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L’influenza di circostanze storico-istituzionali

CAPITOLO II L’INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE DELLA CRISI GRECA

3.2 L A NATURA ISTITUZIONALE DEL TASSO DELL ’ INTERESSE IN M ARX

3.2.2 L’influenza di circostanze storico-istituzionali

L’arbitrarietà di una determinazione del tasso dell’interesse abbandonata alla concorrenza tra domanda ed offerta di capitale da prestito costituisce un

elemento centrale dello schema marxiano, poiché diviene lo spazio teorico entro cui risulta possibile articolare un ragionamento meno astratto di quello necessario a spiegare, ad esempio, i prezzi normali o il saggio generale del profitto. Ciò che avviene sul mercato monetario può essere visto, con Marx, come il riflesso di un vasto spettro di fenomeni che agiscono sulla determinazione della proporzione tra interesse e guadagno d’impresa, e che vanno dal particolare stadio del ciclo economico allo stato dei rapporti di forza tra le due classi di capitalisti, elemento spesso connesso allo stato di accumulazione raggiunto dalla particolare società che si intende studiare. L’enfasi posta da Marx su quella che egli chiama “irrazionalità” del tasso dell’interesse medio sembra dunque, a nostro avviso, giustificata dal ruolo svolto sul piano teoretico da questa grandezza; è come se l’articolazione dell’analisi su stadi logici separati trovi, nella determinazione del tasso dell’interesse al di fuori del processo produttivo, proprio lo scalino che consente il passaggio da un livello di astrazione elevato ad uno più basso. Marx ci dice che:

“L’equilibrio dell’offerta e della domanda – il saggio del profitto medio presupposto come dato – non significa qui assolutamente nulla. Dove di solito si ricorre a questa formula (e ciò è allora giusto da un punto di vista pratico), essa serve unicamente come una formula per trovare la regola fondamentale, indipendente dalla concorrenza e che anzi la determina (i limiti che la regolano e le grandezze che la limitano); *…+ Questo non vale per il saggio medio dell’interesse. Non esiste assolutamente ragione alcuna perché le condizioni medie della concorrenza, l’equilibrio fra chi dà a prestito e chi prende a prestito, debbano dare a chi dà a prestito un saggio d’interesse del 3, 4, 5% ecc. sul suo capitale, oppure una determinata parte percentuale, il 20% o il 50% del profitto lordo. Quando, in questo caso, decide la concorrenza in quanto tale, la determinazione in sé e per sé è accidentale, puramente empirica, e solo la pedanteria o la fantasia può voler trasformare questa casualità in qualche cosa di necessario.” (Marx, 1894, pp. 501-2.)

Marx provvede immediatamente a qualificare ciò che fino a quel momento aveva chiamato semplicemente “irrazionalità” o “determinazione accidentale, puramente empirica”, spiegando che il processo di formazione del tasso dell’interesse è influenzato in misura determinante dalla particolare cornice istituzionale entro cui quella variabile distributiva è negoziata:

“La consuetudine, la tradizione giuridica ecc. intervengono precisamente quanto la concorrenza stessa nella determinazione del saggio dell’interesse medio, nella misura in cui questo esiste non solo come un numero medio, ma come grandezza reale. *…+ Se si domanda ancora perché i confini del saggio medio dell’interesse non si possono derivare dalle leggi generali, la risposta si trova semplicemente nella natura dell’interesse. Esso è semplicemente una parte del profitto medio.” (Marx, 1894, pp. 502-3.)

Si tratta dunque della natura eminentemente storico-istituzionale delle molteplici determinanti del tasso dell’interesse medio: quell’“irrazionalità” è più propriamente definibile come l’assenza di una regola semplice, generale e di proprietà perfettamente definite per la determinazione del tasso dell’interesse, e dunque l’apertura dell’analisi economica allo studio del contesto istituzionale entro cui si realizza il confronto tra la domanda e l’offerta di fondi prestabili. Nell’affermare che questi elementi istituzionali “intervengono precisamente quanto la concorrenza stessa nella determinazione del saggio medio dell’interesse”, Marx disegna una struttura analitica che attribuisce la medesima rilevanza tanto ai movimenti di fondo dei mercati finanziari, sintetizzabili nelle dinamiche della domanda e dell’offerta, quanto alla varietà di regole, consuetudini e pratiche operative che disciplinano e orientano, in ciascun particolare contesto storico-istituzionale, quei movimenti. L’architettura istituzionale entro cui creditori e debitori sono chiamati a definire i termini dei loro contratti finisce così per collocarsi al centro dell’analisi del tasso dell’interesse. Sulla base di questa idea, Marx può così affermare la natura

“empirica” delle circostanze che preludono alla determinazione del tasso di interesse:

“Come poi le due persone che hanno diritto a questo profitto se lo ripartiscano, è una questione in sé e per sé puramente empirica, che appartiene al regno della casualità, precisamente come la ripartizione

delle percentuali del profitto comune di una società fra i diversi soci.

Nella ripartizione fra plusvalore e salario, su cui si fonda essenzialmente la determinazione del saggio del profitto, esercitano un’azione decisiva due elementi completamente diversi, forza-lavoro e capitale; essi sono funzioni di due variabili indipendenti che si limitano reciprocamente, e dalla loro differenza qualitativa proviene la ripartizione quantitativa del valore del prodotto. *…+ Per l’interesse non si verifica nulla di simile. Qui la differenza qualitativa *…+

proviene al contrario dalla ripartizione puramente quantitativa della

stessa parte di plusvalore.” (Marx, 1894, p. 503, corsivo nostro.)

In pratica Marx sta cercando di distinguere le leggi meccaniche che regolano l’entità del saggio generale del profitto e la determinazione del sistema dei prezzi normali, che traggono quel particolare carattere dalla natura del modo di produzione capitalistico (ecco perché, nelle parole dell’autore, la ripartizione quantitativa “proviene” dalla differenza qualitativa tra lavoro e capitale), dalle circostanze storico-istituzionali che influenzano la ripartizione del profitto in interesse e profitto d’impresa, circostanze che vengono per l’appunto accostate dall’autore alle questioni puramente empiriche. Marx ci dice che la distribuzione del reddito tra lavoratori e capitalisti, ossia quel movimento di risorse che, al termine del processo di produzione e scambio, garantisce una remunerazioni ai lavoratori che hanno prodotto ed ai capitalisti che hanno impiegato i loro capitali nella produzione, è una ripartizione quantitativa necessaria in quanto proveniente dalla particolare configurazione del modo di produzione capitalistico, ossia dall’esistenza di lavoratori salariati privi di capitali da un lato e dei proprietari dei capitali necessari ad intraprendere la produzione dall’altro; il carattere meccanico di tale ripartizione ha consentito alla scienza economica di

elaborare una relazione funzionale definita tra salari e profitti ed un’analisi dei prezzi normali sufficientemente generale. Al contrario, la ripartizione del profitto tra interesse e guadagno d’impresa viene qualificato come una questione “puramente empirica”, paragonabile alla spartizione dei dividendi all’interno di una società per azioni, laddove si tratta di contendersi, in base alle rispettive forze contrattuali, quote di un profitto che è già emerso dal processo produttivo, e sulla cui suddivisione nulla può essere detto a priori.

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