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L’azione educativa promotrice di cambiamento

di Luca Decembrotto*

2. L’azione educativa promotrice di cambiamento

Una tale complessità mostra come l’attuale esercizio della privazio-ne della libertà abbia un carattere pluridimensionale, in cui confluiscono istanze punitive e istanze generative di opportunità fra loro antitetiche. Il trattamento penitenziario non dovrebbe determinare forme di inabili-tazione sociale, né dovrebbe impartire sofferenze ulteriori a quanto già esercitato attraverso la privazione della libertà stessa. A soffrire queste condizioni ulteriormente inabilitanti sono principalmente i soggetti che già vivono una condizione di marginalità: uscire dal carcere e non sapere se si potranno continuare le cure mediche non emergenziali, interrompere un ci-clo scolastico, non avere reti sociali di riferimento sul territorio, vivere una

condizione di deprivazione abitativa, fino alla vita in strada (Decembrotto, 2017), non saper nulla del mondo del lavoro o avere idee del tutto bizzarre a riguardo, sono condizioni che pregiudicano ogni progettualità pedagogi-camente e socialmente strutturata e inducono le persone più vulnerabili a tornare in situazioni già conosciute (o paradossalmente apprese in carcere) di micro criminalità.

L’Ordinamento penitenziario affida ai funzionari giuridico pedagogici il compito di facilitare il percorso di reinserimento sociale, attraverso la partecipazione “all’attività di gruppo per l’osservazione scientifica della personalità dei detenuti” e “al trattamento rieducativo individuale o di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione” (art. 82 O.P.). Attraverso questi due momenti della pedagogia penitenziaria, l’Ordinamento penitenziario intende raggiungere l’obiettivo del reinserimento sociale. A ostacolo di questo obiettivo si possono individuare diverse cause. Una delle principali è certamente la carenza di personale educativo, la quale dovrebbe cono-scere i soggetti reclusi, redigere con loro i progetti e, in forza di quanto premesso finora, facilitarne la realizzazione. L’ultimo rapporto di Anti-gone (2019) evidenzia una presenza di funzionari giuridico-pedagogici pari a 925 per intero territorio nazionale, a fronte di una pianta organica prevista di 999 educatori, con una carenza complessiva pari al 7,4%; tut-tavia, mentre il DAP rileva un rapporto numerico tra detenuti ed educatori pari a 65,5, l’Osservatorio di Antigone alza tale rapporto a 78, con forti variazioni da istituto a istituto e, nell’insieme, in costante aumento. Un dato particolarmente significativo, anche quando messo a confronto con il rapporto medio tra detenuti e agenti di polizia, pari a 1,9 (quasi un agente ogni due detenuti), quando la media europea è di un agente per 2,6 dete-nuti (Antigone, 2019). Ulteriore difficoltà può essere riscontrata nel ricor-so all’osservazione scientifica della perricor-sonalità, un’eredità del paradigma scientifico positivista di stampo clinico, “assolutamente inadeguato rispet-to alla complessità dei processi di sviluppo del soggetrispet-to e delle variabili che intervengono nella formazione della personalità” (Mancaniello, 2017, p. 367). Si tratta di un modello anacronistico, che tuttora considera “il comportamento criminale come una patologia sociale da curare e trattare come se fosse una malattia del corpo sociale” (Mancaniello, 2017, p. 368), quando i fenomeni sociali sono ormai riconosciuti trasversalmente dalle discipline umanistiche come complessi, globalizzati, interconnessi tra loro e in continua trasformazione al pari delle società di cui sono un’espressio-ne. Ne consegue che pedagogicamente “il paradigma dell’osservazione sia del tutto inadatto rispetto alle azioni formative e trasformative che il tempo della reclusione può agire” (Mancaniello, 2017, p. 368), anche in forza del

fatto che tale paradigma non tiene conto né della relazione tra osservatore e osservato, né dell’influsso generato dal contesto (il setting) in cui si svol-ge l’azione osservativa. L’osservazione scientifica della personalità tuttavia mantiene una funzione centrale poiché è finalizzata alle istanze dei magi-strati di sorveglianza, i quali chiedono la compilazione di una “relazione di sintesi”, in cui sono raccolti i risultati del periodo osservativo.

Se la pedagogia penitenziaria è promotrice del positivo reinserimento sociale della persona privata della libertà, come si pone di fronte alle altre richieste del sistema penitenziario? Come già visto in precedenza, se da un lato la direzione sembra essere quella di promuovere l’emancipazione della persona, dall’altro parrebbe essere ancora presente la ricerca di una sua emenda morale basata su una volontà eteronoma, “il detenuto si deve emancipare dal suo passato, dalle sue condotte negative, dalle sue visioni corrotte, dalle sue abitudini nocive” (Sbraccia, Vianello, 2018, p. 118), at-traverso cui realizzare la trasformazione del soggetto detenuto.

Un approccio pedagogico classico alla questione dell’emancipazione in ambito penitenziario proviene dalla prospettiva fenomenologica di Piero Bertolini. Attraverso l’esercizio della sospensione del giudizio (epoché), secondo il pedagogista è possibile individuare un elemento comune a tutte le storie dei giovani devianti (i ragazzi difficili5) nel loro essere sempre in-trecciate da esperienze “dello stesso segno”, qualitativamente carenti, tali da condurre il soggetto che le ha vissute a sviluppare una visione del mon-do disfunzionale. Queste esperienze non sarebbero in gramon-do di fornire alla persona quella pluralità di prospettive esistenziali necessarie a sostenere un pieno sviluppo umano e l’intervento rieducativo, diversamente da quanti pensano si tratti di un processo di adattamento all’ambiente sociale, deve mirare a problematizzare quella visione del mondo.

Per Bertolini “la scientificità pedagogica si qualifica innanzitutto per l’esigenza di senso” (Iori, 2016, p. 20), poiché si occupa di dare un senso

5. Piero Bertolini sviluppa il proprio pensiero pedagogico riferendosi ai “ragazzi dif-ficili”, un’espressione da lui coniata per identificare quei giovani che vivono esperienze di forte contrasto con i modelli della società, a causa di una difficoltà più profonda nel-la costruzione di sé come soggetto. Tali difficoltà superano nel-la soglia delnel-la problematicità più comune, tanto “da rendere necessario il costruirsi di uno specifico ambito di riflessio-ne pedagogica e la ricerca di appropriate strategie di intervento” (Bertolini, Caronia, 1993, p. 13). Per il pedagogista l’uso del termine difficoltà come categoria pedagogica significa sottrarre la persona a una comune “pratica di definizione che estende a tutta la sua perso-na l’etichetta di ciò che è solo un comportamento sistematico o occasioperso-nale che sia” (Ber-tolini, Caronia, 1993, p. 21), come avviene quando la si identifica come “il criminale” o “il delinquente”. “Significa inoltre costruire una prospettiva di riflessione e di intervento che assume, fin dall’inizio, le potenzialità evolutive del soggetto come centrali e che richie-de, di conseguenza, uno sguardo capace di cogliere l’intrinseca e peculiare complessità del singolo caso” (Bertolini, Caronia, 1993, p. 21).

al processo formativo, anziché spiegarlo. Così l’azione educativa da lui immaginata rivolta ai soggetti difficili dovrebbe essere finalizzata alla me-todica dilatazione del campo di esperienza, per far vivere situazioni nuove in grado di sollecitare l’interesse per prospettive esistenziali fino a quel momento sconosciute (Bertolini, Caronia, 1993), al fine di attivare processi funzionali alla costruzione di un nuovo punto di vista su di sé e sul mondo (Cavana, 2010).

Si tratta, quindi, di moltiplicare le situazioni e le sollecitazioni, giocando sulla pluralità delle esperienze, in modo da fargli sperimentare l’esistenza e il valore di prospettive esistenziali e sociali fino a quel momento sconosciute o non tenute in debita considerazione per se stessi (Mancaniello, 2017, p. 372).

Un dibattito interessante, non approfondito in queste pagine, è quello riguardante la concreta possibilità di favorire lo sviluppo di una nuova visione del mondo nell’altro in condizione di privazione della libertà (Man-caniello, 2017), così come quello riguardante l’attualità (e l’attuabilità) del concetto di rieducazione di Bertolini, tra analogie e differenze tra processo rieducativo e processo educativo, entrambi finalizzati allo sviluppo della capacità intenzionale del soggetto (Cavana, 2016).

Un altro approccio pedagogico fondamentale per lo sviluppo di una pe-dagogia in ambito penitenziario si può ricavare dal pensiero di Paulo Freire (2011). Nella Pedagogia degli oppressi viene sviluppata l’idea di un’azione educativa liberatrice, problematizzante, emancipatoria in grado di amplia-re e potenziaamplia-re la coscienza critica del soggetto e di mutaamplia-re il concetto di potere, da capacità di influire sui pensieri, sulle decisioni e sui comporta-menti altrui, a possibilità di agire per contrastare l’ingiustizia sociale pro-pria e altrui.

Entrambi hanno in comune la sfida del cambiamento rispetto a una condizione di partenza e la ricerca di una sempre più ampia emancipazio-ne, quest’ultima individuabile in Bertolini nel processo di riconoscimento delle dipendenze e dei limiti di qualunque forma d’esistenza, mentre in Freire nel processo di (auto) liberazione dai sistemi oppressivi al contempo subiti e agiti.

3. La costruzione del percorso di vita oltre il carcere, nel