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La clausola generale di correttezza e buona fede

Nel documento Il licenziamento disciplinare illegittimo (pagine 100-104)

CAPITOLO 3 LE CONSEGUENZE DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE ILLEGITTIMO ALLA LUCE DEL D.LGS N 23/

III.6 La clausola generale di correttezza e buona fede

Giunti a questo punto si rende opportuno un breve “focus” sulla clausola in parola. Certo detta clausola meriterebbe una disamina molto più approfondita in ossequio all’importanza che assume nelle dinamiche relative al licenziamento disciplinare (specie dopo la recente pronuncia giurisprudenziale) pur tuttavia si ritiene conveniente non spostare troppo l’attenzione rispetto al tema principale del presente elaborato.

Com’è noto, il rapporto contrattuale, viene regolato sia in base alla volontà delle parti, così come cristallizzata nel contratto che, in via integrativa, dalla legge. In linea di massima, la legge riconosce alle parti la c.d. autonomia contrattuale, ovvero la capacità giuridica di auto-determinarsi nello svolgimento del rapporto contrattuale che li riguarda. Ciò ovviamente entro e con l’osservanza dei limiti imposti dalla legge. La legge interviene quindi solo in funzione integrativa o suppletiva rispetto alle regole che le parti hanno di comune accordo prestabilito. Questo significa che se sorgesse “un’incomprensione” riguardo all’oggetto, ai tempi o ai modi della prestazione dovuta oppure riguardo all’interesse che una delle parti intendeva perseguire, le stesse possono alternativamente tentare di puntualizzare meglio l’accordo, ovvero nel caso in cui ciò non fosse possibile, ricorrere alle norme integrative del codice civile.

Nella sfera lavorativa, posto il carattere fiduciario che lo connota, la situazione è alquanto più delicata. La distinzione tra l’inadempimento lieve (o di scarsa importanza) e quello grave238, è più sottile, ben potendo - come precedentemente esposto - anche un lieve inadempimento essere visto sotto una lente diversa, e

238 Per un approfondimento, Collura, Importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Milano, 1992; Turco, Imputabilità e importanza dell’inadempimento nella clausola risolutiva espressa, Catania, 1992, 137; Scalfi, Risoluzione del contratto, in Enc. Giur. Treccani, XXVII; Spallarossa, La risoluzione del contratto per inadempimento, in

rilevare come giusta causa di licenziamento239. Questo in virtù del fatto che non è

possibile trattare allo stesso modo qualunque rapporto di lavoro prescindendo dal contesto concreto dello specifico rapporto lavorativo. Detto questo, vediamo cosa prevedono in particolare gli artt. 1175 e 1375 c.c..Tali norme indicano il generico canone di comportamento dovuto dal debitore e dal creditore, rispettivamente, secondo “correttezza” e “buona fede240”. Si tratta di un canone di comportamento “…ampio e complesso…241” e pur tuttavia non esattamente definito, lo stesso è

presente in vari ambiti del diritto, ma nella dimensione lavorativa assume “le sembianze di un fenomeno carsico, dal flusso talvolta sotterraneo, talvolta più visibile e consistente242”.Il codice civile, ripete agli artt. 1337, 1366 e 1358 il canone de quo, a proposito delle trattative contrattuali, dell’interpretazione del contratto e del comportamento delle parti in pendenza della condizione. Autorevole dottrina243 afferma che il principio della correttezza “…è espressione di un generale criterio, ispiratore sostanzialmente di tutte le civiltà moderne, secondo il quale l’esercizio dei diritti e l’adempimento dei doveri non può contrastare o prescindere dall’osservanza delle regole della correttezza”. Costituisce dunque uno strumento attraverso il quale il comportamento dei contraenti viene pienamente convogliato alla realizzazione dell’interesse che intendevano perseguire244. Di conseguenza viene neutralizzato qualunque

comportamento, che avvantaggiando la singola parte, si ponga in contrasto con il predetto fine. Per poter giungere a questo risultato il giudice non applica una norma giuridica astratta riconducendola ai fatti del caso concreto, ma fa esattamente l’operazione inversa, ovverosia parte dal fatto concreto pervenendo alla concretizzazione della clausola generale. In definitiva, individua “…la norma

239 Al riguardo si richiamano i precedenti paragrafi dedicati alla specifica trattazione

dell’argomento della giusta causa di licenziamento

240 Mengoni L., Autonomia privata e Costituzione, in Banca Borsa, 1997, 9, afferma che “i

due termini essendo equivalenti, possono congiungersi in una endiadi”

241 Cfr. Campanella P., Clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro, in A.a.V.v., Clausole generali e diritto del lavoro. Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro ,

Aidlass, Roma 29-30 maggio 2014, Milano, 2015, p. 213 e ss.; Cfr. Montuschi, Ancora

sulla rilevanza della buona fede nel rapporto di lavoro, in Arg. Dir. Lav., 1999, 723; Cfr.

Saffioti M. T., Le clausole generali di buona fede e la posizione del lavoratore, Torino, 1999, 212; Cfr. Tullini P., Clausole generali e rapporto di lavoro, Rimini, 1990.

242 Perulli A., La buona fede nel diritto del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 2002, 3

243 Inzitari B., La regola della correttezza o della buona fede in senso oggettivo, in M.

Bessone (a cura di), Istituzioni di diritto privato, Torino, 2003, p. 495.

sociale di condotta, con una decisione corrispondente ad un giudizio di valore245”.

L’assenza di una fattispecie normativa astratta a cui riferirsi, lascia infatti al giudice una certa discrezionalità nell’individuazione dei parametri oggettivi più adeguati al caso concreto246. Alcuni giuristi osservano che il giudice assuma in questo modo quasi un ruolo creativo, mentre parte della dottrina, ritiene che sia proprio la giurisprudenza a svalutare detto canone, reputandola di fatto ininfluente “clausola di stile priva di contenuti precettivi247”. Com’è stato di recente

affermato248 le clausole generali sono costituite da termini o sintagmi aventi natura valutativa “caratterizzati da indeterminatezza semantica diversa dalla vaghezza di grado, dalla vaghezza combinatoria, dall’ambiguità: il significato non è determinabile, se non facendo ricorso a criteri, parametri di giudizio, interni e/o esterni al diritto tra loro potenzialmente concorrenti”. La voluta elasticità di siffatte clausole costituisce oggi come allora, un’apertura alle nuove esigenze di una società in trasformazione economica e sociale, consentendo all’uopo che il diritto vi si adegui costantemente.

Una volta delineato il perimetro d’indagine, tornando alla pronuncia della Cassazione a SS. UU., ci si chiede se la volontà effettiva di entrambe le parti sia stata correttamente compresa, rispettata ed integrata. Come sopra accennato, infatti, il canone della buona fede ha lo scopo di permettere la realizzazione dell’interesse che le stesse intendevano perseguire. Per cui il giudice ha il compito di individuare se il comportamento tenuto da una delle parti sia compatibile con l’intento che le stesse intendevano perseguire. Si tratta dunque (come pacificamente ritenuto dalla dottrina) di una questione legata al caso concreto della vicenda, e per tale ragione sembrerebbe rimessa, in via esclusiva, al prudente apprezzamento del giudice di merito. Dunque quella dell’individuazione della buona fede, rispetto al caso concreto, non pare essere questione che competa al giudice delle leggi (neanche in via incidentale e indiretta). Solo il giudice del

245 Campanella P., Clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro, in A.a.V.v., Clausole generali e diritto del lavoro. Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro ,

Aidlass, roma 29-30 maggio 2014, Milano, 2015, p. 224, 234.

246 Cannata C. A., Le obbligazioni in generale, in Trattato di diritto privato, Rescigno, IX,

Torino, 1999, 43, secondo cui il principio di buona fede deve essere individuato dall’interprete, ed in ultima analisi, dal giudice caso per caso

247 Castelveltri L., Correttezza e buona fede nella giurisprudenza del lavoro. Diffidenza e proposte dottrinali, in Dir. Rel. Ind., 2001, p. 242.

merito è in grado, ed in diritto, di conoscere il concreto svolgimento della vicenda processuale, e di attribuire un significato specifico al comportamento delle parti e, nel caso di intervenirvi, allo scopo di neutralizzare la condotta “inadempiente”. In definitiva il giudice non fa altro che integrare la volontà delle parti attraverso lo strumento delle clausole de qua. Pertanto “assegnare” in maniera definitiva, un qualunque determinato contenuto/significato alle predette clausole, sembrerebbe contraddire249 quanto da sempre insegnato dalla dottrina. La buona fede e la correttezza sono, per antonomasia, concepite e strutturate come clausole “elastiche”, ciò proprio nel presupposto logico-giuridico (da parte della dottrina) che si appunta nell’astratta indeterminatezza del loro contenuto250. D’altra parte,

proprio in virtù di quanto appena nucleato, occorre riferire che esiste un differente orientamento dottrinario che sostiene che la buona fede necessiti di una definizione, altrimenti sarebbe impossibile poter valutare la congruità della motivazione di una sentenza che si fonda sui principi di buona fede. Ciò implicherebbe che la decisione sfugga al controllo di razionalità sulle scelte del giudicante251.

249 Cfr. Rodotà S., Le fonti di integrazione del contratto, Giuffrè, Milano, 2004, 190; Cfr.

Natoli U., L’attuazione del rapporto obbligatorio, Giuffrè, Milano, 1974, I, 35. Quest’ultimo pone l’accento che il contenuto della clausola in parola varia a seconda dei contesti storici, culturali, etici e ideologici di riferimento

250 Bessone M. – D’Angelo A., voce Buona fede, in Enc. Giur. Treccani, V, 2 e 7. Sul

difficile cammino verso l’individuazione delle figure sintomatiche, dove si osserva che la buona fede sfugge ad una definizione unitaria, essendo impossibile definirla; Cfr. Fiori R.,

Bona fides. Formazione, esecuzione e interpretazione del contratto nella tradizione civilistica, I, p. 174, che invece sostiene l’impossibilità di definire siffatta clausola con

completezza

251 Dolmetta A. A., La fideiussione bancaria attiva nell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, in Banca borsa e tit. credito, 1992, I, 26; Id. voce “exceptio doli generalis, in Enc. Giur., XIII, Roma, 1197, 7

III.7 Il licenziamento per giusta causa conseguente ad un fatto lecito ed extra-

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