• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 1- LA FILOSOFIA DI G W LEIBNIZ

1.2 La lotta all’ateismo

Senza pretendere di esaurire ora l’approfondimento di una tematica così complessa, sul tema dell’ateismo ritorneremo in un altro capitolo del presente lavoro. Ai fini del presente discorso, è utile ribadire come la lotta all’ateismo, in Leibniz, si vada ad identificare con il tentativo di dare un’identità alla cultura della sua epoca e, dunque, con la storia e la vita dei singoli, in quanto costituisce il nesso inscindibile tra l’esistere nel mondo ed il processo di educazione.

Secondo Leibniz, uno dei problemi più drammatici che la sua epoca si trova ad affrontare è quello dell’ateismo. Lo sviluppo del pensiero scientifico e la filosofia meccanicistica portano ad escludere Dio dall’ordine del mondo, con tutte le implicazioni che questo comporta sia in ambito causale sia in ambito morale.

Così, in una pagina di un suo saggio Testimonianza della natura contro gli atei, la filosofia diviene un argine all’ateismo. Vero è che la filosofia, gustata fuggevolmente, allontana da Dio, ma assimilata a fondo riconduce a lui.

A quanto sembra, il filosofo, in un secolo fertile ad un tempo di scienza e di empietà, deve reinserire il principio spirituale nell’organizzazione del mondo e nella spiegazione dei fenomeni. Deve salvaguardare la vita. Vale a dire: deve contrastare un modo di pensare che ha dentro di sé un germe che portato ad estreme conseguenze conduce all’ateismo.

Considerare, infatti, la natura al centro dell’universo e fornirla di tutto ciò che le serve per poi svilupparsi, escludendo Dio dall’ordine del creato, conduce alla negazione di Dio. La scienza del suo tempo ha come risultato la matematizzazione dell’universo: essa, nella spiegazione dei fenomeni, non vuol saperne di fini e di valori. È l’idea del mondo macchina. Una dimensione di pensiero, totalizzante e unitaria, che esclude la presenza divina nel mondo perché l’assorbe all’interno della materia.

La soluzione proposta da Leibniz, in conclusione, è la seguente: da una parte il «principio creatore»: Dio, e, dall’altra, il resto della natura119.

119

G. W. LEIBNIZ, Testimonianza della natura contro gli atei, in SF I, p. 124: «Francesco Bacone di Verulamio, uomo di ingegno divino, disse giustamente che la filosofia, gustata fuggevolmente, allontana da Dio, ma assimilata a fondo riconduce a lui. Lo sperimentiamo nel nostro secolo, fertile ad un tempo di scienza

È un Leibniz giovane a scrivere di getto, in una locanda, il breve saggio Testimonianza della natura contro gli atei120. In questo testo teorizza per la prima volta il principio di ragion sufficiente e la nozione di armonia prestabilita121.

La questione che insistentemente si ripresenta è sempre la stessa: la vera filosofia deve dare una concezione della perfezione di Dio utile in fisica e in morale. Deve tener conto nella spiegazione dei fenomeni naturali delle cause finali, «giacché la causa efficiente delle cose è intelligente»122.

A questo punto, pare che la visione razionalista sviluppata da Leibniz vada assai oltre il livello raggiunto dal mondo antico, non solo perché la fisica del suo tempo era molto più evoluta di quella antica, ma anche perché combinava in modo nuovo e originale l’idealismo platonico con il materialismo aristotelico, che erano spesso intesi come visuali filosofiche opposte.

Qui è il nocciolo duro della questione dell’identità: la sua concezione di un mondo spirituale – ‘ideale’ – governato da “cause” finali (vale a dire da

e di empietà. Infatti, dal momento che le arti matematiche sono state assai perfezionate e con la chimica e l’anatomia si è giunti a studiare l’interno delle cose, si è visto che si poteva rendere ragione quasi meccanicamente, mediante la figura e il moto dei corpi, di molte cose che gli antichi riconducevano o al solo creatore, o a non so quali forme incorporee; e dunque certe persone ingegnose presero a esaminare se non si potessero salvare e spiegare i fenomeni naturali, ossia ciò che appare nei corpi, senza presupporre Dio né introdurlo nei ragionamenti: anzi, quando il tentativo ebbe qualche successo (cioè prima di spingersi ai fondamenti e ai principi), come felicitandosi della propria sicurezza, proclamarono frettolosamente di non aver trovato né Dio né l’immortalità dell’anima mediante la ragione naturale, e che la fede in tali cose si dovesse piuttosto o alle norme civili o alle relazioni storiche: così sostenne il sottilissimo Hobbes, che per le sue scoperte meriterebbe di non essere menzionato qui, se non dovessimo contrapporci apertamente alla sua autorità perché non sia fatta valere nei suoi lati peggiori. E come vorremmo che altri, spingendosi più lontano, sino a dubitare dell’autorità della sacra scrittura e delle verità dei resoconti e delle relazioni storiche, non avessero introdotto senza infingimenti l’ateismo nel mondo!

Mi è sembrato davvero particolarmente indegno che si accechi il nostro animo con la filosofia, ossia con la sua stessa luce. Ho dunque iniziato io stesso ad applicarmi all’indagine delle cose, con veemenza tanto maggiore quanto più diventavo insofferente di venir espropriato, a causa delle sottigliezze degli innovatori, del massimo bene della vita, ossia della certezza di un’eternità dopo la morte e della speranza nella divina clemenza che un giorno si manifesterà ai buoni e agli innocenti».

120

E. J. AITON,Leibniz. A Biography, Adam Hilger, Bristol and Boston 1985; trad. it. Leibniz, a cura di M. Mugnai, Il Saggiatore, Milano 1991.

121

F. PIRO,Spontaneità e Ragion Sufficiente. Determinismo e filosofia dell’azione

in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, pp. 41-42.

122

implicazioni logiche) esistente in parallelo con un mondo fisico – ‘reale’ – governato da cause efficienti (vale a dire da forze meccaniche), mirava a stabilire una sintesi tra quelle due posizioni filosofiche.

Per questa ragione, il dualismo idealismo-realismo, propugnato da Leibniz o, in termini più convenzionali, il dualismo spirito-materia, fu il punto di arrivo necessario del pensiero moderno classico123.

Il problema è che la modernità vuole introdurre nel mondo una nuova concezione della ‘verità’ in cui è considerato ‘vero’ soltanto ciò che può essere considerato tale attraverso l’esperienza e può essere provato.

La nuova conoscenza del mondo è fondata sull’esperienza. Da qui, il passaggio alla filosofia è molto semplice: si tratta di un nuovo modo di considerare la matematica, grazie al quale è stato possibile dar vita al concetto di metodo, concetto che ha caratterizzato lo sviluppo dell’età moderna.

Sicuramente, il merito fu soprattutto di Descartes, che sollecitato dalle istanze di Galilei, sostenne la teoria copernicana, eliocentrica del mondo e le fornì una giustificazione e una fondazione metodologica.

A questo punto, occorre prendere atto che tutto muove dal concetto di metodo. Del resto, in ogni ambito del sapere c’è un metodo, nel senso che si segue una via già tracciata da altri, e la si fa propria. C’è da dire, tuttavia, che in età moderna l’espressione metodo diviene sinonimo di scienza. E la prima questione su cui concentrare la nostra attenzione è rappresentata dai problemi teorici derivanti da questa concezione. In altri termini, nella scienza c’è un solo principio, un unico metodo, che poi si differenzia in innumerevoli forme e applicazioni; ma il metodo è uno solo: quello della certezza della prova.

In tal senso, nel nostro modo di percepire la vita, il concetto di verità si è progressivamente lasciato soppiantare da quello di certezza. L’importante, come ha osservato il filosofo Martin Heidegger, non è più tanto la conoscenza, quanto piuttosto la «certezza della conoscenza»: essere sicuri di ciò che conosciamo, questa è la garanzia offerta dal metodo.

123

Cfr. R. NOBILI,La cognizione dello spazio e il principio di dualità, Dipartimento

di Fisica “G. Galilei”, Università di Padova 1990. Cfr. C. B. Boyer, Storia della matematica, ISEDI, Milano 1976.

Bisogna evidenziare che già Descartes, nel famoso saggio sulle Regole – sicuramente, lo scritto più radicale che egli dedicò ai metodi di ricerca e accertamento della verità – ha mostrato che l’essenza della nuova scienza risiede proprio in questo procedimento di continua verifica.

È vero non più ciò che è affermato autoritariamente o, ciò che è antecedente o, ciò che è sempre stato ritenuto tale, ma ciò che è provato, sperimentato, verificato e verificabile da tutti, secondo le regole della logica e della ragione.

Vero è che l’Illuminismo scientifico si affermò sulla scia di questa concezione scientifica sviluppatasi nel corso del Seicento.

Il nodo centrale, dunque, dell’analisi leibniziana non è tanto l’ateismo moderno come fenomeno particolare di un periodo della storia occidentale, un fenomeno storico e sociologico e neppure, a quanto sembra, la questione dell’ateismo filosofico della storia della filosofia moderna, in opposizione al teismo. Oggetto dell’analisi è l’evento della modernità, il suo senso epocale.

Si tratta di una novità storica senza precedenti nel pensiero filosofico occidentale, che pone fine a un’epoca precedente e ne istituisce una ‘nuova’ costituendone, per l’appunto, il ‘senso’, vale a dire, un’epoca filosofica, politica ed atea.

Tutto ciò, in realtà, significa la posizione di almeno due problemi.

1. La parallela necessità di riconoscere che la tecnica della prova utilizzata dalla modernità fornisce verità parziali più certe, ma verità globali meno certe. La scienza moderna fornisce ‘delle’ certezze ma non ‘la’ certezza.

2. La necessità di ricercare i processi di cambiamento che riguardano non solo gli assetti istituzionali e le organizzazioni, ma anche gli atteggiamenti, i comportamenti e le forme di socializzazione e di espressione della popolazione. Queste tendenze, ieri come oggi, mostrano una specificità giovanile nella creazione di nuovi bisogni e nuovi valori, sia in rapporto alla sfera strettamente privata, sia in rapporto al legame che unisce il giovane alle istituzioni del territorio.

Riguardo al primo problema, anche senza la pretesa di entrare nel cuore di una tematica tanto complessa, è opportuno però ribadire che la concezione della verità proposta dalla tradizione non si preoccupava né di prove né

d’esperienza. La concezione tradizionale della verità, infatti, si fondava sull’autorità degli antichi, che legittimata dal potere sovrano, non poteva essere messa in alcun modo in discussione. La verità della religione è una verità assoluta. Vero è che al processo di Galilei era l’autorità di Aristotele e dei padri della Chiesa ad opporsi al filosofo e non controprove alle sue teorie. Eppure, l’imperativo della prova provoca l’incertezza e l’assenza d’imperativo di prove provoca la certezza124.

La differenza consiste appunto nel metodo: l’uno è passivo, l’altro è attivo, l’uno è accettazione, l’altro è sollecitazione, l’uno si rimette ad un’autorità (i padri della Chiesa, le Sacre Scritture, il re), l’altro si rimette solo a se stesso o ad un’autorità che ha prima dato prova della sua validità (l’autorità scientifica).

Non è dunque una certezza che ne sostituisce un’altra, né una certezza che sostituisce un’incertezza: è una certezza d’incertezza che sostituisce un’incertezza di certezza.

Ad ogni modo, la modernità mette in discussione le certezze assolute che non si possono provare sul campo, ed impone il meccanismo del dubbio, della verifica e della prova. La stessa religione è costretta a piegarsi a questa moderna concezione della verità, divenendo oggetto di verifica su tutti i piani: storico, archeologico, giuridico, morale, psicologico125.

D’altra parte, uno dei tratti maggiormente caratterizzanti la modernità consiste appunto in quel mutamento di pensiero che conduce alla nascita dell’ateismo.

Riguardo al secondo problema, si può indirizzare la nostra indagine verso l’interpretazione leibniziana secondo cui bisogna evitare che delle dottrine, tendenzialmente atee, possano offuscare la coscienza dei “nostri” giovani “sconsiderati”, non ancora dotati di senso critico. Non a caso, nella lettera a Thomasius, il filosofo sostiene che «agli innovatori non bisogna attribuire tutto, ma neppure nulla!»126. Tutto ciò potrebbe sembrare un’esagerazione, ma non è così: il filosofo deve salvaguardare la vita dai mali del

124

G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Einaudi, Torino 1982.

125

A. GÉRARD,L’Ateismo, Conferenza di Tolosa del 15 gennaio 1997, trad. it. di F. Virzo, 2006.

126

G. W. LEIBNIZ,Lettera a un uomo di squisitissima dottrina sulla conciliabilità di Aristotele con i più recenti filosofi, in SF I, p. 132.

riduzionismo della «scienza moderna», e per farlo deve reinserire il principio spirituale nell’organizzazione del mondo e nella spiegazione dei fenomeni127.

Sulla base di queste indicazioni e più in generale sulle prospettive della lex continui, l’idea di dynamis aristotelica si convertirà in una «forza viva» che salva la materia dalla riduzione geometrica che è all’origine delle aporie della scienza moderna.

Il mondo ridotto a categorie geometriche è un pericolo e bisogna considerare se esiste ‘qualcosa’ che sfugga a questa geometrizzazione, che non si lasci ridurre ad un puro meccanismo. In altre parole, se è presente ‘qualcosa’ che individualizzi la realtà. Se questo ‘qualcosa’ esiste il mondo è salvo, e si sconfigge l’ateismo. Il suo compito, quindi, è di conciliare la fede con la scienza, le cause finali, volontà divina con il meccanicismo128.

La tematica sarà ribadita ancora con chiara efficacia in uno scritto del 1695, e precisamente, il Saggio di dinamica, un compendio della sua nuova concezione fisica, vista in stretta connessione con la metafisica:

127

Riguardo a tale problematica, risulta evidente come sussistono notevoli cor- rispondenze tra un pensiero che si sta formando e un pensiero maturo come quello che darà vita ai Saggi di Teodicea, in SF III, Parte prima, § 7, p. 111: «Dio è la ragione prima delle cose, poiché quelle che sono limitate, come tutto ciò che vediamo e sperimentiamo, sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro esistenza necessaria, essendo manifesto che il tempo, lo spazio e la materia, uniti e uniformi in se stessi, e indifferenti a tutto, avrebbero potuto accogliere altri movimenti e figure, e in un or-dine completamente diverso. Bisogna dunque cercare la ragione dell’esistenza del mondo, che è la raccolta intera delle cose contingenti: e bisogna cercala nella so-stanza che porta in sé la ragione della propria esistenza e che, di conseguenza, è ne-cessaria ed eterna. Bisogna anche che questa causa sia intelligente». Cfr. M. SOCORRO FERNÁNDEZ–GARCIA, La omnipotencia del Absoluto en Leibniz, Eunsa, Pamplona 2000, p. 42: «El creato no es otra cosa que la actualización de algo eterno, del consunto de posibles que Dios elige, que antes de ser creados, ya existen en la eternidad de Dios. En el séptimo parágrafo de la Théodicée, Leibniz expondrá de un modo preciso cómo se relaziona la prueba co-smólogica con la de las verdades eternas».

128

D. O. BIANCA,Introduzione alla filosofia di Leibniz, cit., p. 188: «La crisi della coscienza europea, crisi che, sebbene investisse un po’ tutti i rami della cultura, per quanto si riferisce alle scienze morali aveva assunto la forma del dissidio fra scienze e fede, come dire la versione moderna dell’antico contrasto tra verità di ra- gione (nel seicento ragione significava propriamente ragione geometrica) e verità di fede».

«tutti i fenomeni corporei si possono senz’altro ricavare da cause efficienti meccaniche, ma intendiamo che in generale le stesse leggi meccaniche a loro volta derivino da ragioni superiori»129.

Si tratta di affermare la presenza spirituale di Dio nella costruzione dell’universo e nella conoscenza.

Riguardo a tale problematica, preme, ancora una volta, sottolineare la lettera a Jakob Thomasius. Nella lettera, infatti, la conciliazione della filosofia moderna con quell’aristotelica è un tramite per realizzare questo disegno. Non è un caso che sulla base delle idee precedenti maturi, poi, un pensiero adulto, anche se gli orientamenti più accreditati del ‘900 hanno volutamente trascurato gli scritti giovanili leibniziani, trascurando così la componente metafisica che è determinante per le opere della maturità130.

Anzitutto, bisogna osservare, in via preliminare, che Leibniz approva più cose nei libri di Aristotele che nelle meditazioni di Descartes. Del resto, non si ritiene un cartesiano, anzi, è certo che «si possono serbare tutti gli otto libri della fisica di Aristotele, senza nuocere alla filosofia riformata»131. Il filosofo, ritiene che il meccanicismo cartesiano, riducendo i corpi alla sola estensione, ha dato non solo un concetto di materia alquanto riduttivo, ma inadeguato a comprendere l’operare della stessa natura132. Pertanto, il

129

G. W. LEIBNIZ,Saggio di dinamica, in SF I, p. 441.

130

R. CIRINO, Dal movimento alla forza, Leibniz: l’infinitesimo tra logica e metafisica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 9 (Cirino osserva come Russell e Couturat abbiano «volutamente trascurato il quadro storico in cui operava Leibniz […]. Come, pure, avere ignorato del tutto gli scritti giovanili leibniziani in cui la componente metafisica, da Russell e Couturat sottovalutata, mostra tutta la sua forza speculativa determinante per le opere della maturità»).

Cfr. B. RUSSELL, A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, At the University Press, Cambridge 1900; trad. it. La filosofia di Leibniz, a cura di R. Cordeschi, Newton Compton, Roma 1972, p. 37: «Poiché voglio esporre un complesso coerente di idee, mi sono limitato, per quanto è possibile, alle idee del Leibniz maturo, a quelle, cioè, che egli elaborò, non apportandovi che delle lievi modifiche, dal gennaio del 1686 fino alla sua morte, avvenuta nel 1716. le sue idee giovanili, come pure l’influenza che su di lui esercitarono altri filosofi, sono state prese in considerazione solo quando sono sembrate essenziali alla comprensione del suo sistema conclusivo».

131

G. W. LEIBNIZ,Lettera a un uomo di squisitissima dottrina sulla conciliabilità di Aristotele con i più recenti filosofi, in SF I, p. 134.

132

G. W. LEIBNIZ, Su Descartes…, in SF I, pp. 223–224: «Vi sono ancora molte cose nelle opere di Descartes che considero errate […] credeva che fosse impossibile trovare la proporzione tra una linea curva e una retta. Ecco le sue parole “perché non è conosciuta la relazione che sussiste tra le rette e le curve, e non potendo neppure — almeno — divenire mai nota agli uomini” (Geometria, lib.

compito che si propone è di recuperare la filosofia di Aristotele, senza orpelli e commentari e integrarla con la «filosofia riformata». In ogni modo, non possiamo considerare Leibniz un conservatore, difatti, il filosofo, assieme all’impianto della fisica di Aristotele, considera, altresì, i progressi scientifici raggiunti. La fisica di Aristotele, pur essendo utile nei suoi principi metodologici, deve, nello specifico, essere integrata con la «filosofia riformata».

Intento di Leibniz, è, infatti, asserire che il progresso si realizza anche grazie all’apporto dell’esperienza, delle scienze particolari e delle acquisizioni empiriche, egli ritiene che non si può far filosofia se non si è consapevoli di questo. Sarà proprio la «conciliazione» dei philosophi novi con Aristotele, e cioè, la ricerca di una sintesi Antichi/Moderni, a consentire la nuova lettura della natura e dell’uomo133. Una filosofia in cui la materia e il moto si sono mutati in fenomeni, e lo spazio in ordine logico, insieme ad una lettura dei fenomeni psicologici, delle percezioni, tramite il logos dell’espressione134.

Leibniz parla di espressione a proposito di un disporsi reciproco tra la cosa esprimente e la cosa espressa. Il concetto di espressione, come

I, art. 9, nell’edizione di Schooten del 1659). Qui si è gravemente ingannato […]. Se ne sarebbe avveduto egli stesso, se avesse meglio considerato le tecniche di Archimede. È persuaso che tutti i problemi si possano ridurre ad equazioni […]. La fisica di Descartes ha un grande difetto, ed è che le sue regole del moto o leggi della natura, che devono servire di fondamento, sono per la maggior parte false. Se ne ha dimostrazione, e il suo gran principio secondo cui si conserva nel mondo la medesima quantità di moto è un errore».

133

G.W. LEIBNIZ,Lettera a un uomo di squisitissima dottrina…, in SF I, pp. 134- 135. Cfr. F. PIRO, Varietas identitate compensata. Studio sulla formazione della metafisica di Leibniz, Bibliopolis, Napoli 1990, p. 71.

134

Sull’identificazione percezione/espressione, cfr. LEIBNIZ, Discorso di Meta- fisica (1686), in SF I, § 14, p. 275: «Tuttavia, è proprio vero che le percezioni o espressioni di tutte le sostanze si corrispondono vicendevolmente, in modo che ciascuno, seguendo con cura certe ragioni o leggi che ha osservato, si armonizza con l’altro che fa altrettanto, come diverse persone, essendosi accordate di incontrarsi in un certo luogo a una certa data prefissata, se vogliono possono farlo effettivamente. Ora, benché tutti esprimano i medesimi fenomeni, non è che per questo le loro espressioni si somiglino perfettamente, ma basta che siano proporzionali: come diversi spettatori credono di vedere la stessa cosa e si intendono in effetti a vicenda, benché ciascuno veda e parli solo secondo la misura

Documenti correlati