milano.

tre individuato nel bambino molto piccolo capacità adattive e cogniti-ve fino a poco fa insospettate tali da permettergli di interagire fin dai primi mesi in modo attivo con chi lo alleva e di essere quindi parte attiva nella determinazione del rapporto reciproco con lui.

E questo ovviamente anche in condizioni di carenza affettiva: ed a tal proposito Bowlby ha descritto in modo molto particolareggiato al-cuni tipi di attaccamento disfunzionali per la crescita del bambino che si instaurano quando sia la madre che altre figure allevanti presenta-no problematiche tali da presenta-non permettere loro una effettiva o costante disponibilità verso di lui nei primi anni.

In primo luogo l’attaccamento angoscioso – dovuto all’incongruità e alla discontinuità della disponibilità della figura di attaccamento – che converge tutte le energie del bambino, per lungo periodo e non solo nei primi anni, sulla ricerca di una conferma della sua disponibi-lità, togliendo in parte più o meno ampia attenzione ed interesse sia alla scoperta del mondo ed al raggiungimento dell’autonomia, sia alla relazione con gli altri.

In secondo luogo – e più gravido di conseguenze negative – l’at-taccamento evitante, in cui il bambino sviluppa una tendenza a fuggi-re dalla figura sentita competente ma non disponibile, proprio nel ti-more di continue frustrazioni, senza peraltro perdere il desiderio di venire da essa protetto ed andando pertanto incontro ad ulteriori ine-vitabili frustrazioni.

Ma proprio queste modalità disfunzionali di attaccamento danno adito a legami che – paradossalmente – sono tanto più intensi ed invi-schianti quanto meno hanno permesso al bambino l’acquisizione di una fiducia in sè e di una identità separata, perchè lo costringono ad una continua verifica della sua appartenenza e della sua accettazione da parte di coloro da cui dipende.

Diventa importante quindi sopratutto per questi minori come gli stessi genitori vivono la vicenda giudiziaria e come essi stessi si rap-portano al giudice ed ai suoi collaboratori.

L’intervento dell’autorità giudiziaria può far temere ai genitori di poter essere fraintesi o mal giudicati e di conseguenza di poter perde-re il loro ruolo o di esseperde-re costperde-retti a riorganizzaperde-re i loro rapporti con il figlio secondo prospettive e modalità da loro non condivise.

Si può creare allora un circolo vizioso in cui si alimentano incom-prensioni e diffidenze reciproche tra giudice e genitori, che non aiuta-no certo il primo a capire meglio nè i loro messaggi nè quelli del figlio.

Non raramente inoltre i genitori sono portati a drammatizzare l’intervento giudiziario per la tutela del figlio, anche al punto da non

riuscire a controllare sufficientemente i propri timori: si può così svi-luppare nella famiglia un’ansia diffusa che si riflette in un aumento delle tensioni già esistenti tra i suoi membri o nella comparsa di nuovi motivi di difficoltà nelle relazioni parentali ma anche, e non raramen-te, in atteggiamenti depressivi e rinunciatari dei genitori che determi-nano nel figlio vissuti di mancato sostegno.

Ed il figlio può a sua volta temere di accentuare la situazione di disagio familiare parlando dei suoi problemi, anche se ritiene che chi lo ascolta sia veramente disponibile ad aiutarlo.

Assume importanza anche l’atteggiamento che i genitori sviluppa-no verso il “giudice” che si interessa del figlio. Essi possosviluppa-no aver fidu-cia verso di lui, ma possono anche temerne l’intervento – sopratutto se non da loro richiesto – o essere molto ambivalenti, desiderando il suo un appoggio alla propria verità ma temendone il giudizio. E a questo proposito va anche considerata la capacità dei genitori stessi di parla-re con il giudice, sia in rapporto allo steparla-reotipo collettivo che lo defi-nisce come persona con potere di “giudicare gli altri” e di emanare provvedimenti non suscettibili nè di critica nè di modifica, ma anche in relazione al modo di porsi nei confronti dell’autorità che essi stessi sono venuti sviluppando nel corso della loro storia.

Ed è comprensibile come anche in tali casi possa aumentare lo stato di disagio e l’ansia del minore, inevitabilmente invischiato nei sentimenti dei genitori, sia se ne assimila gli atteggiamenti, sia se non riesce più a comprendere i loro sentimenti e quindi a controllare la si-tuazione relazionale in cui vive.

Bisogna d’altra parte considerare che anche la “perdita di potere”

del genitore che consegue all’intervento decisionale del giudice ha

del genitore che consegue all’intervento decisionale del giudice ha