di Alvise Sbraccia*
4. Una soluzione metodologica
I marginali, gli irregolari, i tossicodipendenti, i soggetti che espe-riscono forme di radicale subordinazione sociale, i reietti, i portatori di sofferenza psichica, gli individui cresciuti in contesti relazionali e am-bientali violenti o degradati, gli innovatori (Merton, 2000) che tentano di contrastare la frustrazione strutturale che segna le loro vite – in sintesi, le tipologie umane che compongono la stragrande maggioranza delle popo-lazioni recluse – attribuiscono significati alle loro esistenze, esperienze, reazioni e scelte proprio come gli altri umani. La chiave metodologica che qui proponiamo insiste propriamente sulla rilevazione e comparazione di queste attribuzioni di senso. Si tratta di una opzione epistemologica con-solidata – anche se non certo egemonica – in ambito socio-criminologico. Di una matrice decostruzionista in grado di evidenziare le aporie di un positivismo criminologico spesso inquinato da commistioni improprie con le agenzie del controllo penale e animato da istanze di rappresentazione ideologica di ciò che sono i criminali (Nelken, 1994). Una simile prospetti-va analitica implica come noto uno scivolamento dello sguardo dalle cause
del delitto ai processi di criminalizzazione (Sbraccia, Vianello, 2010). Gli effetti eventualmente perduranti di questi ultimi possono essere interpretati nei momenti successivi all’uscita dal carcere. Anche nella fase del re-entry, dunque, il contatto diretto tra ricercatore e ex-detenuto costituisce un re-quisito fondamentale per accedere a questa dimensione conoscitiva. Quanto più denso il confronto, tanto più ricca la possibile elaborazione; quanto più numerose le occasioni di ricerca in questo campo, tanto maggiori le possi-bilità di comparazione e identificazione di percorsi e ostacoli ricorrenti, al di là della loro prefigurazione o definizione ideologica (Sbraccia, 2018).
Tornando al tema del fallimento sistemico (incidenza della recidi-va), l’analisi sociologica non può (e non deve) partire dall’assunto che gli obiettivi dichiarati della pena detentiva siano effettivi. E se, con John Irwin (2004), ipotizzassimo che il carcere avesse come obiettivo (latente, inerziale, non tematizzato) quello di riprodurre le soggettività che ospi-ta? Di stabilizzare la loro collocazione marginale e la loro “pericolosità sociale”? L’ipotesi è senz’altro più aderente alla realtà fattuale rispetto a quella correzionalistica. In questo caso, con tutta evidenza, il fallimento dovrebbe piuttosto essere letto come un successo. Certo, si tratterebbe di un vergognoso segreto, da non rivelare attraverso una descrizione precisa di ciò che avviene nelle fasi di re-entry, oltre che tra le mura delle prigioni. Ma anche abbandonando l’interessante radicalismo di talune prospettive di penologia critica, gli studi di stampo interazionista – da Goffman (1968) in avanti – hanno evidenziato l’irriducibilità del paradosso delle istituzioni totali. In estrema sintesi esse socializzano le persone ai loro canoni norma-tivi e comportamentali. In un combinato disposto di subordinazione allo staff e adattamento subculturale ai gruppi di reclusi (Crewe, 2012), queste istituzioni stabilizzano tendenzialmente identità devianti, producendo ef-fetti di desocializzazione nella prospettiva del soggetto che le abbandona (re-entry). Salvo miracoli. L’esperienza del rilascio, quando “raccolta” con metodi di ricerca qualitativa e quando raccontata direttamente in chiave autobiografica dai protagonisti (Bunker, 2002), insiste sistematicamente sul drammatico spaesamento che è frutto (avvelenato) di questo paradosso. Il rientro in società ha quindi un potenziale rivelatorio, soprattutto a seguito di esperienze di detenzione consistenti nel tempo o ripetute. Si tratta di intercettarlo, di intercettare il senso delle esperienze che lo definiscono per chi le sta vivendo. Quindi, di seguire queste persone, magari con tecniche di shadowing (De Giorgi, 2017), oppure attraverso colloqui ripetuti.
Allora gli incontri coi mercati del lavoro (datori, mediatori, colleghi) potrebbero essere illuminati da una luce diversa, che non si limiti ad esal-tare le supposte proprietà taumaturgiche dell’essere “occupati”. Il lavoro potrebbe assumere valenze diverse: espediente tattico di copertura,
cata-lizzatore di nuove frustrazioni, strumento di ricatto, penalizzazione in ter-mini di reddito e status (Scott, 2004). Al di là delle ipotesi, questi incontri sarebbero descritti e declinati per la loro capacità di interagire con le sfere motivazionali dei soggetti, così liberate da gabbie moralistiche.
Allora, la morfologia del ritorno agli affetti, alla famiglia, agli amici, ai luoghi di residenza potrebbe essere sottratta alla presunzione manichea di definirla come risorsa fondamentale o come forte (con)causa della rica-duta nel delitto.
Allora, un soggetto che sperimenta gli effetti di medio-lungo periodo dei danni da detenzione (Gallo, Ruggiero 1989) – autosomministratore di sostanze psicoattive che alleviano le sue sofferenze o regalano momenti di piacere, o “paziente” recluso che queste sostanze le ha assunte su prescri-zione medica – potrebbe avere qualcosa di rilevante da dire sul rapporto tra droghe, crimine, carcere e trattamento riabilitativo, al di là delle imma-gini stereotipizzanti.
Si tratta di obiettivi di ricerca davvero non semplici da perseguire, dispendiosi e comunque sottoposti ai limiti di estensione tipici dei metodi qualitativi. Uno dei rischi più consistenti, rilevato in chiave critica rispet-to alle ricerche qualitative sul re-entry (Ronco, Torrente, 2017), è quello di seguire percorsi di accompagnamento di eccellenza, meglio finanziati e/o più strutturati. I ricercatori potrebbero in questi casi essere agevolati rispetto alle modalità di accesso al campo e di contatto con i soggetti di interesse. In questi casi, la visibilità che le “buone pratiche” meritano po-trebbe lasciare in un cono d’ombra le pratiche meno buone, o i percorsi autonomi dei soggetti in uscita non accompagnata. Comunque, può essere molto problematico accostarsi a individui che stanno tornando alla libertà e sono sottoposti a pressioni considerevoli senza diventare persecutorii, com-promettendo così la ricerca stessa. Risulta inoltre sempre difficile costruire i legami fiduciari che consentano di attingere alla densità dei significati prodotti da persone che soffrono, magari anche per via della percezione di un controllo accentuato sui loro comportamenti. La serie di problematiche etiche e metodologiche potrebbe continuare a lungo. Alla fine della lista, tuttavia, resterebbe la domanda: quali alternative, per produrre una cono-scenza situata sulle traiettorie biografiche che compongono il rientro in società come processo sociale?
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