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L’autonomia morale nella formazione dell’individuo

CAPITOLO 2- MONDO E ANIMA

2.3 L’autonomia morale nella formazione dell’individuo

Rispetto ad alcune costanti della riflessione morale moderna, il pensiero leibniziano presenta dei tratti di autonomia e di originalità, quando per esempio descrive il mondo come il risultato dell’ordine dato dall’universale armonia355, dove vige la semplicità delle leggi e la ricchezza dei fenomeni; persino il male fa parte dell’ordine universale, giacché ogni evento anche se unico è il risultato di una legge. Questo significa che il male non è il caso fortuito, l’irregolarità, il caos primordiale, l’entità fisica o il disegno astratto da dover opporre al bene, in quanto nel disegno leibniziano dell’universo esiste, da una parte, l’ordine del mondo, costituito dall’armonia prestabilita e, dall’altra, il male integrato in questo stesso ordine.

Guardando ora al cuore della questione, emerge un dato interessante, vale a dire che il filosofo deve giustificare contemporaneamente l’ordine del mondo come il migliore possibile, nel senso della perfetta regolarità, e la presenza del male in esso come parte integrante e integrata nell’ordine. Leibniz, di fronte a questo mistero, sostiene consapevolmente a priori la sua verità; inoltre egli confida di poter sostenere la razionalità di questa verità sulla base dell’analogia con la razionalità matematica di quell’applicazione particolare del metodo infinitesimale che riguarda i problemi più tardi detti di calcolo delle variazioni.

L’esistenza del male, dunque, rende misteriose la giustizia e la bontà di Dio, poiché si oppone come apparenza alla verità. Il mistero, però, si badi bene, non è costituito dal fatto che l’apparenza contraddice la verità, ma, al contrario, dal fatto che la verità contraddice l’apparenza. È questa la differenza tra il mistero e l’enigma, che rende il mistero fecondo, perché in esso la verità è fondamento e fonte del giudizio critico sull’apparenza: l’esatta antitesi dello scetticismo.

Il male è dunque un fenomeno concretamente presente, drammaticamente operante. La verità è inevitabilmente nascosta da quest’ombra, eclissata da questo corpo opaco. Ma il rapporto della ragione pura con la verità permette non solo la fede in quest’ultima, ma anche l’esercizio critico di questa fede: come l’accusatore di Dio, sulla base della propria esperienza dell’esistenza del male, nega la giustizia e la bontà di Dio, così il difensore di Dio, sulla

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base della propria certezza a priori della giustizia e della bontà di Dio, nega che il male abbia un principio e un senso antagonistico, capace di opporsi e addirittura di prevalere sul principio divino che garantisce il senso positivo del mondo.

Quanto precede mi pare indichi chiaramente che un tale atteggiamento non sia altro che l’esplicazione del fato cristiano, il solo capace, da un lato, di fondare l’impegno etico dell’uomo, nella fiducia di cooperare così ad un progetto divino sul mondo, che effettivamente si realizza e, contestualmente, di consolare gli uomini nella loro esperienza del male, di renderli lieti, contenti e anche beati in anticipo.

Leibniz, dunque, sceglie di palesare un’apologia di Dio con un confronto tra il fato maomettano, il fato stoico e il fato cristiano. Il filosofo sceglie di confrontare le diverse posizioni sotto il nome comune di “fato” non certo per avvicinarle. Il suo intento è infatti quello di distinguerle, per dimostrarne le differenze e l’inconciliabilità. In questo modo, Leibniz spiega la sua scelta del termine “fato” anche per indicare la vera pietà, un atteggiamento di virtù attiva fondato sulla mente illuminata, cioè sulla conoscenza delle perfezioni divine. Non a caso, l’individuo che scaturisce da questa visione morale è quella di un uomo che accetta il proprio destino: un’azione essenziale che si chiama fato cristiano. È il riconoscimento del fatto che la provvidenza divina è espressione della bontà e della saggezza di Dio, per cui non solo è possibile all’individuo sopportare gli eventi, ma anche accettarli con letizia e adoperarsi attivamente nell’ambito dell’ordine e dell’armonia del progetto divino.

Vi è dunque tra il destino dell’uomo e il fato cristiano una conformità tale da produrre l’eticità delle azioni umane.

D’altronde, contemplare il mistero della giustizia e della bontà divina, che permette che anche il male entri a far parte del migliore dei mondi possibili, significa innanzitutto lodare Dio, che ha fatto posto nel suo mondo anche a noi miseri peccatori. Infatti, il peccato conferisce all’uomo l’esistenza, giacché senza il peccato, «noi stessi non saremmo»: ci sarebbero altre creature e non certo l’uomo356.

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Che nel mondo vi è il peccato è dunque un dato di fatto, tuttavia non bisogna considerare il male come l’antagonista del bene, nel senso che vi è il male da una parte e il bene dall’altra. D’altra parte, a parere di Leibniz, il male, o la mescolanza di beni e di mali «nella quale il male prevale, non si realizza che per concomitanza, poiché è legato a beni maggiori che sono fuori di questa mescolanza. La mescolanza dunque, o il composto, non deve esser considerato come una grazia o come un dono che Dio ci faccia, ma il bene che vi si trova mescolato non cesserà di esserlo»357.

Vero è che Leibniz, nel corso della Teodicea, deve salvaguardare la libertà individuale e, al contempo, assolvere Dio dall’imputabilità del male che esiste nel mondo. Inoltre, se il male non è l’antagonista del bene non può prevalere sulla legge divina che garantisce il corso effettivo dell’universo, ovvero il migliore dei mondi possibili, dove il miracolo e la malattia, essendo anch’essi il risultato di una legge, trovano posto. Nella prospettiva leibniziana, i miracoli che si verificano nel mondo erano già inclusi e rappresentati come possibili in questo stesso mondo: Dio «ha decretato di farli» e li ha realizzati quando ha scelto questo mondo358.

Questa considerazione fa cadere quello che gli antichi chiamavano sofisma pigro, che portava alla conclusione di non far nulla: «si diceva, se ciò che io richiedo deve accadere, accadrà, quand’anche io non facessi niente; e se non deve accadere, non accadrà mai, per quanta pena mi dia per ottenerlo. Questa necessità che si immagina negli eventi, distaccata dalle loro cause, la si potrebbe chiamare fatum Mahometanum […] fa sì che i Turchi non evitino i luoghi dove infuria la peste»359.

Non a caso, il problema del male viene posto da Leibniz nel quadro di una Teodicea che deve dimostrare la giustizia divina, e la dimostrazione deve passare necessariamente attraverso la giustificazione della costante e dirompente presenza del male nel mondo.

Il discorso leibniziano si costruisce evidenziando, preliminarmente, il contrasto tra verità di fede e giustizia di Dio da una parte e, dall’altra, apparenza del male. Questo contrasto è iscritto nella dimensione del mistero: è infatti un mistero che Dio, per definizione assolutamente giusto

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G. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea, in SF III, Parte seconda, § 119, p. 185. 358

G. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea, in SF III, Parte prima, § 54, p. 141.

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oltre che onnipotente, abbia potuto creare un mondo che ospita in sé il male. Il mistero, però, nella conciliativa teologia leibniziana, non concerne qualcosa che è contro ragione, opposto ad essa, ma rappresenta una verità che sarebbe piuttosto al di sopra della ragione, ossia tale che la nostra mente non può comprenderla o spiegarla compiutamente.

Il male per Leibniz – che da tale punto di vista si presenta come pensatore ‘moderno’, come abbiamo già indicato, non è però una mera parvenza, bensì un’apparenza che ha in sé realtà (non un’apparenza di una realtà), la cui consistenza ontologica si presenta innegabile da parte della ragione. Ciò che la ragione deve fondamentalmente negare è invece la verità del male o, in altri termini, che il male possa costituire la vera essenza.

Dio non vuole il peccato, ma lo permette come conditio sine qua non del bene, intendendo ciò non secondo il principio del necessario, bensì secondo i principi della convenienza, considerato che alla base della sua scelta vi è un atto d’amore che apre le porte anche al peccatore.

Del resto, è il caso solo di accennare che in questo quadro teologico Dio è sì il Creatore, ma in ciò che crea è subordinato al supremo criterio ontologico-assiologico del meglio. In tale prospettiva, si può sostenere che la concezione leibniziana si situi su un piano intermedio tra la volontà assoluta del Dio personale, trascendente, cartesiano e la necessità del Dio- Sostanza spinoziano. Guardando ora al cuore della questione, Leibniz s’interroga sulla causa del male e ricorda che alcuni degli antichi pensatori greci attribuivano la causa del male alla materia, increata e, in senso ontologico, indipendente da Dio: la materia era per loro eterna, e non era quindi nemmeno concepibile una creazione dal nulla: Ex nihilo nihil fit: è la tesi che, implicita o esplicita, attraversa tutto il pensiero greco.

«Gli antichi attribuivano la causa del male alla materia, che essi credevano increata e indipendente da Dio, dove troveremo la fonte del male? La risposta è che dev’esser cercata nella natura ideale della creatura, in quanto siffatta natura è racchiusa nelle verità eterne che sono nell’intelletto di Dio, indipendentemente dalla sua volontà. Bisogna considerare infatti che c’è un’imperfezione originale nella creatura, prima del peccato, poiché la creatura è essenzialmente limitata. E da ciò consegue che essa non può saper tutto, e che si può sbagliare e commettere altri errori. Platone ha detto nel Timeo che il mondo aveva la propria origine dall’intelletto unito alla necessità. Altri

hanno unito Dio e la natura. Si tratta di una tesi alla quale si può dare un senso accettabile: Dio sarà l’intelletto, mentre la necessità, vale a dire la natura essenziale delle cose, sarà l’oggetto dell’intelletto, in quanto consiste nelle verità eterne. Ma siffatto oggetto è interno e si trova nell’intelletto divino: è là dentro che si trova non soltanto la forma primitiva del bene, ma anche l’origine del male. Si tratta della regione delle verità eterne, che deve esser messa al posto della materia quando si tratta di cercare la fonte delle cose. Questa regione è la causa ideale del male (per così dire) altrettanto che del bene. A parlar propriamente, tuttavia, il formale del male non ha alcuna causalità efficiente, poiché, come vedremo, consiste nella privazione: vale a dire in ciò che la causa efficiente non produce affatto. È per questo che gli scolastici usano chiamare deficiente la causa del male»360.

La causa del male risiede in primo luogo nell’imperfezione originaria della creatura, imperfezione che è prima del peccato originale, in quanto l’ente creato, in quanto tale, è per sua essenza limitato. Ma non solo, poiché il suo sapere è un sapere parziale, egli è incline a ingannarsi e a cadere nell’errore. A causa del suo carattere finito e imperfetto, l’uomo può peccare e soffrire. Eppure non è la realtà umana, finita e imperfetta, a rendere l’uomo un peccatore.

In generale, essendo la natura essenziale delle cose l’oggetto dell’intelletto di Dio, Leibniz ritiene che sia il bene che il male traggano da esso origine (o, specificamente, ne siano causa ideale).

È anche importante comprendere il fine ultimo dell’argomentazione leibniziana. Ciò che Leibniz vuole sostenere è che il male non può essere ascritto all’uomo come una colpa. L’uomo non soffre a causa della sua natura, bensì per una combinazione di eventi esterni o un atto di volontà non soggetta alle regole della recta ratio. È un atto di volontà libera a rendere dunque il peccato attuale. Abbiamo stabilito che il libero arbitrio è la causa prossima del male di colpa e, in seguito a ciò, del male di pena, anche se è vero che l’imperfezione originaria delle creature, che si trova rappresentata nelle idee eterne, ne è la causa prima e più lontana.

L’obiettivo polemico di Leibniz è Bayle, che si oppone a quest’uso del libero arbitrio: non vuole che ad esso si attribuisca la causa del male.

Ma, infine, la questione dirimente è ancora un’altra. Bisogna chiarire ancor meglio la natura della libertà.

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Come sappiamo la libertà, «come la si richiede nelle scuole teologiche», consiste – osserva Leibniz – nell’intelligenza, che implica una conoscenza distinta dell’oggetto della deliberazione; nella spontaneità, con la quale ci determiniamo; nella contingenza, vale a dire, nell’esclusione della necessità logica o metafisica.

«L’intelligenza è come l’anima della libertà, e il resto ne è come il corpo e la base». Si può anzi dire che la sostanza libera si determina di per sé e fa ciò seguendo il motivo del bene appercepito dall’intelletto, che la inclina, senza necessitarla, e tutte le condizioni della libertà sono comprese in queste poche parole. L’altro punto nodale è che l’imperfezione che si trova nelle nostre conoscenze e nella nostra spontaneità, e la determinazione infallibile che è implicata nella nostra contingenza non distruggono né la libertà né la contingenza361.

Ovviamente, privarsi del retto uso della ragione vuol dire peccare, sebbene il suo utilizzo come volontà libera sia un atto positivo che la volontà compie, proprio perché nasce da un atto di responsabilità, ossia di libertà. Inoltre, poiché il male non è connaturato all’uomo, questi non rappresenta più il giusto che soffre senza propria colpa, come nel caso di Giobbe, che soggiogato dall’errore fatale, si era trovato in una sorta di «colpevolezza incolpevole»362.

Giobbe rappresenta l’immagine del giusto la cui fede è messa alla prova da Dio. Giobbe, infatti, inebetito dal dolore, chiede a Dio ragione della sua sofferenza. Ad ogni modo, Giobbe non ha commesso nessuna colpa, è un uomo giusto e devoto che è colpito dalla sofferenza. Vero è, nell’immaginario della cultura occidentale di matrice cristiana, che se un uomo pecca, contro Dio o gli uomini, la sua sofferenza è spiegabile: il dolore è il tributo che deve pagare per espiare il suo male. Ma, Giobbe non ha commesso nessuna colpa. E allora perché deve soffrire? Il libro di Giobbe, che fa parte dell’Antico Testamento, mostra chiaramente come la sofferenza del giusto non sempre è una conseguenza della sua colpa. Giobbe è colpito dalla sofferenza nonostante la sua devozione, nonostante ami e rispetti Dio più della sua stessa vita.

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G. W. LEIBNIZ,Saggi di teodicea, in SF III, Parte terza, § 288, p. 317.

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Ciò che si è detto deve far riflettere sul rapporto tra Dio e il male e sul ruolo dell’individuo. D’altronde, la stessa teodicea jobica altro non è che il tentativo di giustificare Dio per la presenza del male nel mondo e per la distribuzione disuguale del bene e del male in rapporto ai meriti umani. È innegabile che il dramma di Giobbe trovi il suo epicentro nell’orizzonte problematico di un Dio impenetrabile e crudele. A parere di Ricoeur, si tratta di una nuova dimensione della fede: una fede non verificabile. È il dramma di un uomo che grida il suo dolore a un Dio che risponde con il silenzio363. D’altra parte, Giobbe è colpevole di aver voluto varcare la soglia del misterium divino e Dio, osserva Simone Weil, si fa beffa delle sventure umane364. Diversa è la posizione di Abraham Joshua Heschel, secondo cui l’errore di Giobbe è di essersi lamentato quando tutto andava male e di essere stato zitto quando, invece, tutto andava bene365.

Beninteso, nella concezione leibniziana il male è il frutto delle azioni malvagie che l’uomo decide liberamente di compiere nel momento in cui non usa rettamente la ragione. D’altra parte, bisogna ammettere che è difficile per l’uomo vivere la propria esistenza senza commettere la colpa del peccato.

Leibniz, in realtà, non intende insegnare precetti di morale o regole e indicazioni spirituali per l’esercizio della vera pietà. Da questo punto di vista, è sufficiente illustrare, nella considerazione del nostro agire, la fonte delle nostre debolezze, la cui conoscenza ci fornisce allo stesso tempo la conoscenza dei rimedi.

Una conseguenza di questa ipotesi è che bisogna darsi una volta per tutte una regola, e cioè bisogna considerare e seguire, una volta comprese, le

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Cfr. P. RICOEUR,Finitudine e colpa, a cura di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna 1970, p. 596; cfr. P.COLONNELLO, La questione della colpa tra filosofia…, cit., pp. 90-91.

364

Cfr. S. WEIL,Attesa di Dio, a cura di J. M. Perrin, trad. it. di O. Nemi, Rusconi, Milano 1972, pp. 87-88.

365

Cfr. A. J. HESCHEL, Passione di verità, trad. it. di L. Theodoli, Rusconi, Milano 1977, p. 267; cfr. P. COLONNELLO, La questione della colpa…, cit., p. 94 (Giobbe vive una situazione limite. Nella sua vicenda il confine tra colpa e innocenza e alquanto labile. Tuttavia, varcare il limite di quella soglia significa prendere consapevolezza delle proprie colpe. Divenire autore responsabile del male che si compie. Giobbe è a metà strada tra il tutto e il nulla, tra il suo essere finito e la sua aspirazione all’infinito. Da una parte il finito si rapporta all’infinito mediante la libertà, dall’altra l’infinito riscatta il finito attraverso la redenzione).

conclusioni della ragione. E ciò per mettersi infine in possesso del dominio sulle passioni così come sulle inclinazioni insensibili o inquietudini (anche se non sono appercepite che mediante pensieri sordi e senza alcuna attrattiva sensibile), acquistando quel costume di agire secondo ragione, che renderà la virtù piacevole e come naturale366.

Come si vede chiaramente, ci muoviamo in un quadro in cui l’immagine del Leibniz morale è affidata quasi interamente alla scelta speculativa dell’agire secondo recta ratio. Ora, è altresì vero che tale concezione dell’etica abbia il suo fondamento anche nell’istinto. A ciò si aggiunga che la sapienza è la scienza della felicità e come tale ci insegna a raggiungerla.

Giova allora riprendere, ancora una volta, il punto focale del discorso, i principi giuridici ed i rapporti sociali sui quali si regge la civiltà umana scaturiscono da due fonti diverse, e cioè l’istinto e la ragione367.

E riguardo alla prima fonte possiamo affermare che la morale ha principi indimostrabili, e che uno dei più essenziali è che bisogna seguire la gioia e fuggire la tristezza. Occorre aggiungere, tuttavia, che questa non è una verità che può essere conosciuta per pura ragione, «poiché è fondata sull’esperienza interna, o su conoscenze confuse, dal momento che non sentiamo cos’è la gioia e la tristezza»368.

Leibniz definisce la gioia come un piacere che l’anima sente quando considera il possesso di un bene presente o futuro come assicurato.

«[…] noi siamo in possesso di un bene, quando esso è in nostro potere in modo tale che ne possiamo godere quando vogliamo»369.

Preliminarmente, è necessario individuare e qualificare che cosa, innanzitutto, si intende con il termine gioia. Il filosofo ritiene che «le lingue mancano di termini abbastanza appropriati per distinguere delle nozioni vicine a questa». Sicuramente il termine latino gaudium si avvicina a questa

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G. W. LEIBNIZ,Nuovi saggi sull’intelletto umano, in SF II, lib. II, Sulle idee, cap. XXI, Della potenza e della libertà, p. 164.

367

G. W. LEIBNIZ,Nuovi saggi sull’intelletto umano, in SF II, lib. I, Sulle nozioni innate, cap. II, Non vi sono principi pratici che siano innati, pp. 64-65.

368

G. W. LEIBNIZ,Nuovi saggi sull’intelletto umano, in SF II, lib. I, Sulle nozioni innate, cap. II, Non vi sono principi pratici che siano innati, pp. 64-65.

369

G. W. LEIBNIZ,Nuovi saggi sull’intelletto umano, in SF II, lib. II, Sulle idee, cap. XX, Dei modi del piacere e del dolore, p. 143.

definizione di gioia sopra indicata più della parola laetitia, la quale si traduce pure con gioia.

«Forse il latino gaudium si avvicina a questa definizione della gioia più della parola laetitia, che si traduce pure con gioia: ma in questo caso essa mi sembra significare uno stato in cui il piacere predomina in noi, poiché durante la tristezza più profonda e

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