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Mezzi e ostacoli mitizzati

di Alvise Sbraccia*

3. Mezzi e ostacoli mitizzati

Lo scarso sviluppo delle ricerche sociologiche in tema di rientro in so-cietà dal carcere sembra coniugarsi perfettamente con una serie di assunti pregiudiziali, che mettono in evidenza una forma peculiare di dialogo tra gli operatori del campo della penalità (educatori e assistenti sociali intra-murari e esterni, magistrati di sorveglianza, forze dell’ordine) e gli esperti.

Si tratta di un dialogo confermativo, che avvicina talune convinzioni deri-vate dall’esperienza operativa a quadri criminologici di stampo positivista utilizzati per spiegare le cause della criminalità e della recidiva (Campesi et al., 2009). Il ritorno in società sarebbe in questo senso meno rischioso e più funzionale se venissero considerati (e contenuti) quei fattori causali che si associano “naturalmente” al fallimento e alle ricadute. Questo “na-turalmente” appare a chi scrive davvero problematico: quando mancano i riscontri empirici, tende infatti a trionfare un buon senso magari spendi-bile sul piano della comunicazione pubblica e, quindi, ad alto potenziale manipolativo. Concentriamoci su tre di questi fattori, quelli richiamati con maggiore frequenza anche nelle locuzioni di senso comune che andiamo ad utilizzare a titolo esemplificativo.

“Se non sarà in condizioni di trovarsi un lavoro, è ovvio che tornerà a commettere reati”. Il nesso tra disoccupazione e delinquenza sembra reg-gere tranquillamente – anche a livello comparativo internazionale – l’urto della verifica con riferimento alle caratteristiche della popolazione detenu-ta: una compagine massimamente composta da giovani maschi con bassi livelli di scolarizzazione, marginali, scarsamente o per nulla “formati”, dotati di bassissimo capitale sociale e culturale, dequalificati, con esperien-ze di lavoro formalizzato nulle o residuali alle spalle. Inutile ribadire che questi tratti possono essere letti come precursori della selettività poliziale e penale e non solo del delitto, come hanno ampiamente dimostrato gli studi sulla criminalità dei potenti (Ruggiero, 1999). Qui ci occupiamo infatti di criminalità sanzionata attraverso il carcere, quindi, tendenzialmente, non di soggetti di status elevato (Sutherland, 1986). Il “loro” fallimento soggettivo sarebbe imputabile allo scarso impegno nella ricerca del lavo-ro, a una scarsa attitudine al sacrificio, a una bassa soglia di tolleranza alle frustrazioni, a un’impulsività acquisitiva accentuata. Sul versante del fallimento sistemico il penitenziario non sarebbe in condizione di offrire sufficienti percorsi formativi e occupazionali interni (Kalica, 2014), resti-tuendo alla società a fine pena individui non appetibili per il mercato del lavoro. Ora, il rapporto tra dequalificazione e disoccupazione risulta assai meno diretto e scontato. Ampi comparti occupazionali, non solo nel nostro Paese, sopravvivono propriamente grazie all’incontro tra domanda e offerta di lavoro dequalificato. Inoltre, non solo la rincorsa alla formazione appa-re problematica per chi esperisce la prigione, ma essa non sembra affatto garantire, di per sé, maggiori riscontri in termini occupazionali (se non su livelli di alta qualificazione, di fatto inarrivabili). Le rare ricerche quali-tative in questo campo (Maruna, 2001; De Giorgi, 2017; Ronco, Torrente 2017), che considerano anche gli effetti persistenti di stigmatizzazione nel-la ricerca del nel-lavoro, restituiscono l’immagine di soggetti che ritornano a

considerare le strutture di opportunità che conoscevano prima della (delle) detenzione(i): ovvero a dover scegliere tra lavori precari, usuranti, sottopa-gati, pericolosi, spesso in nero o in grigio nei vasti settori delle economie informali e lavori nell’area dell’illegalità. Queste persone molto raramente si trovano a confrontarsi con i mercati del lavoro per la prima volta dopo la prigione. Questa immagine è un vero e proprio distillato ideologico del criminale incallito (carriera criminale lineare). Figura esistente ma am-piamente minoritaria rispetto a un esercito di sanzionati che vantano nel loro passato esperienze di manovali, garzoni, braccianti, lavapiatti, operai, venditori ambulanti, lavavetri, eccetera. Le loro traiettorie biografiche evi-denziano spesso meccanismi di intermittenza tra lavoro regolare, informale e illegale, altre volte un momento di rottura nel quale l’opzione della delin-quenza è infine definita come preferibile (Sbraccia, 2007). In entrambi i ca-si, si tratta di soggetti – tra i molti – che hanno già opposto una resistenza di fronte alle condizioni praticabili sui mercati del lavoro. Il che non signi-fica sostenere che queste forme di resistenza “illegale” siano edisigni-ficanti o le-gittime (Saitta, 2015), ma considerare come sia paradossale giocare la carta del lavoro come forma di emancipazione proprio con chi ha già dimostrato di intenderlo piuttosto come forma di oppressione. Almeno in Occidente, con tutta evidenza, non si tratta di contrastare la criminalità come pratica di stretta sussistenza, poiché i delitti di pura sopravvivenza sono residuali. La proposta concreta del “salario da fame”, di solito discontinuo, non può intercettare gli orizzonti motivazionali dei soggetti che la ricevono in usci-ta dalla prigione. Se non una loro minima parte.

“Se ricomincerà a farsi, stai sicuro che lo rivedremo in prigione”. Il rapporto causale tra tossicodipendenza e crimine è al contempo un retag-gio del passato e un artefatto normativo sempre attualizzabile. Circa un terzo dei detenuti in Italia ha condanne o procedimenti in corso per reati di droga. In netta prevalenza si tratta in effetti di piccoli spacciatori di strada, con problemi di tossicodipendenza. Siamo di fronte a una vera e propria figura archetipica. Sembra identica (con l’eccezione parziale dei tratti so-matici e della provenienza geografica) a quella dell’eroinomane degli anni Settanta e Ottanta, spinto al delitto dalle sue istanze di consumo. Ma il prezzo al dettaglio delle sostanze illecite è nel frattempo crollato per via di un mercato che si è riconfigurato ampliando le sue economie di scala (Giancane, 2018). Inoltre, l’offerta di sostanze sostitutive e la crescita dei servizi preposti sul territorio ha modificato ulteriormente lo scenario delle dipendenze (Scarscelli, 2015). Restano però gli effetti di criminalizzazio-ne direttamente imputabili ad un orientamento normativo proibizionista perdurante. Esso fa da sfondo a politiche criminali e pratiche poliziali che possono, a seconda delle fasi, serrare il controllo sulle piazze di spaccio

e ampliare così questo specifico processo di criminalizzazione (Sbrac-cia, 2015). Anche in questo caso, il parallelo con le misure alternative alla detenzione sembra proficuo, con particolare riferimento, in Italia, al cosiddetto affidamento terapeutico (art. 94 DPR 309/90). In una ricerca ormai un po’ datata (Mantovan, Sbraccia, 2010) si evidenziava il conflitto di saperi tra personale medico (SerD) orientato a considerare la “ricaduta” come elemento del tutto fisiologico in un percorso di gestione delle dipen-denze e orientamenti poliziali e giudiziari (magistratura di sorveglianza) incentrati su una sostanziale equivalenza tra “ricaduta” e recidiva penale. Nel vastissimo panorama delle dipendenze da sostanze (anche legali) più o meno “gestite”, talvolta incentivate, anche il tossicomane irriducibile e inevitabilmente spinto al crimine incarna dunque una figura socialmente costruita, che vede scaricarsi sulle spalle effetti di criminalizzazione che con la dipendenza da sostanze psicoattive di per sé hanno poco o nulla a che fare. Il ritorno in società dell’ex detenuto con problemi di dipendenza (non di rado mantenuti, accresciuti o riorientati in carcere) sarà facilmente mediato dal ricorso agli stupefacenti, non fosse altro che per la sua caratu-ra in termini di stress. Leggere questa dinamica come sintomo rivelatore del suo fallimento soggettivo, e quindi come elemento da contrastare per evitare la recidiva, equivale a una condanna all’inefficacia operativa. A me-no che, per efficacia operativa me-non si intenda il mantenimento di un nucleo di tossicodipendenti da incarcerare ripetutamente.

“Ma cosa vuoi che faccia se si ritrova solo in mezzo a una strada?” - “Se torna agli ambienti da dove proviene, farà di nuovo una brutta fine”. In questo caso gli espedienti retorici sono due, virtualmente contrapposti. Il tema connesso al rientro in società è qui quello delle appartenenze, decli-nabile con riferimento alla famiglia o al luogo di residenza. La narrazione del soggetto che esce di prigione senza soldi e senza prospettive lavorative, privo di rete sociale e di un posto dove andare, magari inadeguato nel ve-stiario, sembra condurre ad esiti scontati. Non si tratta di trame di fantasia, né di storie infrequenti (Nagin et al., 2009): esse rimandano senza dubbio al campo del fallimento sistemico, giacché l’individuo che ne è protagoni-sta ha margini d’azione davvero risicati, di fatto riconducibili alle associa-zioni caritatevoli. Ma il loro valore descrittivo, rispetto ai meccanismi del re-entry, non è generalizzabile. Altrettanto intuitivo sembrerebbe l’assunto per il quale le funzioni di accompagnamento all’uscita dovrebbero com-prendere le attività di mediazione con il contesto familiare e ambientale della persona che esce dal carcere. Naturalmente, non è possibile opporre alcuna argomentazione a questo indirizzo di supporto a contrasto dell’iso-lamento sociale. Ma anche in questo caso alcuni elementi di ambivalen-za devono essere tenuti in considerazione. Non è infrequente imbattersi

– all’interno dei fascicoli giudiziari – in relazioni dei professionisti del trattamento (educatori e assistenti sociali) che tematizzano le appartenen-ze familiari e ambientali di un individuo come: elementi decisivi nel suo percorso di socializzazione al crimine, fattori scatenanti per il suo stato di difficoltà psicologica (o di malattia psichica), fattori di rischio rispetto a una prognosi di recidiva, ganci affettivi imprescindibili, elementi fonda-mentali di sostegno materiale, uniche risorse disponibili. Quando queste appartenenze si definiscono per i loro portati negativi, l’assonanza con il positivismo criminologico risulta perfetta. Quando si trasformano in risor-se, questa assonanza sparisce. È interessante osservare come questa dicoto-mia possa riscontrarsi nella dialettica tra diagnosi, prognosi e trattamento presente anche nella trascrizione istituzionale della vita (e delle prospettive) di un singolo individuo (Campesi et al., 2009). Di nuovo, non si tratta di accusare gli operatori che producono queste letture contrapposte di in-consistenza teorica o incapacità professionale. Si tratta di muoversi con-sapevolmente dentro queste cornici di ambivalenza, evitando di produrre interpretazioni semplicistiche delle dinamiche che caratterizzano il rientro in società e possono tradursi in orientamenti operativi, questi sì, davvero inconsistenti. Questa flessibilità cognitiva e analitica si presenta come mol-to complicata da raggiungere. Difficile offrire linee manualistiche o ricette sempre valide. Forse meglio proporre una base di metodo.