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La clausola di buona fede come strumento per reprimere l’abuso di

3 CONTRATTI DI IMPRESA E CLAUSOLE GENERALI

3.2 La buona fede nella contrattazione di impresa

3.2.3 La clausola di buona fede come strumento per reprimere l’abuso di

La clausola di buona fede viene altresì ricondotta al tema dell’abuso di diritto, costituendo quest’ultimo, soprattutto nella giurisprudenza334, la più acuta espressione della violazione della clausola generale rappresentata dal binomio correttezza-buona fede.

L’abuso del diritto presuppone un esercizio, volontario e consapevole, del diritto (sia esso un diritto soggettivo, una mera facoltà o finanche un diritto potestativo) sproporzionato,

eccessivo ed irragionevole se parametrato allo specifico interesse in ragione del quale la norma attributiva di quel diritto è posta, determinando un correlativo sacrifico di colui il quale rispetto a quel diritto si trovi in posizione di soggezione335, non richiedendosi però uno specifica intenzionalità di arrecare tale nocumento336.

La buona fede invece, come già evidenziato, può essere intesa vuoi come un generico obbligo comportamentale imposto indistintamente alle parti di un contratto (ex art. 1375 c.c.) o a coloro i quali stiano trattando per concluderlo (ex art. 1337 c.c.) od ancora con riferimento alle modalità esecutive di adempimento delle rispettive obbligazioni (ex art. 1175 c.c.), vuoi come parametro di valutazione del regolamento contrattuale (ex art. 1366 c.c.).

Sebbene parte della dottrina337 ritenga opportuno separare, almeno da un punto di vista logico, i due concetti, non si può non riconoscerne gli stretti punti di contatto.

Tale collegamento fu inizialmente suggerito da Rescigno nel 1965338.

Il ragionamento muoveva da talune considerazioni preliminari. Si osservava, innanzitutto, l’attitudine della fattispecie dell’abuso di diritto a fuoriuscire dal ristretto ambito applicativo, (quello degli atti emulativi ex art. 833 c.c.) a cui era stata rilegata in considerazione delle preoccupazioni espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza del tempo verso l’utilizzazione delle clausole generali. L’intensificarsi dei rapporti di massa,

335 Così la fattispecie dell’abuso di diritto è definita da M. BIANCHINI, La contrattazione

d’impresa, cit., p. 332.

336 Afferma la Suprema Corte: “la consapevolezza dell’approfittamento in capo a chi abusa

avvantaggiandosi della situazione data (o venutasi a creare nel corso del rapporto) non ammonta necessariamente ad un animus nocendi cioè al dolo specifico, all’uopo bastando la mera consapevolezza di ledere, con la propria condotta (esercizio di un diritto soggettivo, diritto potestativo o facoltà) l’interesse della controparte. (Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 231 ss.).

337 in questo senso G. D’AMICO, L’abuso della libertà contrattuale: nozione e rimedi, in Abuso

del diritto e buona fede nei contratti, (a cura di) S. Pagliantini, Torino, 2010, p. 6 (testo e nota 8)

e p. 9 ss., il quale distingue due questioni preliminari: da un lato, quella del rapporto tra la figura generale dell’abuso del diritto rispetto a quella, innovativa e più specifica, dell’abuso della libertà contrattuale; dall’altro lato, quella della distinzione tra abuso del diritto e la clausola generale di correttezza e buona fede. L’Autore ritiene che si possa distinguere la buona fede dall’abuso poiché i due criteri operano su piani diversi, richiamando “quale punto di emersione del divieto di abuso

del diritto”, oltre al tradizionale richiamo all’art. 833 c.c., anche l’art. 1175 c.c. “laddove assoggetta al principio di <<correttezza>>, l’agire del creditore (oltre che del debitore).

L’Autore ritiene invece la figura dell’abuso della libertà contrattuale un “inutile doppione” dell’abuso del diritto.

poi, mostrava tutta la debolezza della tutela offerta dalle norme codicistiche, facendo emerge l’esigenza per il diritto di apprestare strumenti di reazione efficaci e affidabili per coloro i quali agivano sul mercato, primo fra tutti, l’allora cliente finale, oggi noto come consumatore.

Ebbene, l’Autore, sottolineando la potenzialità delle clausole generali, in specie quella di correttezza e buona fede, giunge ad individuare proprio nella loro utilizzazione lo strumento più idoneo a rispondere alle nuove esigenze di tutela che l’apertura dei mercati avevano portato.

Egli, per l’appunto, suggeriva di muovere dalle norme dettate nel codice per la correttezza e la buona fede, ossia di risolvere il problema dell’abuso dell’autonomia contrattuale da parte del contraente forte a partire da quei “parametri della condotta che nel rapporto obbligatorio viene imposta al creditore come al debitore, nel segno del rispetto della sfera giuridica di ciascuno dei soggetti”339.

Così aperta la strada, il ragionamento dottrinale è lungo questo sentiero continuato, gradualmente connotando la clausola di buona fede quale parametro di valutazione della libertà riconosciuta dall’ordinamento a ciascuna parte contraente.

Ecco, quindi, il punto di contatto a cui poc’anzi si accennava tra la clausola generale di buona fede, come obbligo comportamentale, e il divieto di abusare della propria libertà contrattuale a danno di quella altrui: la regola di comportamento si trasforma in regola di validità, sul presupposto che l’abuso della libertà contrattuale altro non sia se non il comportamento scorretto di una parte la quale comprime ingiustamente la libertà dell’altra, mediante un utilizzo sproporzionato della propria.

Qui ora il passaggio più delicato. Ebbene, definendo la correttezza quale parametro di valutazione della libertà contrattuale, il baricentro del vaglio circa il corretto esercizio di tale libertà si sposta dall’atto in sé considerato (meritevole e/o illecito) al comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto, dovendo quindi essere parametrato sull’insieme di atti volti all’adempimento delle obbligazioni dedotte nel rapporto, ossia atti che, una volta uniti da uno scopo comune, l’adempimento, diventano perciò stesso attività. Allora, lo stesso canone valutativo del comportamento deve essere commisurato all’attività di

339 Così, P. RESCIGNO, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni unite),

impresa, così come giuridicamente qualificata dagli elementi costitutivi indicati dall’art. 2082 c.c.340.

L’attività di impresa e l’atto, il contratto di impresa, che è di questa espressione, si influenzano vicendevolmente. Il contratto, afferma autorevole dottrina, è sia “strumento creativo di un rapporto tra le parti”, sia “momento dell’attività di mercato dell’impresa”341. Sicché riconoscere l’apertura dell’analisi alla dimensione dell’attività, significa portare il contratto d’impresa nella stessa dimensione organizzata che di quella è propria: il profilo organizzativo e quello economico convivono nella predisposizione del regolamento contrattuale, sino a diventare un contesto inscindibile, poliedrico e globale342, qual è per l’appunto, quello proprio dell’impresa ai sensi dell’art. 2082 c.c.343. Tale “contesto reagisce sul contenuto” del contratto di impresa, fin tanto da inciderlo “anche nel suo aspetto più tipico, relativo alla determinazione dei termini, e perciò della misura, dello scambio affidata non alla volontà delle parti ma al funzionamento del meccanismo del mercato”344.

La contrattazione di impresa, allora, non è altro se non il frutto dell’autonomia contrattuale che proviene dall’esercizio dell’attività organizzata di impresa, derivandone così il suo esser incisa dalle regole di mercato.

Ed allora, quale criterio migliore, se non quella della “logica del mercato”, è capace di individuare “l’essenza della buona fede quale limite specifico dell’autonomia contrattuale dell’imprenditore”345.

340 Sul punto, M. BIANCHINI, op. cit., p. 344, il quale afferma: “gli strumenti normativi costituiti

dalle clausole generali assomigliano a <<giunti flessibili>> tra norma e prassi, tra diritto e realtà socio-economica, le quali, nel caso specifico della contrattazione d’impresa, rendono tra l’altro possibile un comune approccio assiologico tra atto e attività: esse permettono cioè l’adozione di una prospettiva omogenea, traguardata sulla base del riconoscimento di una valenza metaindividuale degli interessi economico-patrimoniali che si confrontano sul mercato e che si incarnano poi nei singoli rapporti di mercato, i quali pertanto risultano sempre più spesso destinatari di varie misure (normative e regolamentari) di regolazione eteronoma”.

341 G. OPPO, Contratto e mercato, in Scritti giuridici, VII, Padova, 2005, p. 196.

342 L’impresa è definita quale figura poliedrica da A. ASQUINI, Profili dell’impresa, in Riv. dir.

comm., 1943, I, p. 7; è invece descritta in termini di “realtà globale” da G. OPPO, Realtà giuridica dell’impresa nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1976, I, 591 ss.

343 Cfr. M. BIANCHINI, La contrattazione di impresa, cit., p.343; C. ANGELICI, La

contrattazione di impresa, cit., p. 190 ss.; L. SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, cit., 29 e

264-265.

344 Così, L. SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, cit., p. 274.

345 P. SIRENA, La categoria dei contratti d’impresa e il principio della buona fede, in Global

law v. Local law – Problemi della globalizzazione giuridica, (a cura di) C. Amato, G. Ponzanelli,

I parametri di valutazione della condotta delle parti vanno quindi attinti direttamente dal mercato, o per meglio dire dai mercati di volta in volta rilevanti avuto riguardo al tipo di attività della parte coinvolta nell’operazione economica. Sicché, tali parametri non si esauriscono nella clausola generale di buona fede e correttezza, ricomprendendovi anche, ad esempio, quello della diligenza professionale, dell’adeguatezza, del conflitto di interessi e della trasparenza346.

Riprendendo così il pensiero svolto nel precedente paragrafo (3.2), in conclusione può affermarsi che, in un’ottica che inserisca l’atto, ossia il rapporto contrattuale, nel contesto dell’attività, giuridicamente qualificata ex art. 2082 c.c. come realtà economica, organizzata ed esercitata professionalmente nel mercato, la clausola di buona fede, nonché il connesso concetto di abuso del diritto, operano come limiti di utilità sociale alla libertà di iniziativa economica. Più precisamente, questi operano quali limiti esterni alla libertà di impresa, per ciò riferibili all’art. 41, Cost. e non già, ai principi solidaristici di cui all’art. 2 Cost., calibrandosi sulle caratteristiche stesse dell’impresa, sugli elementi oggettivi del mercato rilevante e sui ruoli socio-economici tipici ricoperti dalle parti347.

346 Cfr. M. BIANCHINI, La contrattazione d’ impresa, cit., p. 346; A. ZOPPINI, Il contratto

asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Riv. dir. civ., 2008, p. 535 e 537.

347 In questo senso, P. SIRENA, La categoria dei contratti d’impresa e il principio della buona

fede, in Global law v. Local law – Problemi della globalizzazione giuridica, (a cura di) C. Amato,

G. Ponzanelli, Torino, 2006, p. 71 ss., il quale afferma: “la connotazione solidaristica della buona

fede contrattuale, per quanto possa essere condivisibile in sé, rischia di essere fuorviante, in quanto si caratterizza per la (consapevole) implicazione di valori non patrimoniali, estranei o addirittura incompatibili con la logica del mercato: ed è quest’ultima, invece, che individua l’essenza della buona fede in quanto limite specifico dell’autonomia contrattuale dell’imprenditore”. Tale logica di mercato a cui l’autonomia contrattuale d’impresa deve

uniformarsi è poi dall’Autore indentificata non già “in un dato della realtà socio-economica,

bensì in un dato della realtà normativa. In altri termini, la buona fede non è costituita né dalla deontologia professionale, né dalla prassi sociale, né, ancora, dalla valutazione etica dei comportamenti imprenditoriali che si rinviene nella coscienza sociale: essa è costituita invece dai principi generali inderogabili dell’ordinamento giuridico in materia di attività economiche e di buon funzionamento del mercato”.