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Dal complesso al semplice

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Academic year: 2021

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Università degli Studi Roma Tre

Dottorato in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane – XXIII ciclo

Dal complesso al semplice

M-FIL/05

Coordinatore Tutor

prof. Mauro Dorato prof. Francesco Ferretti

Candidato Serena Nicchiarelli A.A. 2014/2015

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Indice

0. Introduzione……….3

1. Quale linguaggio?...8

1.1. Calcoli e combinazioni nel cognitivismo classico………...11

1.2. Composizionalità di principio………14

1.3. Messaggi in codice………..………...19

1.4. Il cuore sintattico del linguaggio………..23

1.5. Perché cambiare modello………..26

2. L’inappropriatezza della collana di perle………..32

2.1. Il linguaggio come rappresentante degli umani………...36

2.2. Discontinuisti a tutti i costi………40

2.3. “Io Tarzan, tu Jane”. Composizionalità in sintesi………..45

2.4. Fantasmi protolinguistici viventi………..48

2.5. Lingue senza pedigree: il pilota automatico alla prova……… 53

2.6. Dal semplice al complesso………56

3. Si fa per dire………..65

3.1. L’insostenibile leggerezza delle olofrasi……….68

3.2. Comunicazione olistica………..73

3.3. Il presunto fondamento pantomimico del linguaggio formulaico………..77

3.4. Dove le formule sono di casa………84

3.5. Banco di prova: formule e Parkinson………...94

3.6. Prove di evoluzione in laboratorio………98

Conclusioni……….. 105

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Introduzione

Few topics about which scholars have puzzled can be quite so intriguing and so tantalizing, but at the same time so frustrating,

as the evolution of the human capacity for language […] If we are even a tiny bit curious about our own origins,

we have to be curious about the origins of language (Burling, 2005 :1)

Secondo una diffusa opinione popolare, il processo evolutivo del linguaggio avrebbe trovato avvio a partire da una manciata di grugniti istintivamente emessi da un individuo molto peloso con una clava in mano, sarebbe passato attraverso una fase singhiozzante del tipo “Io Tarzan, tu Jane”, per poi finalmente approdare alle intricate laboriosità proprie dei discorsi complessi. Per lungo tempo, anche i modelli scientifici chiamati a dar conto dell’evoluzione del linguaggio, in maniera non molto difforme rispetto alle convinzioni ingenue custodite e tramandate all’interno dell’immaginario popolare, hanno affidato i loro impianti teorici a quadri esplicativi saldamente imperniati sull’idea secondo cui il complesso sarebbe inevitabilmente emerso a partire dal semplice. Ciò che ci proponiamo di fare, all’interno del presente lavoro, è invertire la rotta di questo percorso, suggerendo che le espressioni complesse – nello specifico, come vedremo, le espressioni olofrastiche protolinguistiche evolutesi dalla pantomima – abbiano giocato un ruolo di primo piano nelle fasi embrionali del linguaggio.

Più nello specifico, l’argomentazione trova avvio a partire da una significativa presa di distanza dalle teorie evolutive del linguaggio che hanno adottato

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tradizionalmente un approccio esplicativo di tipo bottom-up, secondo i cui dettami le unità semplici, inflessibilmente associate a singoli significati, avrebbero rappresentato il punto di partenza evolutivo nel processo di transizione che, da forme ancestrali, ha portato al linguaggio pienamente dispiegato. In accordo con un tale approccio si assume che le unità atomiche rigidamente associate a un significato costituiscano gli elementi basilari fondamentali, laddove il discorso e le enunciazioni più complesse rappresenterebbero solo un prodotto tardo del processo evolutivo.

Sarà di certo capitato a ciascuno di noi di invitare un amico a “non mettere il carro davanti ai buoi” o di accusare la ragazza antipatica del primo banco di “darsi troppe arie”. Per lungo tempo, questo tipo di espressioni sono state considerate come delle stranezze linguistiche, etichettate come delle anomalie marginali poste alla periferia dell’analisi semantica, «difficoltà minori per un programma di ricerca comunque trionfante» (Bianchi, 2003 :14). La nostra idea passa per una rivalutazione di queste espressioni. Più nello specifico, lungi dal considerarle mere irregolarità linguistiche prive di interesse, all’interno di questo lavoro le considereremo come le più antiche rappresentanti della nostra abilità linguistica. Ciò che intendiamo sostenere, in altre parole, è che la strategia d’elaborazione olistica nei processi di produzione e comprensione linguistica abbia giocato un ruolo di primo piano nel processo di transizione al linguaggio. Diversi modelli evolutivi ipotizzano l’esistenza di un protolinguaggio, uno step evolutivo intermedio tra forme di comunicazione alinguistica e le forme estremamente complesse che caratterizzano (o dovrebbero…) la capacità fabulatoria dei sapiens che ci circondano. Ma cos’è stato e da dove ha trovato avvio il protolinguaggio? Quali i sistemi che lo hanno realizzato? Si può dire che sia dipeso da una singola mutazione genetica che ha forgiato il destino dell’uomo? O, piuttosto, si è trattato di un percorso più articolato che, attraverso

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un susseguirsi di modificazioni lente e graduali, ci ha condotto allo status di animali linguistici? La nostra idea è che, più che essere considerato una proprietà magica donata ben confezionata all’umanità, il linguaggio rappresenti un equipaggiamento che la nostra specie ha acquisito nel corso del processo evolutivo.

Nello specifico, basandoci su argomenti di ordine concettuale ed empirico, in questo lavoro si identifica il bersaglio polemico in un cardine teorico che contraddistingue la letteratura sul tema del linguaggio in scienza cognitiva: la Teoria computazionale classica che, tradotta sul piano del protolinguaggio, trova sostanza esplicativa nello standard model dell’ipotesi sintetica portata avanti da Derek Bickerton.

L’obiettivo è proporre che il processo di transizione al linguaggio abbia seguito una direzione che, controintuitivamente rispetto alle ipotesi prevalenti, va dal complesso al semplice. Abbracciare il modello olistico di protolinguaggio e, contro la tesi standard, sostenere che i costituenti basilari del linguaggio debbano essere individuati nei processi funzionali di carattere olistico che rendono possibile il fluire della comunicazione già prima dell’avvento di un codice espressivo vero e proprio, attraverso il radicamento all’ambiente.

Considerando che, com’è noto, non è possibile avvalersi di alcun tipo di fossile (tradizionalmente inteso) del linguaggio, la scelta metodologica operata è rappresentata dal portare avanti uno studio del funzionamento del linguaggio per avere dati sull’origine, attraverso l’individuazione di quelle strategie comunicative che garantiscono il corretto fluire della conversazione negli effettivi scambi conversazionali.

In accordo con gli studi della linguista Wray, all’interno del presente lavoro si considera il linguaggio formulaico (definibile come un insieme aperto di unità linguistiche multi-sillabiche, associate a significati complessi non derivabili dalle

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parti e context-sensitive) come retaggio dell’ancestrale strategia comunicativa olistica alla base delle capacità protolinguistiche. La significativa incidenza delle espressioni olofrastiche proprie del linguaggio formulaico nei reali scambi comunicativi e le loro importanti funzioni di supporto alla dimensione pragmatica del linguaggio, legittimano la rilevanza che viene assegnata alle espressioni formulaiche. Come ampiamente dimostrato in letteratura, in effetti, quando sono coinvolti in compiti cognitivi faticosi, i parlanti mostrano una significativa tendenza a ricorrere a processi elaborativi di tipo olistico, sia perché essi appaiono assai più vantaggiosi ed efficaci (in risposta al cosiddetto idiom principle, determinato dalla naturale tendenza a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo) rispetto ai modi di elaborazione di tipo analitico, sia perché le espressioni formulaiche olistiche assolvono importanti funzioni nelle effettive situazioni conversazionali. Sulla base di queste considerazioni, l’idea è che il ricorso ad espressioni olofrastiche fosse a maggior ragione utile in origine, per mantenere in vita una comunicazione ancestrale tra protoparlanti che non potevano di fatto avvalersi di alcun codice linguistico comunemente condiviso. Parte del lavoro, incentrata sull’analisi delle proprietà e delle funzioni che caratterizzano il linguaggio formulaico, legittima la proposta che l’emergenza della strategia olistica che sottostà al modello di protolinguaggio qui sostenuto sia strettamente correlata allo stadio evolutivo precedente. Nello specifico, l’intuizione si sostanzia nell’ipotesi teorica secondo cui il protolinguaggio olistico sarebbe da intendersi come una naturale verbalizzazione di capacità in gioco già nella fase immediatamente precedente nel percorso evolutivo e rappresentata dalla pantomima. In quest’ottica, obiettivo ultimo è suggerire che, all’interno dell’ipotesi olistica, il protolinguaggio debba essere inteso come un insieme aperto di olofrasi, ciascuna associata (non univocamente ma in maniera sensibile al contesto) a un significato complesso – non derivabile dalle parti – e ciascuna

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rappresentante, alla stregua della pantomima, un atto comunicativo complesso orientato a uno scopo. L’intuizione che il protolinguaggio olofrastico affondi le sue radici nell’azione (e, in particolar modo, nella pantomima) trova sostanza argomentativa, nel corso della trattazione, nella descrizione di dati clinici provenienti da soggetti affetti da Alzheimer e Parkinson.

Il fine che ci proponiamo di raggiungere è quello di dimostrare come le olofrasi protolinguistiche poggino esattamente sulla dimensione pragmatica della tradizione language-as-action (Clark, 1996). Il nostro obiettivo, tra le pagine che articolano il presente lavoro, si sostanzia nell’intento di fornire, attraverso la presentazione di un modello di protolinguaggio pragmaticamente fondato, un’ipotesi originale in merito ai processi evolutivi che, da forme alinguistiche, hanno portato al linguaggio pienamente dispiegato.

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Capitolo 1

Quale linguaggio?

Your theory of language evolution depends on your theory of language (Jackendoff, 2010)

Un grande re indiano una volta convocò nel suo palazzo sei monaci ciechi e li invitò a esaminare un elefante. Il primo monaco cieco pose le sue mani contro il fianco dell’animale e si pronunciò: “E’ una parete”. Il secondo afferrò l’orecchio dell’elefante e disse “E’ un ventaglio”. Al terzo toccò la coda e la descrisse come un serpente. Il quarto analizzò la proboscide e disse che si trattava del ramo di un grosso albero. Il quinto descrisse la liscia zanna appuntita come una spada. E l’ultimo monaco cieco, poste le sue braccia attorno alla zampa dell’elefante, dichiarò di aver incontrato una colonna. I sei iniziarono quindi a discutere su chi avesse ragione. Il Re li interruppe. “Avete tutti ragione” – disse – “E avete tutti torto”.

La nostra quotidianità è indiscutibilmente intrisa di scambi linguistici. Dalle fugaci conversazioni improvvisate in ascensore alle ben più ponderate dichiarazioni d’amore (elegantemente confezionate in deliziose falsità), passando per i momenti (di gran lunga più interessanti) dedicati al pettegolezzo, il linguaggio permea inesorabilmente le nostre vite, scandendo nitidamente il nostro essere umani. Ma da dove è venuto fuori e cos’è il linguaggio? Tentare di offrire delle risposte a domande di questo tipo implica, parallelamente, impegnarsi sulla definizione della nostra stessa natura di esseri umani. Proprio per

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questa ragione il dibattito imperniato sul linguaggio e sulla sua origine è da sempre stato teatro di fervidi scontri ideologici e di inamovibili prese di posizione.

Il nostro obiettivo, tra le pagine che articolano il presente lavoro, si sostanzia nell’intento di fornire un’ipotesi teorica in merito ai processi evolutivi che, da forme alinguistiche, hanno portato al linguaggio pienamente dispiegato, prendendo contestualmente posizione all’interno dell’animato dibattito incentrato sulla natura del protolinguaggio (e sulla sua stessa esistenza). La prima esigenza metodologica cui si fa fronte, tuttavia, è quella di chiarire quanto più possibile il nostro oggetto di indagine. Nello specifico, in accordo con l’idea di Ray Jackendoff (2010), secondo cui la delineazione di ogni modello evolutivo del linguaggio dipende inevitabilmente dal modello di linguaggio a cui ci si riferisce, prima di affrontare le questioni relative alla natura delle unità protolinguistiche in azione agli albori delle nostre capacità comunicative e a quale percorso evolutivo esse abbiano fatto seguito, ci troviamo a dover fare i conti con i modelli interpretativi della natura del linguaggio. In altre parole, prima di addentrarci sugli interrogativi incentrati sul come è evoluto, è utile – oltre che ragionevolmente di buon senso – concentrarci sul cosa è evoluto.

The very conceptualization of what constitutes a transition event in the first place is dependent on adopting a committed position regarding the overall nature of language, and, in particular, the order in which various component of the language ‘package’ evolved (Wray, 2002b :3).

Nel linguaggio, per come lo esperiamo ora, combiniamo parole per formare frasi e giustapponiamo frasi per dar vita a discorsi. La capacità sintattica

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supporta forme di composizionalità semantica in modo che, a partire dai significati delle singole parole e dalle costruzioni che le combinano, siamo in grado di determinare il significato dell’intera frase e quindi, secondo un’opinione largamente diffusa, dell’intero discorso. Ma, come vedremo più approfonditamente nel corso del lavoro (Capitolo 3), il processo di composizione del significato a partire dai significati atomici delle parti costituenti non sempre si rivela un’operazione utile ed efficace nel corso dei nostri scambi conversazionali quotidiani. In effetti, questo è quello che avevo intuito già da bambina mentre mia madre, con un convincente «non è aria», mi suggeriva qualcosa di decisamente più complesso delle tre singole unità che componevano il proferimento.

Tenendo ben presente che, come sottolineato da Kenneally (2008: 6), «il maggior ostacolo allo studio dell’evoluzione del linguaggio è il linguaggio stesso», in questo primo capitolo l’attenzione sarà riservata alla presentazione degli aspetti centrali del modello di linguaggio diffusamente abbracciato dai rappresentanti della tradizione cognitivista classica che, esaltando le componenti formali del linguaggio, ha il suo cardine argomentativo nel principio di composizionalità di fregeana paternità. Tale modello che, come vedremo più nello specifico nel corso del secondo capitolo, trova sostanza esplicativa nello standard model dell’ipotesi sintetica di protolinguaggio proposta dal linguista Derek Bickerton (1990, 1995, 2014), rappresenta un bersaglio polemico degli argomenti presentati all’interno di questo lavoro. Il nostro intento, tra queste pagine, è quello di mostrare come l’idea di linguaggio (e, al contempo, l’idea di mente e di uomo inevitabilmente ad essa associate) veicolata dal cognitivismo classico sia inadeguata a dar conto di imprescindibili aspetti propri degli scambi comunicativi reali.

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1.1. Calcoli e combinazioni nel cognitivismo classico

Words… so innocent and powerless they are, as standing in a dictionary, how potent for good and evil they become in the hands of one who knows how to combine them!

(Hawthorne)

Nato dalle ceneri del paradigma comportamentista che per tutta la prima metà del XX secolo ha dominato la ricerca psicologica imponendo fieramente il sigillo di modelli esplicativi targati “stimolo-risposta”, l’avvento del cognitivismo all’interno del panorama scientifico porta con sé una significativa rivalutazione della mente, fino ad allora considerata come un’imperscrutabile “black box” e, per questa ragione, metodologicamente scartata dalle indagini scientifiche (Thagard, 2006). In effetti, in forte contrasto con la metodologia scientifica comportamentista incardinata sul presupposto della riducibilità del mentale al solo comportamento manifesto, negli anni Sessanta del Novecento la scienza cognitiva classica rintraccia precisamente nei fenomeni mentali il proprio oggetto di ricerca scientifica, inaugurando l’idea che i processi interni alla mente siano da considerarsi alla stregua dei processi di funzionamento di un calcolatore (Horst,1999). In questa prospettiva, anche il comportamento non viene più considerato come oggetto di studio a sé, divenendo piuttosto una fonte di informazioni capaci di ragguagliarci sui meccanismi interni alla mente e sul modo in cui questi meccanismi funzionano nell’azione e nell’interpretazione (Bouchard, 2013). E’ nei processi intermedi che si interpongono tra gli input e il

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comportamento osservabile, nel cosiddetto piano funzionale, che è possibile individuare la mente. Nello specifico, quindi, la mente verrebbe a coincidere con il software eseguito dalla macchina fisica in cui è attivato; essa sarebbe paragonabile a una proprietà astratta di tale macchina. Da ciò deriva che ogni modello teorico che voglia dar conto di cosa sia la mente deve limitarsi a fornire una descrizione dell’insieme di calcoli e operazioni che vengono realizzati al suo interno (Putnam, 1975). Il quadro esplicativo della teoria computazionale della mente ha trovato, così, sviluppo precisamente a partire dall’idea per cui i processi cognitivi sarebbero descrivibili nei termini di rappresentazioni mentali di natura astratta (Fodor, 1975, 1983; Pylyshyn, 1984). Assumendo che «le attività mentali sono quindi processi computazionali paragonabili all'esecuzione di un software su una base hardware (il cervello)» , si pone sullo stesso piano un sistema cognitivo e un qualsiasi elaboratore di simboli, capace di trasformare input in output attraverso il ricorso a operatori logici e regole per la loro applicazione. In questa prospettiva, quindi, la cognizione è assimilabile a un calcolatore nel quale vengono elaborate stringhe di simboli secondo un impianto di regole formali definite all’interno del sistema cognitivo stesso. Se la cognizione è un processo di elaborazione formale, allora, una volta stabiliti i simboli, il loro valore semantico e le regole algoritmiche di trasformazione, non ha importanza il supporto materiale che realizza effettivamente i processi cognitivi. Una conseguenza cruciale di questa impostazione è una forma pericolosa solipsismo metodologico (Gallese, 2013), vale a dire l’idea che al fine di comprendere la cognizione si debbano studiare soltanto i processi di elaborazione dell’informazione che hanno luogo ‘nella testa’ dell’individuo (Fodor, 2000) e che la mente possa essere studiata in modo del tutto indipendente dal suo sostrato neurologico. Con le parole di Putnam (1960: 37), «la mente può essere fatta di silicio, o magari di formaggio, perché sono le sue proprietà di organizzazione a fare di essa una mente, e

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l’organizzazione può in linea di principio essere realizzata con un sostrato a piacere». Come sottolineato da Parisi (1999 :52),

Con l’idea della mente computazionale i cognitivisti hanno potuto incassare il vantaggio di considerare la mente come una macchina e quindi come qualcosa di studiabile rigorosamente – contro Cartesio –; senza però dover abbandonare il dualismo tra la mente e il corpo dato che l’analogia con quella macchina sui generis che è il computer permetteva loro di continuare a tenere la mente al riparo dalle scienze della natura – facendo così contento Cartesio.

L’immagine solipsistica della mente che ci restituisce la scienza cognitiva classica è quella di un sistema funzionale i cui processi sono descritti in termini di «manipolazioni di simboli informazionali in accordo ad una serie di regole sintattiche formali» (Gallese, 2013). L’ipotesi centrale è che il pensiero possa essere spiegato in termini di strutture mentali rappresentative e procedure computazionali che operano all’interno delle strutture stesse (Bouchard, 2013). La teoria per cui l’identità degli stati mentali è determinata dal ruolo causale che essi svolgono nella vita cognitiva di un agente, indipendentemente dal modo in cui tale ruolo è realizzato fisicamente, il funzionalismo, va così, di pari passo con la tesi secondo cui i processi mentali sono computazioni, vale a dire manipolazioni di rappresentazioni simboliche governate da regole sintattiche (Marraffa, 2003). Alla tesi della natura computazionale della cognizione viene affiancata l’idea che gli stati mentali abbiano natura rappresentazionale (Paternoster, 2002). Unire la teoria computazionale e la teoria rappresentazionale della mente significa postulare che la forma - vale a dire il livello sintattico - della

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rappresentazione mentale possa essere inserita in un processo di calcolo (Parisi, 2002). Ciò vuol dire che, se il ragionamento è costituito da molteplici funzioni computabili, i costituenti di tali funzioni sono le proprietà formali dei contenuti di pensiero. Le operazioni di pensiero corrispondono a relazioni causali tra rappresentazioni mentali e queste interazioni causali sarebbero sintatticamente organizzate (Fodor, 2002). Se il cervello svolge computazioni su simboli, sono le computazioni che contano, non il supporto fisico su cui sono svolte; di qui, la possibilità di implementare la capacità logica su qualunque un dispositivo meccanico (quale fu, a suo tempo, la Macchina di Turing). In questo quadro esplicativo, la cognizione si sostanzia nell’elaborazione formale delle rappresentazioni, a prescindere dal contenuto informativo. A guidare i processi computazionali sarebbe esclusivamente la struttura sintattica delle rappresentazioni mentali corrispondenti; e la conoscenza sarebbe rappresentata tramite una ridescrizione - traduzione degli stati di attivazione delle modalità sensoriali in un formato amodale - simbolico, simile ai simboli del linguaggio (Marraffa, 2003). I processi di pensiero si attuerebbero nei termini di una manipolazione di tali simboli amodali in base a regole simili a quelle del linguaggio proposizionale. Sostenendo questa visione della cognizione significa sposare l’idea per cui sarebbe la sintassi la condizione essenziale dei pensieri. L’attività cognitiva si sostanzierebbe nell’applicazione di regole formali deputate all’elaborazione della forma dei simboli astratti e il pensiero può di fatto essere considerato una forma di calcolo (Horst, 1999).

1.2. Composizionalità di principio

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insieme di regole definite sulla base delle caratteristiche sintattiche delle rappresentazioni. In altre parole, come abbiamo visto, il pensiero sarebbe costituito da un sistema di simboli mentali, a sua volta caratterizzato da una sintassi combinatoria e da una semantica, tali che le rappresentazioni sono causalmente sensibili esclusivamente alle proprietà sintattiche delle rappresentazioni stesse. L’architettura funzionale computazionale, vale a dire il fatto che la mente sia composta da dispositivi composizionali deputati all’elaborazione specifica delle proprietà sintattiche delle rappresentazioni, impone il vincolo del formato proposizionale unico delle rappresentazioni (Fodor, 1983). La natura attribuita al contenuto mentale è di tipo proposizionale, sulla base dell’assunto per cui i pensieri, così come le strutture linguistiche, sarebbero costituiti da rappresentazioni interne dotate di una sintassi – coincidente con la loro forma logica - e di una semantica - il contenuto rappresentazionale - (Pitt 2009). La sintassi costituisce condizione di fondo dei pensieri: il cervello opera tramite regole formali che presiedono l’elaborazione della forma dei simboli. In questo senso la forma logica in cui sono espresse le rappresentazioni simboliche del pensiero può essere accostata al calcolo dei predicati. Questo significa sostanzialmente che la proposizione sia da intendersi come la forma generale della rappresentazione mentale, in pieno accordo con l’assunto per cui il pensiero avrebbe una natura essenzialmente logico-linguistica. Nello specifico, nell’ipotesi fodoriana non è il pensiero a rispecchiare la struttura del linguaggio ma è il linguaggio a rispecchiare la forma del pensiero: il linguaggio può esprimere il pensiero perché la sua struttura ne rispecchia la forma – esso è parassitario nei confronti del pensiero.

One can imagine a view according to which only thought is compositional in the first instance and the apparent productivity,

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systematicity, etc. of languages is parasitic on that of the thoughts they are used to express. In fact, I’m inclined to think that is the right view (Fodor, 2004).

L’idea che i pensieri siano rappresentati in strutture simil-linguistiche rappresenta il nucleo concettuale costitutivo dell’ipotesi del Linguaggio del pensiero di Fodor (1975). Più precisamente, linguaggio e pensiero avrebbero caratteristiche comuni per il fatto di avere in comune una semantica combinatoria e per il fatto di condividere due proprietà:

- la sistematicità – vale a dire la proprietà in virtù della quale la capacità di comprendere e produrre una frase sarebbe intrinsecamente connessa alla capacità di comprenderne e produrne diverse altre;

- la produttività – con cui si intende la capacità di pensare infiniti pensieri di complessità illimitata, a partire da un numero finito di elementi.

Poiché la sistematicità e la produttività del linguaggio dipendono dalla struttura in costituenti e, poiché anche il pensiero esibisce entrambe le proprietà, allora ne consegue che anche il pensiero deve avere una struttura in costituenti. Questo perché i processi mentali hanno accesso alla struttura in costituenti degli enunciati mentali che formano le rappresentazioni del Linguaggio del Pensiero (Paternoster, 2002). In altre parole, la sistematicità e la produttività dei pensieri è analoga a quelle delle lingue naturali. Il pensiero è produttivo perché è composizionale; ed è composizionale perché ha una struttura in costituenti (Fodor, 1987).

Un argomento rapido è che le capacità cognitive devono essere sistematiche almeno quanto le capacità linguistiche, dato che il linguaggio ha la funzione di esprimere il pensiero […]. Capire una

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standardizzato […]. Non può darsi che il linguaggio esprima il pensiero e che il linguaggio sia sistematico, a meno che non sia dia anche che il pensiero sia sistematico quanto il linguaggio (Fodor, 1987, trad.it. :229).

Come le espressioni di una lingua naturale, così le rappresentazioni del Linguaggio del Pensiero esibiscono proprietà sia sintattiche che semantiche. Più nello specifico, queste rappresentazioni sono simil-linguistiche in quanto sono composte da parti costituenti e sono strutturate sintatticamente, avendo la possibilità di combinarsi fra loro secondo regole sintattiche. Le parti atomiche che le compongono si riferiscono a cose e proprietà del mondo; e sono composizionali, nella misura in cui il contenuto semantico di una rappresentazione è funzione del contenuto semantico delle sue parti atomiche – insieme alla sua struttura sintattica. Tali rappresentazioni hanno condizioni di verità (e di conseguenza valori di verità determinati dal modo in cui è il mondo) e intrattengono fra loro relazioni logiche di implicazione.

Nell’idea fodoriana, la produttività e la sistematicità del pensiero, come abbiamo visto, sono spiegabili in base all’ipotesi di un linguaggio del pensiero, anch’esso caratterizzato da una sintassi e una semantica combinatorie. In quest’ottica, il pensiero è sistematico, in quanto i processi mentali accedono alla struttura in costituenti delle rappresentazioni del linguaggio del pensiero; ed è produttivo in quanto l’applicazione ricorsiva delle regole del linguaggio del pensiero a rappresentazioni atomiche darebbe luogo a rappresentazioni di complessità progressivamente crescente.

Consideration on the productivity and systematicity of languages (and mind) strongly suggests that both the syntax and the semantics of

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complex expressions (/thoughts) must be composed from the syntax and the semantics of their constituents (Fodor, 2008: 55-56).

Più nello specifico, un sistema di rappresentazioni simboliche prevede al suo interno un insieme di elementi atomici, vale a dire simboli primitivi veicolano significati in se stessi poiché si riferiscono a entità e proprietà del mondo (Millikan, 2001); e un insieme di elementi complessi, ottenuti semplicemente attraverso la composizione di simboli atomici sulla base dell’applicazione di regole sintattiche. Teoricamente, in accordo con il principio di produttività, è possibile creare un sistema potenzialmente infinito di simboli complessi, a partire da un numero limitato di simboli atomici, attraverso la combinazione sintatticamente guidata.

Il programma cognitivista classico, saldamente incardinato sullo stretto binomio che vede computazione e rappresentazione come facce di una stessa medaglia, è stato per lungo tempo l’impianto teorico di riferimento degli scienziati cognitivi per lo studio dei processi di elaborazione linguistica. Sulla base di quanto detto sinora, infatti, il significato di un enunciato è determinato in modo regolare dalla sua struttura in costituenti, vale a dire dai singoli significati associati alle sue parti e dalle regole di composizione (Fodor e Pylishyn, 1988). Le parti costituenti possono essere combinate in accordo a regole ricorsive, in modo che le rappresentazioni atomiche – che corrispondono a concetti semplici e innati – possano essere combinate per creare rappresentazioni via via più complesse. In questo senso, il significato, nella scienza cognitiva classica, è caratterizzato in modo costitutivo dal principio di composizionalità, secondo il quale, partendo dall’assunto del formato proposizionale del pensiero e quindi del linguaggio), il significato di un enunciato è determinato dal significato delle parti atomiche

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costituenti e dalle regole che le combinano. Secondo il principio di composizionalità di fregeana paternità, il contenuto semantico di un’espressione sarebbe una funzione del contenuto semantico delle sue parti e delle regole sintattiche tramite cui esse sono combinate. All’interno di questo percorso di significazione bottom-up, quindi, le rappresentazioni semantiche a livello locale (vale a dire a livello della parola e della frase) sarebbero stabilite ancor prima del senso globale del discorso complesso. In questa prospettiva, i significati complessi sarebbero codificati per mezzo della combinazione, basata su regole, delle caratteristiche lessicali e semantiche degli elementi atomici che compongono le singole frasi (Borg, 2012; Cappelen e Lepore, 2005; Myers e O’Brien, 1998).

Sulla base degli assunti che costellano la concezione classica, viene veicolata una precisa concezione dell’elaborazione linguistica, riassunta quindi nell’idea per cui il significato linguistico sarebbe spiegabile nei termini dei costituenti atomici dell’enunciato proposizionale e nella loro tendenza a combinarsi attraverso regole sintattiche, per dar vita a elementi via via più complessi e più ricchi di contenuto. Questa concezione, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, ha delle importanti ricadute sui modelli di elaborazione linguistica che hanno a lungo dominato la scena della ricerca scientifica.

1.3. Messaggi in codice

A partire dall’idea che la mente possa essere interpretata nei termini di una macchina sintattica guidata da meccanismi funzionali sensibili esclusivamente alle proprietà formali delle rappresentazioni mentali, la tradizione computazionale

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entro cui opera la scienza cognitiva classica è associata inscindibilmente a una precisa ipotesi sulla natura del linguaggio. Come sarà ormai facilmente intuibile, tale ipotesi si sostanzia nell’idea che l’unità essenziale d’analisi del linguaggio sia rappresentata dalla proposizione. L’elaborazione linguistica costituisce un caso specifico di una teoria più generale sul funzionamento dei processi mentali. Il linguaggio è caratterizzato da certe proprietà e da determinati processi perché la sua struttura è specchio della struttura del linguaggio del pensiero. Se i pensieri operano sulla base di una struttura sintattica che ne costituisce l’essenza primaria, anche il linguaggio - trattandosi di un veicolo di espressione dei pensieri - esibirà le stesse caratteristiche. In tal senso, i meccanismi inferenziali in gioco nei processi comunicativi operano esclusivamente sulla forma sintattica del sistema simbolico che impiegano. Poiché all’interno di questa concezione, come abbiamo visto, il sistema cognitivo è composto da una cospicua varietà di sottosistemi modulari specializzati per dominio (Fodor, 1983), la trasformazione dei suoni in significati è garantita da un processo completamente «automatico e inconscio» (Jackendoff, 1993), cablato esclusivamente sugli stimoli linguistici. La precisa forma logica degli enunciati, direttamente collegata alla struttura sintattica mutuata dalla struttura sintattica dei pensieri che trasmette, sottende l’immediatezza del processo. In questo modo l’elaborazione di un enunciato, in produzione e in comprensione, si risolve nella valutazione della forma logica «sicché un sistema di input che abbia accesso alle rappresentazioni di un enunciato del trasduttore idoneo sa su tale enunciato tutto ciò che gli occorre per determinare quale tipo di frase sia […] nonché, probabilmente, quale forma logica abbia» (Fodor 1983; trad. it. p. 138).

Nello sposare questa chiave interpretativa, quindi, l’elaborazione linguistica viene a coincidere a pieno titolo con un meccanismo involontario, non gestibile in maniera conscia attraverso processi di pensiero high-level. Riprendendo Edelman

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(2012), non si può interrompere il meccanismo mentale di attribuzione di significato in presenza di stimoli linguistici, così come non si può far a meno di «vedere uno stimolo visivo consistente di oggetti distribuiti in uno spazio tridimensionale» (Fodor, 1983 :91). E l’attribuzione di significato qui in gioco, secondo gli assunti del modello di linguaggio associato alla tradizione computazionale classica, viene a coincidere, nello specifico, con un processo di codifica e decodifica guidato da un parser sintattico (Fodor, 1984). In questa prospettiva, la struttura logica dell’enunciato rappresenta l’essenza di significato necessaria e sufficiente, condensando al suo interno tutto ciò che serve ai fini della comprensione. Come conseguenza diretta, ogni tipo di informazione esterno all’enunciato è semplicemente irrilevante ai fini dell’operazione di decodifica. I processi di elaborazione linguistica qui delineati costituiscono le fondamenta del modello standard della comunicazione (Shannon e Weaver, 1949), il cosiddetto modello del codice considerato non solo naturale ma soprattutto imprescindibile per dar conto di come avvenga la comunicazione su base linguistica (Fodor, 1975). In effetti, le basi esplicative del funzionamento della comunicazione che sorreggono tale modello fanno da eco a una diffusa concezione ingenua del senso comune per la quale, in risposta alla domanda “Cos’è la comunicazione?”, l’intuizione generalmente condivisa è che essa consista nel trasferimento di un contenuto mentale dal parlante all’ascoltatore (Scott-Phillips, 2014). In effetti, sulla base di tale modello, cui peraltro aderisce una gran parte degli scienziati cognitivi, data la priorità del pensiero rispetto al linguaggio, la comunicazione linguistica sarebbe essenzialmente uno strumento per la trasmissione di pensieri. Il messaggio, impacchettato dall’emittente in una successione di suoni codificati, per essere compreso viene semplicemente decodificato ad opera del destinatario. Sulla base degli assunti della teoria computazionale, in effetti, specificato il meccanismo mentale che consente di

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associare pensiero e linguaggio, i processi comunicativi (di produzione e comprensione) sono ben descritti dal modello del codice (Fodor, 2000).

Intimamente correlata a questa concezione è l’idea che gli scambi comunicativi siano incentrati in maniera esclusiva su ciò che gli interlocutori effettivamente dicono quando formulano un enunciato. In altre parole, una visione di questo tipo trova fondamento sulla nozione di significato letterale (Katz e Fodor, 1963), vale a dire sulla convinzione che a determinare il significato dell’enunciato siano solo il significato delle parole che lo compongono e l’insieme delle regole sintattiche rispetto alle quali sono combinati. Viene da sé che, al fine di realizzare l’interpretazione linguistica, ci si deve concentrare unicamente su ciò che il parlante ha detto, senza perdersi in inutili e dispendiose speculazioni su ciò che il parlante intendeva dire con il proferimento di quell’enunciato (Fodor, 1983). D’altra parte, considerando che – come ormai dovrebbe essere chiaro – i processi di produzione e comprensione linguistica si basano sull’informazione specificata nella forma logica degli enunciati, e che il contesto extra-linguistico non contribuisce in alcun modo alla determinazione di questa forma logica, un'esclusione dei fattori contestuali dai processi di elaborazione linguistica non appare solo possibile ma doverosa.

Una tale estromissione coatta degli elementi extra-linguistici dai processi di elaborazione del linguaggio porta con sé una serie di punti critici degni di essere discussi. Innanzitutto, la netta separazione tra il significato letterale dell’enunciato (ciò che viene detto) e le possibili intenzioni del parlante rispetto all’enunciato proferito (ciò che voleva dire) implicano una parallela rottura tra la dimensione sintattica e la pragmatica. Distinguendo in modo netto grammatica e pragmatica si arriva così a porre, come sottolinea Gibbs (1984: 279), una distinzione radicale tra competenza ed esecuzione «che purifica lo studio del linguaggio da tutti gli elementi di esecuzione» (approfondiremo questo punto in seguito). In secondo

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luogo, considerando che i processi di elaborazione linguistica sono fondati per intero sulle informazioni che vengono codificate nelle descrizioni proposizionali che, come abbiamo detto, si caratterizzano per essere amodali, astratte e arbitrarie, ne deriva che i simboli non presentano alcun tipo di relazione con gli aspetti della realtà che pur rappresentano. Come vedremo più avanti (Cap. 2), il problema del radicamento dei simboli diviene una questione di fondamentale rilevanza nell’analizzare i possibili scenari ancestrali di comunicazione protolinguistica (in effetti una critica che muoveremo al modello sintetico di protolinguaggio è proprio l’incapacità di dar conto di come sia possibile che mere manipolazioni astratte producano significato). In ultima analisi, una concezione che vede il linguaggio come del tutto svincolato da riferimenti contestuali e, perciò, di fatto disancorato dalla realtà esterna è strettamente dipendente dalla tendenza classica a identificare l’analisi della frase con il modello capace di dar conto dell’intera elaborazione linguistica nella sua totalità.

1.4. Il cuore sintattico del linguaggio

L’idea che la sintassi degli enunciati debba essere considerata l’essenza del linguaggio rappresenta il cuore pulsante della linguistica generativa chomskyana, strettamente connessa agli assunti base del modello del codice (oggetto del paragrafo precedente). La forza teorica di tale modello, come abbiamo visto, risiede nella sua relazione con la teoria del significato letterale, a sua volta strettamente consolidata sul principio di composizionalità di Frege (1892), vale a dire sull’idea secondo cui il significato degli enunciati dipende esclusivamente dal significato degli elementi che lo compongono e dalle regole sintattiche in

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accordo a cui tali elementi sono combinati. In quest’ottica, l’analisi dell’enunciato e il dispositivo computazionale ad essa deputato rappresentano gli elementi costitutivi del processo di elaborazione linguistica. Questa idea, in effetti, permea per intero l’impianto teorico della grammatica generativa targata Chomsky. In accordo alla prospettiva chomskyana, in effetti, per poter dar conto della facoltà di linguaggio (vale a dire l’organo linguistico presente nella mente/cervello, quel dispositivo di elaborazione specifico per il linguaggio) (Chomsky, 1975, 1988, 2000) è necessario in prima analisi operare una separazione tra la competence e la performance (Chomsky, 1965). Nello specifico, la competenza rappresenterebbe il bagaglio congenito di conoscenza implicita che si ha del linguaggio, laddove l’esecuzione coincide con l’uso effettivo del linguaggio in situazioni comunicative concrete. Tale distinzione rispecchia la più recente distinzione tra un linguaggio interno (I-language) e il linguaggio esterno (E-language) (Chomsky, 2010). Il linguaggio interno si sostanzia in un dispositivo computazionale atto alla generazione di un numero potenzialmente infinito di espressioni strutturate gerarchicamente in risposta ai dettami delle regole sintattiche. Si tratta, nello specifico, di un dispositivo «destinato all’elaborazione computazionale della forma logica di pensieri e proposizioni espressa nella forma di enunciati strutturati del Linguaggio del pensiero» (Bouchard, 2013 :217). Il linguaggio esterno, una sorta di riflesso della performance, verrebbe a coincidere con quello effettivamente parlato, costituito in risposta alle istruzioni trasmesse dal dispositivo computazionale che muove il linguaggio interno. Considerando quindi che il linguaggio esterno rispecchia i dettami di quello interno, il processo di elaborazione linguistica si sostanzia nel lavoro compiuto dal dispositivo computazionale deputato all’analisi delle forme sintattiche. Per portare avanti uno studio del linguaggio, quindi, tutto ciò che bisogna fare è interrogarsi esclusivamente sulla competenza, vale a dire sulla rappresentazione della

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conoscenza connaturata del parlante-ascoltatore. In altre parole, in risposta alla domanda su come sia possibile produrre e comprendere un numero potenzialmente infinito di frasi mai udite prima, avendo a disposizione un numero finito di elementi atomici di partenza, Chomsky sostiene la necessità di spiegare la competenza linguistica chiamando in causa un sistema astratto di regole che specificano i vincoli sintattici cui rispondono le lingue umane: la Grammatica Universale. Essa coinciderebbe con un insieme di principi innati paragonabili a un organo mentale, strutturalmente programmati e inscritti nel patrimonio genetico. Questo corredo genetico racchiuderebbe in sé l’essenza linguistica facendo sì che tutto ciò che occorre per poter procedere al processo di decodifica linguistica sia esclusivamente il lavoro di un parser sintattico. Così, se l’interpretazione di un enunciato è interamente racchiusa all’interno dell’enunciato stesso, gli elementi contestuali non giocano alcun ruolo costitutivo (§ 1.3.). Di fatto, in perfetta armonia con i dettami delle teorie computazionali classiche, i modelli generativisti indagano le proprietà del linguaggio in maniera indipendente, epurandole da ogni riferimento agli individui, all’ambiente e alle circostanze esterne (Cowley 1997). Il risultato più importante ottenuto dalla linguistica formale consiste proprio nell’aver dimostrato come le proprietà essenziali del linguaggio possano essere modellate in modo astratto e parallelamente come, in una prospettiva incentrata sulla spiegazione del funzionamento dei meccanismi di elaborazione linguistica, la dimensione pragmatica (in quanto relativa allo stato di cose nel mondo) sia da considerarsi completamente ininfluente all’interno di una concezione formale del linguaggio. In effetti, in un framework concettuale che richiede l’isolamento degli elementi connessi alla struttura degli enunciati (ad esempio dagli elementi contestuali), il linguaggio è effettivamente descrivibile come un sistema guidato da fattori di tipo sintattico e indipendente dalla dimensione pragmatica. Per dirla con Sperber e Wilson (1986/1995 :85), «una

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grammatica generativa fa astrazione da tutte le proprietà di un enunciato che non siano puramente linguistiche e descrive una struttura linguistica astratta, la frase».

1.5. Perché cambiare modello

All’interno della prospettiva cognitiva classica, come abbiamo visto nel corso del capitolo, sarebbe individuabile un fil rouge concettuale che lega indissolubilmente l’idea della centralità della proposizione, di fatto coincidente con la forma generale della rappresentazione mentale, e la teoria computazionale della mente. In questo quadro teorico, descrivendo la mente nei termini di una macchina sintattica (§ 1.2. e 1.3) si impone al contenuto mentale il vincolo del formato proposizionale delle rappresentazioni. Questa idea della mente come elaboratore di simboli astratti e la conseguente linguisticizzazione del pensiero hanno dato vita a un preciso modello del funzionamento del linguaggio, ampiamente abbracciato dagli studiosi. Nello specifico, come abbiamo visto, l’elaborazione linguistica viene a coincidere con l’elaborazione proposizionale, in risposta a un processo completamente automatico di associazione tra significati forniti dal codice e rappresentazioni simboliche astratte e la funzione del linguaggio è semplicemente quella di trasmettere i pensieri da una mente all’altra. Il modello del codice (§ 1.3.) sembra così essere il modello che descrive in maniera ottimale l’elaborazione linguistica basata esclusivamente sull’analisi dell’enunciato. Da qui deriva l’idea che l’essenza del linguaggio sia da rintracciare nel significato letterale (§ 1.2. e1.3.) che si costruisce, attraverso l’elaborazione dei costituenti interni alla frase, a partire da processi bottom-up di tipo modulare, specifici per l’elaborazione linguistica in senso stretto. Il linguaggio così inteso

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rivendicando il suo carattere di autonomia rispetto al contesto extra-linguistico, è stato considerato come il prodotto di una mente individuale, decontestualizzato dalle effettive situazioni d’uso. Una simile concezione, come abbiamo visto (§ 1.5.) trova completa realizzazione della linguistica generativa di Chomsky (1975, 200, 2010).

Il preciso modello di elaborazione linguistica associato ai dettami del cognitivismo classico, da un punto di vista meramente teorico, sembra riuscire a dar formalmente conto del linguaggio. Cosa accade quando, lasciati gli esempi stampati tra le pagine di un manuale, lo mettiamo alla prova dei fatti nei reali scambi linguistici? Per prima cosa accade che l’elaborazione linguistica fondata sull’attribuzione di significato letterale sembra nella gran parte dei casi inadatta a dar conto della comprensione effettiva. Un caso esemplare è rappresentato dalle espressioni ironiche. Si prenda ad esempio la frase «si gela!». Se pronunciata in una calda giornata di agosto richiede l’intervento di processi cognitivi che consentano di ricostruire, con sforzo, l’intenzione comunicativa, considerando delle ipotesi utili al fine di cogliere il gap tra la rappresentazione semantica dell’enunciato e la sua interpretazione. Passare dal significato letterale al significato che il parlante aveva effettivamente intenzione di veicolare diviene possibile attraverso, ad esempio, la continua valutazione di contextual cues (Simons et al., 2005) e del common ground (Clark, 1996): un’operazione che, in netta opposizione all’idea dell’elaborazione linguistica automatica e obbligata, richiede – tanto in produzione quanto in comprensione – un ingente sforzo cognitivo.

Si consideri, ancora, lo scambio:

Serena: «Ciao! Da dove stai venendo?» Alessandra: «Dal parrucchiere»

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Serena: «Hai trovato chiuso?»

Anche in questo caso, lo scarto concettuale tra gli scambi all’interno della breve conversazione richiede uno sforzo interpretativo (cfr. modello inferenziale della comunicazione; per una trattazione Bianchi, 2003).

Nel tentativo di mettere alla prova dei fatti nello specifico il principio di composizionalità che, associato alla teoria del significato letterale (§ 1.2 e 1.3.), assume come il significato di una frase dipenda esclusivamente dal significato dei singoli elementi costituenti e dall’insieme delle regole sintattiche rispetto alle quali sono combinati, consideriamo questo scambio:

Serena: «Sono al verde e non sbarco il lunario. Taglio la corda… prima di tirare le cuoia!»

Alessandra: «Ingoia il rospo e non gettare tutto alle ortiche: se son rose, fioriranno»

O siamo disposti ad negare che gli enunciati di una conversazione di questo tipo possano essere elaborati con successo in risposta ai dettami del principio di composizionalità, o dovremmo di certo consigliare uno specialista a Serena e Alessandra!

Ciò che ne deriva è che, dal momento che i modelli in cui il linguaggio coincide con la grammatica e l’elaborazione linguistica con l’elaborazione dei costituenti interni delle singole frasi non sono in grado di dar conto del funzionamento del linguaggio, bisogna abbracciare un modello diverso di linguaggio. Nella nostra proposta, come vedremo, si tratta di un modello di linguaggio pragmaticamente fondato, proprio della tradizione langauge-as-action (Clark, 1996).

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interni alla frase, non solo non appare un buon modello non solo perché non riesce a dar conto del funzionamento effettivo del linguaggio nei reali scambi comunicativi, ma anche perché lascia irrisolto il problema dell’aggancio dei simboli - amodali e astratti - al contesto. Come se non bastasse, le difficoltà esplicative incontrate dal modello di linguaggio conforme al cognitivismo classico e alla biolinguistica chomskyana, si estendono anche rispetto al vincolo di plausibilità evolutiva che, insieme al vincolo di plausibilità cognitiva, è imprescindibile per chi abbia a cuore una naturalizzazione del linguaggio.

In effetti, come ben evidenziato da Lieberman (1984 :22), «the Chomskyan idea of an ideal speaker and hearer confused the origins of language rather than illuminated them» (corsivo nostro). Pur proponendo (come abbiamo visto § 1.4.) una teoria naturalistica del linguaggio, Chomsky non sembra disposto ad ammettere in alcun modo che il gradualismo richiesto dalla selezione naturale sia applicabile al linguaggio. Il dispositivo computazionale di elaborazione sintattica (condizione di realizzabilità di Merge, l’operazione alla base della combinabilità) sarebbe una peculiarità di Homo sapiens, comparso in una sola volta. «La facoltà del linguaggio umano è emersa in modo improvviso e inaspettato nel tempo evolutivo e non si è ulteriormente evoluta» (Berwick et al., 2013 :89).

Il programma biolinguistico chomskyano appare fortemente radicato su una strenua polemica nei confronti della teoria dell’evoluzione. La Grammatica Universale, “il sacro graal linguistico” (Kenneally, 2007), sarebbe un proprietà magicamente comparsa nel corredo umano. Il linguaggio, infatti, sarebbe un fenomeno radicalmente nuovo rispetto ad ogni altra forma di comunicazione e, per questa ragione, tentare di studiarne il percorso di sviluppo evolutivo rappresenterebbe solo un inutile dispendio di energie e di tempo (Chomsky, 2010). L’unico modo per dar conto della sua origine, quindi, è far riferimento a un evento esplosivo, improvviso e inaspettato.

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Chomsky defined language as an idealized, perfect, and elegant system […] If it was true that language was perfect and that it simply emerged from our complex mental organization, Chomsky has also said, such a development does not make much sense with what we know about physical systems. Biology just does not work like that. Indeed, biological evolution is an haphazard, junkyard kind of process where traits are not intelligently designed from scratch, but rather, new tools are built over old ones (Kenneally, 2007 :38).

Il modello saltazionista chomskyano si fonda sull’idea che il linguaggio sia un dispositivo altamente specializzato. Il fatto che esso coincida con un singolo organo biologico destinato selettivamente all’elaborazione linguistica, contribuisce a creare un’aura di inevitabilità attorno alla facoltà di linguaggio. Tuttavia, come sottolineato da Kenneally (2007, :246)

Language is not inevitable. It is necessary to think about possible stages by stepping away for a while from the end state – the current form of language. We have it today not because we took one crucial turn at some point in the past but because we took hundreds of crucial turns. And for each of these turns, you cannot know that you are going to get language at the end of it. Each step is critical for the value it adds at that point in time. Linguistic evolution was a tumultuous natural experiment that started with a particular brain structure and hundred of variables […]. The process lasted many millennia, there was no control group, there may have been false starts along the way, and the completely unpredictable result of this random experiment was modern language.

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Più che definirlo come una singola entità, comparsa improvvisamente in maniera catastrofica, la nostra idea è che il linguaggio debba essere considerato come un’abilita resa possibile da un insieme di componenti diverse che hanno seguito processi evolutivi diversi in diversi stadi della storia. Con Arbib, esso si sarebbe sviluppato a partire dalle abilità che sottendono le forme comunicative protolinguistiche, attraverso un complesso processo di bricolage (Arbib, 2012). Restituire alla dimensione linguistica una complessità non riducibile all’elaborazione di un singolo parser sintattico porta con sé la necessità di

investigate where the systems we call language have come from: as Shakespeare puts it, ‘Nothing will come of nothing’ (King Lear, I,i), so it would be scientifically improper as well as completely unenlightening to invoke a mysterious blinding flash somewhere in the history of our species before which we were silent and agrammatical beings, and after which we have fricative, diphtongs and subordinate clauses (McMahon & McMahon, 2013 :65).

Contro le tesi saltazioniste, con l’obiettivo specifico di sostenere la possibilità di uno sviluppo graduale del linguaggio, a partire da pre-condizioni basilari condivise con altre specie animali, nei prossimi capitoli analizzeremo i principali modelli di protolinguaggio che danno conto del percorso evolutivo del linguaggio a partire da forme comunicative ancestrali.

the position of writers [..] who take the anti-adaptive catastrophist view of the emergence of language leads ultimately to absurd

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consequences. It has even been suggested that language, with its double combinatorial open system, its strict and universal constraints governing syntax arrangements, its open system of meanings, its narrative and argumentative mechanisms, just appeared accidentally out of a single mutation and that it had little or no purpose. Such a conjectural mutation would be tantamount to letting an ape type at random on a keyboard in the expectation that it would write the Universal Declaration of Human Rights. There would be something risible in such a conjecture, were it not for the fact it comes supported by such authorities» (Dessalles, 2007 :104)

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Capitolo 2

L’inappropriatezza della collana di perle

Il primo posto dove cercare una qualsiasi cosa è l’ultimo in cui ci si aspetta di trovarla (Arthur Bloch, 1977)

Per lungo tempo gli Egiziani hanno ritenuto di essere stati i primi uomini ad avere inaugurato la fidelizzata villeggiatura nel mondo. E restarono beatamente gongolanti a tal pensiero fin quando, salito al trono, il faraone Psammetico decise di voler sapere con certezza quale popolo avesse per primo dato effettivo avvio alla presenza umana sulla terra. Come spesso accade, porsi delle domande e cercare delle risposte provate non sempre conduce alla verità sperata. Sulla base di quanto scrupolosamente ricostruito da Erodoto nelle Storie (circa 430 a.C.), al fine di giungere ad una soluzione verificata dell’enigma, il faraone ricorse ad un sagace espediente: presi due neonati, figli di persone comuni, li affidò a un pastore perché li allevasse presso le sue greggi con l’assoluto divieto di pronunciare alcuna parola in loro presenza. Al fine di preservare la bontà dell’esperimento, i malcapitati infanti dovevano starsene da soli in una capanna abbandonata; a ore stabilite il pastore doveva condurre da loro delle capre e sfamarli esclusivamente con del latte. Fine ultimo della ricerca: ascoltare quale parola i bambini avrebbero pronunciata per prima, non appena avessero smesso di emettere vagiti spontanei e insensati. «Bekos!» fu ciò che udì il pastore, una felice mattina di due anni dopo, dalla bocca affamata delle creature, inconsapevoli cavie della scienza. Prontamente informato dell’epifania della

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primogenita parola, Psammetico – in cuor suo deluso dall’estraneità di quel suono - cercò quindi di scoprire alla lingua di quale popolazione fosse riconducibile. Ciò che ne emerse fu che l’espressione “bekos” significava “pane” presso i Frigi (e che, evidentemente, i bambini erano stanchi della dieta a base di latte…), i quali avevano così sottratto agli Egiziani, pur senza volerlo, il prestigio dell’antichità.

A prescindere dalle rivalse di anzianità e dai diritti di prelazione, lo studio del linguaggio rappresenta indubbiamente una delle tematiche maggiormente problematiche e roventi all’interno del dibattito contemporaneo, in quanto intimamente correlato all’assai più delicata questione della natura umana. Il nostro lavoro intende trovare collocazione sullo sfondo di quelle prospettive teoriche che, finalizzate ad un’operazione di naturalizzazione del linguaggio, rintracciano il loro fondamento in un costante riferimento ai principi cardine del paradigma darwiniano. Ciò che guida il nostro lavoro, più semplicemente, è l’idea che l’abilità linguistica umana debba essere indagata e spiegata in relazione all’evoluzione filogenetica della specie, in relazione quindi all’attività della selezione naturale.

Ciò che ci si propone di indagare, più nel dettaglio, è il “punto di transizione” in cui la comunicazione animale lascia il testimone al linguaggio umano. Prendendo le distanze da chi ritiene che l’abilità linguistica sia un corredo distintivo di Homo e che, pertanto, lo studio dei suoi albori debba essere condotto “in pieno linguaggio”, dal nostro punto di vista condurre un’indagine imperniata sul tema dell’origine del linguaggio implica la necessità di assumere una prospettiva distaccata, utile a focalizzarsi sul momento di passaggio, un momento in cui ancora di fatto non c’è linguaggio.

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In un’ottica governata dai principi darwiniani del continuismo e del gradualismo, per noi, un buon modo per affrontare la questione dell’avvento della capacità linguistica è costituito dalla scelta di concentrarsi sul tema del protolinguaggio. Essendo una fase evolutiva ibrida di fatto ancora alinguistica (Smith, 2010) e rappresentando una possibile interfaccia tra i sistemi di comunicazione animale e il linguaggio umano, nella nostra ipotesi ben si presta a essere considerato terreno fertile entro cui rintracciare le condizioni di possibilità per l’avvento del linguaggio stesso. Ciò che ci apprestiamo a fare, quindi, è calarci appieno nella dimensione protolinguistica, soffermandoci ad analizzare come, secondo i vari modelli che costellano il fervido dibattito contemporaneo, i nostri parenti ancestrali siano stati in grado di iniziare a comunicare, non potendo basare i loro scambi su un codice linguistico condiviso. Lo studio relativo allo sviluppo del linguaggio umano è abbondantemente permeato dall’idea che esso sia un sistema di comunicazione particolarmente complesso e che, per tale ragione, debba essersi evoluto in modo graduale in una successione di sistemi di comunicazione sempre più articolati di cui si sono serviti, nel corso del tempo, i parenti ancestrali degli esseri umani moderni (Mithen, 2005). Sebbene, come abbiamo visto nel capitolo precedente, non manchino concezioni miracolistiche che affidano a una singola mutazione il potere magico di catapultare improvvisamente il nostro fortunato antenato in un tripudio linguistico pienamente sviluppato, molti studiosi fanno riferimento a questi sistemi di comunicazione ancestrali con il termine omnicomprensivo di protolinguaggio. In maniera analoga, nonostante non sia unanimemente riconosciuta la necessità di postularlo per dar conto dell’evoluzione linguistica, esso indica genericamente uno stabile stadio intermedio nell’evoluzione del linguaggio, chiamato in causa principalmente nel tentativo di spiegare la transizione dalla dimensione alinguistica a quella caratterizzata dalla completa formazione del linguaggio.

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(Arbib, 2005, 2010, 2012; Bickerton 1990, 1995, 2014; Corballis, 2011b; Dessalles, 2007, 2010; Jakendoff, 2010; Smith, 2010; Tallerman, 2007, 2010; Wray, 1998, 2000).

Humans have language. It is hypothesised that the common ancestor of chimpanzees and humans did not. Evolutionary linguists therefore have to explain how the gap between a non-linguistc ancestor and our linguistic species was bridged. It has become common to invoke the concept of protolanguage as a stable intermediary stage in the evolution of language (Smith, 2010 :1).

Ma le ragioni di accordo, sostanzialmente, si esauriscono qui. Identificare l’esatta natura del protolinguaggio è un compito fortemente delicato che si pone dinanzi a chiunque tenti di comprendere come si sia evoluto il linguaggio. Se si considera quanto sia problematico definire la natura del linguaggio (e parallelamente la natura umana, ad esso indissolubilmente intrecciata), non sorprende affatto constatare il fervore che anima la discussione volta a indagare quella propria del protolinguaggio. Una prima controversia incardinata all’interno di tale dibattito si sostanzia nella discordanza relativa alla complessità semantica ascrivibile alle unità protolinguistiche. A tal proposito, la prima mossa che faremo sarà quella di calarci esattamente nel vivo della questione, analizzando i due principali schieramenti teorici in campo e, in parallelo, i modelli di linguaggio ad essi associati: l’approccio composizionale, che ha nel linguista Derek Bickerton il suo ideatore e sostenitore più fervido, e la prospettiva olofrastica, riconducibile da principio al lavoro della linguista Alison Wray (Cap. 3).

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2.1. Il linguaggio come rappresentante degli umani

Il primo ad aver formalizzato una proposta teorica incentrata sulla nozione di protolinguaggio è stato il linguista Derek Bickerton che, a partire dal suo lavoro Language and species (1990), lo ha definito nei termini di un ponte necessario per poter dar conto del gap evolutivo esistente tra la situazione di vita completamente alinguisticizzata, propria dei nostri parenti ancestrali, e la piena padronanza del linguaggio complesso e articolato, così per come lo conosciamo attualmente:

[t]he hypothesis of a protolanguage helps to bridge the otherwise threatening evolutionary gap between a wholly alingual state and the fully possession of language as we know it (Bickerton, 1995 :51).

Poiché in gioco vi è la trattazione del percorso di transizione che ha condotto al linguaggio, prima di poter addentrarci nei meandri del preciso modello di protolinguaggio proposto dal linguista, ci apprestiamo a presentare le principali tappe concettuali che fanno da cornice alla sua ipotesi circa la natura del linguaggio umano.

Il muro portante che sorregge tutto l’impianto teorico di Bickerton è l’idea per cui il linguaggio sia da considerarsi come la chiave di volta per il successo degli umani, quella caratteristica che, distinguendoci inequivocabilmente dagli altri inquilini del pianeta, ci ha reso incommensurabilmente più potenti di ogni altra specie. Tutto il resto, dalla memoria alla coscienza, sembra essere - in maniera insovvertibile - secondario ad esso: non a caso, non possiamo ricordare alcun evento o formulare alcun pensiero prima di aver acquisito il linguaggio. Questo

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sostanzialmente perché, sebbene appaia principalmente – se non esclusivamente – un mezzo di comunicazione, esso è piuttosto da intendersi come un sistema di rappresentazione, un modo per ordinare e gestire l’ampio insieme di informazioni che ci piove addosso quotidianamente. Tali considerazioni fanno da sfondo alla precisa idea circa la natura del linguaggio umano abbracciata dal linguista:

Il linguaggio è, di tutte le nostre capacità mentali, la più profonda al di sotto della soglia della nostra consapevolezza, il meno accessibile alla mente razionalizzante. Difficilmente possiamo richiamare alla mente un periodo in cui ne eravamo sprovvisti e ancora più difficilmente il momento in cui l’abbiamo acquisita (Bickerton, 1995: 98 – trad. it nostra).

A sostegno della propria tesi, Bickerton (1990, 1995, 2010, 2014) sottolinea come, per chi si accinga a voler descrivere il ruolo giocato dal linguaggio nello sviluppo della specie umana, un muro di gomma contro cui scontrarsi inevitabilmente è rappresentato da una situazione apparentemente assurda, il cosiddetto ‘Paradosso di Continuità’: prendendo per buona la teoria dell’evoluzione, si accetta al contempo l’idea che il linguaggio sia non più di un adattamento evolutivo, anche se di un tipo non proprio usuale. Poiché i due modi attraverso cui l’evoluzione può produrre novità sono rappresentati dalla ricombinazione di geni esistenti tramite i normali processi di riproduzione e dalla mutazione diretta dei geni – che, di fatto, non è altro che un’alterazione nelle istruzioni di riproduzione di un materiale già esistente - il linguaggio non può ragionevolmente essere considerato completamente privo di precursori, una novità assoluta comparsa miracolosamente nel bagaglio naturale della specie

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umana. Ma di quali precursori si può parlare? La risposta più intuitiva, a partire dal fatto che il linguaggio è stato diffusamente considerato come una forma di comportamento comunicativo, è che esso si sia evoluto a partire dalla comunicazione animale. In altre parole, guardando ai sistemi di comunicazione regnanti tra le altre specie, dovremmo essere in grado di rintracciare i precursori che l’evoluzione potrebbe avere modificato e modellato nelle versioni più semplici di linguaggio umano. Considerando che è ampiamente riconosciuto come molte specie si avvalgano di sistemi di comunicazione, il cui grado di sofisticatezza e la complessità di informazione trasmessa sono direttamente proporzionali al grado di sofisticatezza delle specie stesse, il linguaggio non potrebbe dunque essere considerato una variante supersofisticata di tali sistemi? A detta di Bickerton (1990, 1995, 2005, 2014) il problema per una tesi di questo tipo è che le differenze che intercorrono tra il linguaggio e i più sofisticati sistemi di comunicazione animale di cui siamo a conoscenza sono di tipo qualitativo più che di grado. È in questa forma di cartesianesimo malcelato che si annidano i presupposti per la presunta situazione paradossale: il linguaggio, vista la complessità che lo caratterizza, deve essersi evoluto a partire da qualche sistema antecedente più semplice ma non sembra esserci alcun candidato all’altezza. Il modo rintracciato dal linguista per uscire da questo incaglio paradossale, è accettare che il linguaggio sia da intendersi innanzi tutto nei termini di un sistema formale per la strutturazione della realtà, vale a dire come un sistema rappresentazionale:

Language, at least as far as its component words are concerned, is indeed a system of representation in the true sense of that term. It is not a system that passively mirrors what it represents, but rather one that creates a new and parallel world constrained by the laws of its

Figura

Figura  2.1  Schema  della  struttura  “collana-di-perle”  nel  protolinguaggio  e  della  struttura  sintattica  nel  linguaggio moderno
Fig. 3.1. Lesioni all’emisfero sinistro del cervello                            Fig. 3.2 Correlazione tra la produzione di formule e la  (qui evidenziato nella parte destra di ogni immagine)                    preservazione dell’emisfero destro (da Sidtis
Fig, 3.3. Percentuale delle occorrenze formulaiche in soggetti affetti da Alzheimer (AD) (33%), soggetti di controllo (HC)  (25%) e in pazienti affetti dal Parkinson (PD) (15%)
Fig. 3.1. La catena di partecipanti e il mini-linguaggio artificiale (Kirby, et al.,2008)
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