Relatore:
Dott.ssa Maria Lidia DE LUCA
Consigliere della Corte di Appello di Napoli
1. – Introduzione.
La Convenzione O.N.U. dell’89 sui diritti dell’infanzia ha costitui-to un tappa molcostitui-to importante nell’evoluzione del diritcostitui-to minorile, tut-tora teso all’obiettivo di riconoscere al minore la dignità di persona già nella dimensione esistenziale dell’età evolutiva. Il minore non ha più peso, non acquista visibilità solo perché cucciolo o speranza di uomo.
Egli ha già – nell’oggi del suo divenire – peculiarità, valori, interessi, che corrispondono ad altrettanti diritti.
Questi diritti il minore deve poter esercitare in ragione del pro-gressivo sviluppo della sua capacità di autonomia ed autodetermina-zione. Il primo interesse di qualsiasi persona, infatti, è il rispetto della sua personalità intesa per l’appunto come capacità di autodeterminar-si con la conseguenza che gli organi preposti alla tutela devono impe-gnarsi per valorizzare questa capacità ed ottenere il riconoscimento.
È significativo a tale proposito che la Convenzione abbia ripudia-to il termine “minore” (anche se per noi l’appellativo adottaripudia-to – “bam-bino” – risulta semanticamente inaccettabile per coprire tutta la fascia dell’età minore) perché sottolinea eccessivamente una situazione di in-compiutezza, di dipendenza, quasi di rapporto gerarchico tra un adul-to onnipotente ed un minore, privo proprio per la sua “minorità” di ogni capacità e quindi sostanzialmente anche di valore (1).
È significativo che la Convenzione abbia riconosciuto espressa-mente e direttaespressa-mente al minore diritti di libertà: di pensiero, di espres-sione, di coscienza e religione con i soli limiti derivanti dal rispetto dei diritti dei terzi e delle norme di ordine pubblico.
(1) Alfredo Carlo MORO “Il Bambino è un Cittadino”, pag. 21.
Il dibattito sul riconoscimento di tali diritti, per la verità, non è estraneo alla nostra cultura. Il problema che si è posto, però, in questi anni di costruzione del diritto minorile, ha investito piuttosto l’eserci-zio di tali diritti quando questo postulasse un affrancamento del mino-re dalla potestà genitoriale.
E si deve registrare, anche per l’influsso di sempre più approfon-dite acquisizioni scientifiche, una linea di tendenza protesa al ricono-scimento di un’autonomia decisionale del soggetto in età evolutiva con conseguenti possibili manifestazioni di volontà, giuridicamente rilevanti.
Il riconoscimento di una maturità anticipata in relazione ad alcu-ni rapporti, che impegnano la persona nella dimensione del profondo – matrimonio, procreazione, filiazione – ha indotto il legislatore ad at-tribuire al minore la titolarità di consensi e divieti alle iniziative degli adulti o interventi giudiziari, concretantisi alcune volte – piuttosto rare invero – nella titolarità dell’azione: il minore che abbia compiuto 16 anni ad esempio può rivolgersi autonomamente, anche contro la volontà dei genitori, al giudice per ottenere l’autorizzazione al matri-monio; la minorenne di età anche inferiore – purché la natura l’abbia messa in grado di concepire – può decidere di abortire e indirizzarsi al giudice tutelare all’insaputa dei genitori.
Non sempre – è questa la mia personale opinione – le scelte del legislatore sono state coerenti nell’obiettivo di promuovere il minore nell’esercizio di un’autentica libertà e cioè di una libertà responsabile.
Basta infatti considerare che oggi anche una bambina di 13 anni ha diritto ad una sessualità agita nei rapporti con i coetanei, può elimi-nare il frutto del concepimento, come si è accennato, ma non può farsi carico del concepito se non ha compiuto i 16 anni.
Tali contraddittori messaggi finiscono con lo scatenare la reazio-ne dei cosiddetti “protettori” (tra virgolette), di coloro che identifica-no sempre il minore come un essere debole e dipendente, che deve essere gestito dall’adulto.
Viene oggi riconosciuta al minore anche una sorta di “semicapa-cità’’. Anche quando non è capace di autodeterminarsi egli è pur sem-pre in grado di elaborare e comunicare una propria personale valuta-zione della situavaluta-zione nella quale è coinvolto, dando così un contributo significativo e rilevante alla decisione.
Evidentemente è partito da questo convincimento il legislatore, ogni volta che ha disposto che il minore deve o può essere sentito dal giudice nell’àmbito della procedura.
Le considerazioni sin qui svolte mi consentono di entrare nel vivo
della mia relazione distinguendo i vari livelli di partecipazione del mi-nore al processo: sia come titolare del diritto controverso ed, in alcu-ni casi, dell’esercizio del diritto stesso sia come “informatore, testimo-ne, strumento probatorio” tra virgolette. E mi consentono anche di pormi un primo interrogativo alla luce di quanto disposto dall’art. 12 della Convenzione.
Questo, infatti, ha riconosciuto al minore la capacità di formarsi una propria opinione e di esprimerla liberamente, facendo obbligo agli Stati Parti di offrire al minore stesso la possibilità di essere ascol-tato in tutti i procedimenti giudiziari o amministrativi che lo coinvol-gono.
Bisogna quindi chiedersi se questa norma – di immediata appli-cazione – abbia ed in che misura ampliato le ipotesi, già previste nel nostro ordinamento, di audizione del minore.
2. – La partecipazione del minore al processo.
Va detto subito che le ipotesi in cui il minore entra nel processo a pieno titolo, perché legittimato a proporre l’azione o perché chiamato ad esprimere un consenso all’attività dell’adulto, non presentano, ov-viamente, grosse difficoltà sotto il profilo interpretativo della manife-stazione di volontà. Il peso e la valenza da attribuirvi è, infatti, già pre-determinato dal legislatore. A meno che, come nell’ipotesi di autoriz-zazione al matrimonio, il giudice non sia chiamato anche a vagliare la maturità del minore in rapporto alla decisione assunta.
Sono costretta qui a fare un’arida elencazione, e non so nemmeno quanto esaustiva, delle ipotesi cui ho accennato:
– al compimento dei 14 anni il minore: a) deve manifestare il pro-prio consenso all’affido preadottivo alla coppia prescelta (art. 22 L.
184/83) ed al termine dell’affido ripetere la manifestazione di consen-so in vista dell’adozione (art. 25 citata legge); b) manifestare il con-senso all’adozione in casi particolari (art. 45).
– al compimento dei 16 anni il minore può: a) chiedere l’autoriz-zazione al matrimonio, b) promuovere l’azione di disconoscimento di paternità previa nomina di un curatore speciale da lui stesso richiesta in dissenso anche con la madre (art. 244 c.c.); c) impugnare per difet-to di veridicità il proprio riconoscimendifet-to (art. 264 c.c.); d) conferire o negare il consenso alla dichiarazione giudiziale di paternità o mater-nità (art. 273 c.c.) o alla sua legittimazione (art. 284 c.c.); e) opporsi al
proprio riconoscimento di figlio naturale (art. 250 c.c.) o all’inseri-mento di un figlio naturale nella propria famiglia legittima (art. 252 c.c.); f) se figlio naturale, nei casi in cui non può essere accertata giu-dizialmente la paternità, agire a mezzo di un curatore speciale per ot-tenere il mantenimento, educazione ed istruzione.
In tutte le ipotesi, che ho elencato sopra, il legislatore ha ricono-sciuto – lo ribadisco – al minore che abbia compiuto 14 o 16 anni la capacità di autodeterminarsi: il suo parere è vincolante per il giudice.
Lo sbarramento dei 12 anni rende obbligatoria l’audizione del minore – il legislatore usa l’espressione “sentire il minore” – prima del-la decdel-laratoria di adottabilità (artt. 10 e 15 L. 184/83), dell’affidamen-to preadottivo, dell’eventuale revoca dello stesso e dell’adozione – an-che “in casi particolari” (22, 23, 25 e 45 L. 184); l’audizione da parte del servizio locale nella procedura di affido familiare (art. 4, cit. legge).
Bastano invece 10 anni perchè scatti l’obbligo del Giudice Tutela-re (art. 371 c.c.) di sentiTutela-re il minoTutela-re sulla scelta del luogo dove deve essere allevato, dell’indirizzo da dare ai suoi studi o all’avviamento professionale, mentre ne occorrono 14 perchè il giudice – il T.M. più precisamente – sia tenuto ad ascoltare il minore sui contrasti insorti tra i genitori nell’esercizio della potestà parentale (art. 316 c.c.). Lega-ta poi ai casi di stretLega-ta necessità è l’audizione del minore nelle cause di divorzio ai fini dell’emissione dei provvedimenti presidenziali ed anche in vista del provvedimento definitivo di affidamento ai sensi del-l’art. 6, comma 9 delle legge dell’87, che ha modificato la precedente disciplina del divorzio.
Facoltativa per il giudice; rimessa cioè alla sua discrezionalità, l’audizione del minore infradodicenne in tutte le ipotesi (che ho elen-cato sopra) in cui la sua audizione sia prevista come obbligatoria dalla L. 184 al compimento del dodicesimo anno di età.
Così come facoltativa è l’audizione – da parte del G.T. – del mino-re sedicenne in caso di disaccordo dei genitori sul luogo dove stabilimino-re la residenza familiare o sull’indirizzo da dare alla vita della famiglia.
A questo punto un altro interrogativo scaturisce dal confronto dei due diversi tipi di intervento del minore nel processo. E cioè, quando il minore non è abilitato ad esercitare l’azione o ad incidere sulla de-cisione con un consenso o un diniego, che significato deve attribuirsi all’espressione “sentire il minore”, che peso deve essere dato alla sua manifestazione di volontà. Tanto più che, secondo il citato art. 12 della Convenzione, all’opinione liberamente espressa dal minore “deve esse-re dato il giusto peso esse-relativamente alla sua età e maturità”.
3. – L’intervento del minore nel processo dopo la Convenzione O.N.U.
dell’89.
Terminata questa noiosa esposizione dell’attuale configurazione del nostro ordinamento giuridico, vorrei tentare di dare una risposta al primo interrogativo posto sopra. Quando va sentito il minore dopo che la Convenzione O.N.U. ha acquistato in Italia forza di legge?
È stato generalmente riconosciuto che l’art. 12 della Convenzione – introducendo come obbligatoria l’audizione del minore nel procedi-mento civile – è venuto a riempire un vuoto normativo del nostro ordi-namento, che non contempla una previsione generalizzata che disci-plini l’audizione del minore nelle procedure che lo coinvolgono. Tanto che si è ritenuto da un’autorevole fonte interpretativa (2) che – a segui-to della ratifica della Convenzione – debba essere sempre prevista come obbligatoria l’audizione del minore a partire dall’età di 12 anni a meno che il giudice con provvedimento motivato non la ritenga pre-giudizievole o ininfluente. Problemi particolari sono stati affrontati in relazione all’audizione del minore nei procedimenti ex art. 336 c.c., nei giudizi di separazione e divorzio e nelle procedure ex art. 317-bis c.c..
Utilizzando la norma convenzionale come fonte di interpretazio-ne si è ritenuta obbligatoria l’audiziointerpretazio-ne del ragazzo dodiceninterpretazio-ne, come previsto nel procedimento adottivo, anche nei procedimenti ex art. 330 e segg c.c..
I fautori dell’autodeterminazione del minore si sono anche chiesti se l’attuale esclusione della legittimazione attiva del minore stesso in detti procedimenti sia conforme alla normativa della Convenzione. La questione credo sia ancora aperta. Personalmente ritengo che la scel-ta del ragazzo, che chiede di “punire” tra virgolette i genitori, potreb-be essere motivata dal ripotreb-bellismo tipico dell’adolescente e lo scontro giudiziario diretto finirebbe con l’acuire e consolidare conflittualità non autenticamente patologiche. Concordo quindi con coloro (3) che hanno ritenuto opportuno anzi indispensabile che le doglianze del mi-nore passino – prima di arrivare al giudice – attraverso “l’opera di interpretazione e mediazione dei servizi locali ed infine attraverso il setaccio del P.M.”, che si assumerà la responsabilità dell’azione.
(2) Relazione della Commissione di studio sui problemi ordinamentali della giu-stizia minorile, incaricata dal ministro Conso, presieduta da L. FADIGA.
(3) Paolo VERCELLONE, La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo e l’ordinamento interno italiano, in Minori e Giustizia, n. 2/93.
Per quanto concerne le situazioni di disgregazione familiare – per scissione della coppia, unita in matrimonio o convivente di fatto – nel silenzio della legge, le prassi dei tribunali, in ordine all’affidamento dei figli, sono le più varie.
Alcuni, soprattutto i giudici minorili, ascoltano i minori di qual-siasi età, spesso attraverso i servizi. Altri hanno molta resistenza all’a-scolto temendo che il minore si senta comunque gravato dalla respon-sabilità della scelta del genitore affidatario.
Anche per queste ipotesi è stata prospettata (4) l’audizione obbli-gatoria del minore dodicenne e, quello che mi sembra più interessan-te, la nomina – sempre in conformità alla normativa internazionale: il citato art. 12 prevede anche la possibilità di un’audizione indiretta a mezzo di un rappresentante – di un curatore speciale che faccia senti-re la voce del bambino troppo piccolo per far valesenti-re le proprie esigen-ze travolte dall’accesa conflittualità dei genitori.
4. – L’ascolto del minore.
Il punto da chiarire adesso è se la partecipazione del minore alle procedure che lo coinvolgono nei termini interpretativi, che ho sopra riportato, realizzi ed in che misura l’interesse del minore a far sentire la propria voce. Interesse che la Convenzione ha attribuito al bambi-no, senza differenziazione di fasce d’età, ponendo come unico limite l’accordo con le procedure della legislazione nazionale.
Esiste ancora un ampio margine di discrezionalità del giudice nella decisione se ascoltare o meno il minore in rapporto alla sua età?
E se le norme internazionali danno così rilevante importanza alla partecipazione del minore al giudizio, che peso – ritorno qui sul se-condo interrogativo posto – va oggi dato all’opinione ed ai desideri del minore?
Per risolvere il quesito mi sembra importante interrogarsi sulla natura delle procedure civili a tutela del minore.
“La giurisdizione civile, nel suo schema consueto, affida alle parti, in quanto portatrici di diritti soggettivi, non solo l’iniziativa del pro-cesso, ma anche la prospettazione e la dimostrazione della realtà por-tata in giudizio (…) al giudice c.d. ordinario poco deve importare che la realtà “rappresentata” nel processo civile coincida con la verità (…)
(4) Paolo VERCELLONE, vedi nota precedente.
la neutralità del giudice rispetto alle parti si risolve nell’indifferenza rispetto alla loro situazione autentica, nella neutralità rispetto all’au-tenticità del reale.
Per contro, quando la giurisdizione civile ha a che fare con il mi-nore, diventa essa stessa teleologica, perchè viene investita di un fine ben preciso, che riguarda ogni suo momento: tutelare l’interesse del minore (…). Qui si affida al giudice il compito di cogliere la realtà nella sua “verità”, facendola emergere dalle pieghe più nascoste e dalle motivazioni più profonde e contraddittorie” (5).
E questa verità, pur non ignorando il giudice i diritti di cui sono portatori sia il genitore che il minore, si concretizza nelle situazioni, rapporti, relazioni affettivo-educative dei soggetti coinvolti.
Il giudice minorile – e mi riferisco anche al giudice ordinario quando si occupa di affidamento di minori – non è tenuto ad indivi-duare un vincitore o un soccombente; il compito assegnatogli dall’or-dinamento è di assicurare che le relazioni in gioco “funzionino” in mo-do da garantire la crescita e lo sviluppo armonioso della personalità del minore.
È su questa relazione che egli è chiamato ad intervenire con un compito pedagogico e prescrittivo, esplicitamente previsto dalla 184, ma che può leggersi anche nelle pieghe degli artt. 330 e 333 c.c., dal momento che, nel conflitto genitore-figlio, “il suo intervento sarà vera-mente utile e costruttivo, se indirizzato non tanto a decidere cosa può fare il genitore e cosa può fare il ragazzo, quanto piuttosto a rico-struire una nuova e più adeguata relazione in cui ciascuno dei con-tendenti sappia cedere qualcosa per crescere insieme’’ (6). Ed è alla re-lazione più soddisfacente per il minore, che il giudice è chiamato oggi dagli esperti a riferirsi, come criterio ottimale per l’affidamento del figlio rispetto al vecchio parametro di un’astratta “idoneità genitoria-le”, fondata sulle qualità personali e morali del genitore.
Il riferimento alla relazione come oggetto della procedura minorile determina, a mio parere, la conseguenza che il minore – che di questa relazione è soggetto privilegiato ed il cui interesse costituisce il criterio guida del giudice – non può mai rimanere fuori, assente dal processo.
Anche se l’ascolto verrà realizzato ovviamente con modalità diverse in ragione della sua età.
(5) Paolo DUSI, Le procedure giudiziarie civili a tutela dell’interesse del minore, pagg. 10, 11.
(6) Alfredo Carlo MORO, op. cit., pag. 50.
Conviene a questo punto cercare di dare un significato all’espres-sione “sentire’’ il minore cui il legislatore fa riferimento.
È importante sottolineare che gli addetti ai lavori parlano di ascolto del minore, indicando così un processo che coinvolge profon-damente l’interlocutore adulto. Coinvolgimento efficacemente raffigu-rato da una suggestiva ricostruzione etimologica della parola ascolto, risultato della mescolanza del verbo latino “colere” e della forma indo-europea “aus” – “as”: orecchio (7). Ascoltare quindi consisterebbe nel
“coltivare mentalmente ciò che si registra nell’orecchio, tanto che la parola dell’altro – come un seme – venga raccolta e non dispersa, pro-tetta e non deformata”.
Allora è chiaro che ascoltare il minore vuol dire mettersi nell’atteg-giamento giusto, cercare di comprendere le sue reali esigenze, il pro-getto esistenziale per lui indispensabile allo sviluppo di una persona-lità matura ed armoniosa.
Non bisogna dimenticare però che – nell’ascolto – il minore è al tempo stesso la persona nel cui interesse il giudice interagisce, “entra nella relazione”, ed è anche “lo strumento” – la parola è brutta, forse è meglio parlare di informatore, testimone privilegiato – attraverso il quale il giudice raccoglie elementi: eventi, comportamenti, fatti – utili per la decisione. Bisognerebbe anzi dire, facendo ricorso ad un’imma-gine un po’ ardita, che il minore può definirsi quasi “corpo del reato”, dal momento che il suo “io” fisico, esistenziale, emozionale denuncia la carenza o la ricchezza delle relazioni stabilite con lui dagli adulti.
Identificare nel minore un testimone della vicenda che lo riguar-da è sembrato ad alcuni riduttivo rispetto alla promozione del suo pro-cesso di autonomizzazione ed autodeterminazione, che anche il giu-dice deve favorire. Se il minore è solo testimone insomma la sua voce non ha peso.
Il contrasto però è solo apparente.
Il bambino piccolo, con il comportamento, l’adolescente, anche con le parole ed il racconto del suo vissuto, esprimono al giudice delle esigenze.
La dignità che il minore assume nel processo dipende dal rispetto che il giudice concretamente manifesta per tali esigenze.
Quando entrano in gioco i rapporti familiari e personali, il giudi-ce deve intervenire nella relazione, oggetto della progiudi-cedura come si è detto, “in punta di piedi”, ponendosi come interlocutore autorevole e
(7) Claudio FOTI, Quando si dice ascolto, in Minori e Giustizia, n. 2/93.
degno di fiducia, ma scendendo da quel “gradino piu sù” dal quale di solito esercita la funzione del giudicare. Egli entra in un processo cir-colare che vede coinvolti genitori, parenti, minore ed esperti ed il suo atteggiamento, il suo stare dentro la relazione è già un passo verso la soluzione del conflitto.
Questo perchè, quando i problemi sono attinenti la persona, una soluzione autoritativa non è mai efficace.
Qualche esempio rapportato a quelle che sono considerate le audizioni piu difficili, perchè a rischio di trauma per il minore, chia-rirà forse il mio pensiero: l’ascolto del minore prima della declaratoria di adottabilità e l’ascolto del minore vittima di un’accesa conflittualità familiare.
Per quella che è la mia esperienza, in verità, nella maggioranza dei casi l’ascolto del minore adottabile – in ordine alla decisione di tron-care i legami con la famiglia di origine – non presenta gravi difficoltà.
Si sa bene che il bambino, gravemente e profondamente trascurato nelle sue esigenze primarie di affetto, di identificazione e di apparte-nenza (è solo in questi casi di gravi carenze ed assenza di cura che si arriva infatti a recidere i legami familiari) è egli stesso esistenzialmen-te proesistenzialmen-teso verso un’altra famiglia, una famiglia “vera” – come spesso chiede al giudice senza alcuna sollecitazione.
Certo in età preadolescenziale – dai 10 anni in su – ma anche in età inferiore può manifestarsi nel minore un processo di identifica-zione, ancora in via di consolidamento, in figure genitoriali, che, an-che se gravemente carenti e destrutturanti, sono state in qualan-che mo-do presenti nella sua vita ed interiorizzate come punti di riferimento e radici vitali. È ipotizzabile che il giudice ignori tutto questo ed impon-ga autoritativamente al minore, solo perchè non ha compiuto 12 anni o 14 anni, un’altra famiglia? Imponga con un provvedimento la nasci-ta di altri rapporti, altri affetti?.
Certo in età preadolescenziale – dai 10 anni in su – ma anche in età inferiore può manifestarsi nel minore un processo di identifica-zione, ancora in via di consolidamento, in figure genitoriali, che, an-che se gravemente carenti e destrutturanti, sono state in qualan-che mo-do presenti nella sua vita ed interiorizzate come punti di riferimento e radici vitali. È ipotizzabile che il giudice ignori tutto questo ed impon-ga autoritativamente al minore, solo perchè non ha compiuto 12 anni o 14 anni, un’altra famiglia? Imponga con un provvedimento la nasci-ta di altri rapporti, altri affetti?.