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L’insostenibile leggerezza delle olofrasi

Nel documento Dal complesso al semplice (pagine 68-73)

3. Si fa per dire

3.1. L’insostenibile leggerezza delle olofrasi

L’idea di partenza su cui prende le mosse l’impianto teorico ascrivibile all’ipotesi del protolinguaggio olistico (Wray, 1998, 2002) si concretizza in una decisa presa di distanza dall’impianto teorico ascrivibile al protolinguaggio composizionale e sintetizzabile nelle parole di Tallerman (2010 :83):

Traditionally, evolutionary linguistics have assumed that the earliest forms of presumed protolanguage were compositional, i.e. built up from single words, where one word equals one concept.

La linguista, infatti, pone come unità minima alla base delle abilità di comunicazione protolinguistica, la strategia di elaborazione olistica. Perché lo si possa considerare utile e vantaggioso, un sistema comunicativo deve essere in grado di trasmettere in maniera affidabile un messaggio a sé stante dal parlante all’ascoltatore. Due sono le vie attraverso cui raggiungere tale obiettivo. Una prevede l’introduzione di alcune regole che prediligano una precisa interpretazione sulle altre possibili, attraverso indicazioni del tipo: “qualunque parola compaia per prima rappresenta l’argomento” o “qualunque parola compaia alla fine è da considerarsi l’oggetto dell’azione” (Wray, 1998); ma questo non può ovviamente essere valido per un sistema privo di grammatica come il protolinguaggio. L’altro modo per comunicare con successo, invece, è accordarsi sul fatto che una certa sequenza di parole esprima un certo significato, e che non è perciò necessario considerare alcun altro possibile significato per quella specifica sequenza. In questa prospettiva non ha alcuna rilevanza l’ordine in cui le parole sono proferite né ha importanza se effettivamente le singole parole abbiano realmente a che fare con il messaggio trasmesso. La sequenza di parole, infatti, trae il suo significato dall’intero e non dalla somma delle parti, laddove tali “parti” non sono da considerarsi affatto parole ma semplici elementi privi di significato presenti all’interno dell’enunciato, esattamente così come gli elementi by, and e large non sono da considerarsi parole separate nell’espressione by and large il cui significato complessivo è “nell’insieme”. Tale osservazione è significativa in quanto dimostra in che modo non avere grammatica significhi al contempo non avere parole componenti. Ciò che ne deriva è che, se siamo alla ricerca di un linguaggio privo di grammatica, non è alle parole che dobbiamo guardare ma alle espressioni olistiche che trasmettono un significato complesso

(Arbib 2002, 2012; Mithen, 2005; Wray, 2000). Un linguaggio senza grammatica infatti non necessita di parole ma di enunciati e questi, ne consegue, devono essere evolutivamente più antichi (Smith, 2008). L’idea attorno cui si impernia la proposta teorica della linguista Alison Wray, madre dell’ipotesi olistica di protolinguaggio, è che sia possibile rintracciare diretti precursori del pre- linguaggio nell’analisi dei sistemi di comunicazione dei primati non umani che, al contempo, fornirebbero ottime prove a sostegno dell’ipotesi per cui le cosiddette olofrasi avrebbero rappresentato le unità di scambio originarie (Mithen, 2005). I primati ricorrono all’utilizzo di segnali vocali e gestuali che, privi di alcuna struttura morfologica interna, servono a raggiungere specifici obiettivi interazionali correlati alla preservazione del sé e degli altri e alla gestione delle relazioni sociali . Si tratta perciò di segnali strettamente funzionali, nella misura in cui sono destinati ad avere un effetto sul mondo del parlante e/o dell’ascoltatore, incitando una particolare reazione in quest’ultimo. Tali segnali, ancora, sono di tipo olistico: non sono articolati in parti componenti che possano essere ricombinate per creare un nuovo messaggio. Immaginiamo che i primi ominidi ricorressero a occorrenze comunicative di questo tipo, essendo però capaci di un repertorio più complesso di scambi funzionali e avendo pertanto bisogno di un insieme più ampio di proto-enunciati. Senza alcuna unità componente dotata di significato da poter combinare per produrne diversi, ogni enunciato avrebbe dovuto essere sonoramente distinto dagli altri, e questo attraverso l’impiego dei suoni del tratto vocale usati come materiale grezzo per la costruzione dei segnali. I cambiamenti graduali nel tratto vocale avrebbero reso disponibili un maggior numero di suoni e, parallelamente, un maggior numero di enunciati discreti. Ogni enunciato sarebbe stato mantenuto separato dagli altri attraverso i contrasti fonemici. (così, ad esempio, mabu avrebbe indicato un messaggio del tipo ‘stai alla larga’, mentre madu avrebbe significato ‘prendi il bastone’). Il

protolinguaggio, in questa prospettiva, sarebbe quindi da intendersi come un insieme foneticamente sofisticato di enunciati formulaici, con significati concordati e funzionalmente specifici, che sono da considerarsi come uno sviluppo diretto a partire dai gesti e dalle vocalizzazioni dei primati, con i quali condivide il fatto di non avere alcuna struttura interna. Ogni enunciato in quest’ottica è da considerarsi foneticamente arbitrario, privo di alcun tipo di correlazione sonora con gli altri enunciati portatori di significati analoghi. Gli enunciati avrebbero avuto le stesse funzioni interpersonali (Halliday, 1970) assolte tra i primati, esprimendo e contrattando rapporti e incitando particolari azioni negli altri.

Così, ad esempio, Wray (2000: 294) individua una serie di possibili espressioni presenti in un ipotetico protolinguaggio olistico foneticamente arbitrario nel seguente insieme:

tebima give that to her dallo a lei mupati give that to me dallo a me

kumapi share this with her condividilo con lei pubatu help her aiutala

Come appare evidente, non vi è alcuna similarità fonologica tra le sequenze con significato analogo: in questo stadio non vi è alcuna parte rintracciabile in ‘tebima’ che significhi ‘dare’ o ‘lei’, semplicemente perché il messaggio è dato dall’intero enunciato. Perché un sistema di questo tipo potesse funzionare, ogni individuo avrebbe dovuto essere in grado di memorizzare, senza l’aiuto di alcun indizio lessicale o grammaticale, la forma e il significato di ogni enunciato. A

dispetto di quanto potrebbe apparire, tale scenario risulta fortemente plausibile nella misura in cui ipotizza di un sistema di comunicazione che ricorre all’uso di enunciati solo per un limitato insieme di funzioni interazionali quali, ad esempio, impartire ordini, minacciare, avanzare richieste, salutare. Non vi era alcun bisogno di un’espressione che significasse ‘Il mondo appare splendido stanotte’ o ‘Chissà se domani pioverà’ (Wray, 1998: 52). Analogamente, all’interno del modello di protolinguaggio proposto dalla linguista non vi è spazio per parole referenziali o descrittive poiché, di fatto, non vi sarebbe stato alcun bisogno di far riferimento a descrizioni fini a se stesse (‘questo è un albero’; ‘l’albero è alto’).

The use of holistic expressions rather than a compositional protolanguage by pre-modern humans is the most parsimonious interpretation. The behaviour of pre-modern humans as evident from the archaeological record can be explained by reference to the holistic phrases; as this is a simpler and more ancient form of communication than compositional language, it is the most parsimonious interpretation to accept (Mithen, 2009 :65).

Il passo successivo nell’argomentazione a favore dell’ipotesi di un protolinguaggio di tipo olofrastico, è rappresentato dal tentativo di rintracciare nel comportamento linguistico moderno delle evidenze che diano supporto alla tesi fondante. In particolar modo, si prenderà il caso del linguaggio formulaico come fossile linguistico vivente e, nella direzione di una prospettiva continuista, si cercherà di dimostrare come esso condivida le sue caratteristiche fondanti con i sistemi di comunicazione dei primati non umani.

Nel documento Dal complesso al semplice (pagine 68-73)

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