di Alessandro Tolomelli*
1. Partire dalla Costituzione
Se prendiamo in considerazione i dati dell’amministrazione penitenzia-ria in Italia, possiamo parlare senz’altro di “un caso di fallimento del pub-blico” (Giordano et al., 2017).
Molti sono gli elementi che ci parlano di questa criticità impressionante. Infatti, sappiamo bene come le carceri italiane siano sovraffollate: nel 2010 la media era di 150 detenuti ogni 100 posti e dati più recenti parlano di 60.439 detenuti (al 30 aprile 2019), quasi 10.000 in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili, per un tasso di affollamento ufficiale che sfiora il 120% (Antigone, 2019). Dal 2013, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per le “condizioni inumane” delle carceri (Sentenza Torreggiani), non ci sono stati sensibili miglioramenti nonostante il calo dei reati e delle condanne.
Altro numero impressionante è quello del numero dei suicidi che nel 2018 ha raggiunto i 67 casi: dato più alto dal 20011.
Non rassicura neppure l’incidenza delle patologie e sindromi profes-sionali relative al personale del carcere che soffre l’ambiente lavorativo stressante e sono frequenti i casi di burnout e, anche in questo caso, non mancano i suicidi (Baudino, 2014).
La sofferenza psicologica e psichiatrica è un’evidenza che accomuna detenuti e personale carcerario: in questo caso il carcere rende uguali nel malessere.
* Ricercatore in Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” - Università di Bologna.
Ma i dati che in questa disamina ci interessa di più sottolineare sono altri tre.
1. Il costo del sistema penitenziario per detenuto in Italia è di 141,76€ al giorno (escluse le spese sanitarie) di cui più dell’80% copre le spese di personale, mentre meno dell’8% viene speso per i detenuti. Di questo 8% solo il 2,5% viene utilizzato per le cosiddette “attività trattamenta-li” (Aebi, Chopin, 2016; Giordano et al., 2017), che sono, di fatto, quel-le azioni volte alla “rieducazione” come da dettato costituzionaquel-le. 2. Il tasso di recidiva dei detenuti dopo il fine pena è del 68,5%
(Mini-stero della Giustizia, 2017) il che, ce ne fosse ancora bisogno, sta a te-stimoniare quanto sia retorico sostenere che il carcere abbia, in effetti, finalità rieducative.
3. Il numero dei “funzionari giuridico-pedagogici” (educatori) è infe-riore a quello previsto dallo stesso Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria: sono in totale 925 contro i 999 previsti (una carenza del –7,4%) con un rapporto numerico educatore/detenuti di 1 su 65,5, e il dato è in crescita rispetto al 2018. Questi sono i numeri ufficiali del DAP, parzialmente ritoccati dall’Osservatorio di Antigone che ha rilevato che, fra gli istituti oggetto della sua ricerca, il rapporto medio detenuti/educatori è di 1/78 con variazioni anche molto evidenti da car-cere a carcar-cere (la Casa Circondariale di Taranto “Carmelo Magli” ha 1 educatore ogni 205 detenuti, un solo educatore anche nel carcere di Rieti e in quello di Tolmezzo, cfr. Antigone, 2019).
Risulta dunque evidente, anche in questo caso, il tradimento del testo costituzionale che, se non vogliamo ridurlo ad una dichiarazione di intenti evocativa, deve rappresentare il riferimento di ogni pratica istituzionale, giuridica, educativa.
Da pedagogista, ma anche da cittadino, credo nel valore della coerenza tra dichiarato e agito e, se non sono così ingenuo da pensare e pretendere che ad ogni intento codificato in un atto istituzionale debbano corrisponde-re esatte e pcorrisponde-recise proceducorrisponde-re e dati di fatto tangibili, ccorrisponde-redo però che la co-erenza debba essere una direzione (Freire, 1972), un obiettivo regolativo e trascendentale (Bertin, 1968), un riferimento che anche se non realizzabile a pieno, deve comunque generare una tensione e uno sforzo per fare avvici-nare teoria e pratica.
Quello che invece dai dati emerge è una conferma del paradigma pu-nitivo, per dirla con Foucault, del carcere che se magari soddisfa pulsioni largamente condivise, purtroppo, dall’opinione pubblica (quelle che vorreb-bero il carcere come dispositivo di sola punizione e sicurezza), non è alli-neato con l’evoluzione del diritto e della civiltà occidentale.
D’altra parte, come sostiene Tim Robbins2, la questione della rieduca-zione del detenuto non deve essere elemento divisivo tra chi interpreta il carcere come dispositivo di riabilitazione e chi di sicurezza. Anche le per-sone fuori dal carcere dovrebbe comprendere che la rieducazione dei dete-nuti è un obiettivo che va incontro prima di tutto alla loro ansia di sicurez-za, in quanto una persona che esce e ha elaborato la propria responsabilità e ha davanti opportunità di inclusione sociale, è più difficile che commetta di nuovo reati. Di conseguenza, l’investimento sulla rieducazione ha una precisa e diretta incisività, anche, sulla sicurezza sociale.
Quello che emerge dai dati, però, non è soltanto l’ovvia inadeguatezza delle strutture e degli investimenti sulla funzione rieducativa che dovreb-be avere il carcere, ma anche una sorta di raddoppio di pena a cui sono sottoposti i detenuti che, oltre a trovare strutture, strumenti e opportunità inadeguati al compito negli Istituti Penitenziari, una volta scontata la pe-na vengono gettati nel mondo esterno spesso senza alterpe-native (esterne) e possibilità (interne) per ri-progettare l’esistenza e intraprendere una strada diversa da quella che li ha portati dentro.
In questo senso credo possa essere di un qualche interesse l’esperienza e l’elaborazione che in questi anni ho sviluppato in rete con altri colleghi3 intorno al tema della progettazione di servizi innovativi orientati all’empo-werment e rivolti alle persone con vulnerabilità sociale. In particolare, l’o-biettivo di questa sperimentazione è stato quello di implementare luoghi ad alto coefficiente di inclusione, spazi aperti e accoglienti che rispondessero al duplice fine di contribuire a rigenerare il senso di comunità nei territori (attraverso lo sviluppo di proposte culturali, ricreative e di pubblica utilità in collaborazione con i cittadini) e, nel contempo, di coinvolgere in questa azione principalmente, ma non solo, adulti senza dimora o in situazione di disagio, nel tentativo di attivare, contestualmente, l’empowerment indivi-duale e quello della collettività. L’idea guida è stata dunque il superamento
2. Il regista e attore statunitense da anni è impegnato nella denuncia delle condizioni delle prigioni americane e in progetti di teatro in carcere. In occasione della presentazione del documentario su quest’ultima esperienza presentato alla Mostra Internazionale dell’Ar-te Cinematografica di Venezia del 2019 dal titolo 45 seconds of laughdell’Ar-tern, Robbins ha rila-sciato numerose interviste molto interessanti sul tema.
3. In una prospettiva di empowerment dal 2014 sono stati sperimentati nel contesto bolognese quelli che abbiamo denominato “Laboratori di Comunità” con l’obiettivo di in-novare i servizi rivolti alla vulnerabilità adulta per una migliore integrazione col territo-rio. Tali Laboratori (Laboratorio E-20, Happy Center, Condominio BelleTrame a cui si so-no aggiunti i Laboratori Rifugio e Scalo) soso-no spazi dell’Azienda di Servizi alla Persona (ASP) del Comune di Bologna gestite da Cooperative Sociali locali (Dolce, Piazza Grande e Open Group). Il percorso di ricerca-azione qui descritto ha coinvolto operatori/trici e co-ordinatori/trici dei Laboratori.
della separazione tra soggetti “fragili” e “forti” per far emergere risorse, competenze, motivazioni in chi solitamente viene percepito come privo di elementi. La scommessa è stata quella di fornire un contributo nella ricostruzione dei legami comunitari partendo proprio da chi da quella co-munità era stato messo ai margini e stigmatizzato, per verificare se questi due contesti, la comunità e il gruppo dei vulnerabili, potessero riabilitarsi reciprocamente.
Vediamo come queste esperienza si è strutturata.