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La costruzione dell’immaginario coloniale: l’influenza dell’orientalismo

Riguardo la costruzione dell’immaginario rappresentativo ed iconografico che la cultura occidentale ha edificato nel corso del tempo rispetto all’alterità coloniale, è necessario richiamare alcune riflessioni che partono dai lavori proposti da Edward Said e dalla concezione di “orientalismo”, che in parte hanno contribuito a fondare ciò che si intende oggi con l’espressione “studi postcoloniali”.

Nel pensiero di Said è possibile rintracciare le radici di quella costruzione dell’immaginario collettivo che ha accompagnato la storia dei rapporti tra le diverse madrepatrie europee e i rispettivi territori coloniali sparsi nei vari continenti. Edward Said si concentra sulla definizione delle identità culturali come costruzioni discorsive: i termini Oriente e Occidente sono due concetti caricati di diversi significati nel corso della storia coloniale. Sostenendo l’interdipendenza tra le due costruzioni, Said afferma:

L’Oriente non è solo adiacente all’Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. E ancora, l’Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente) 62.

Tutto ciò non significa che i due termini non avessero già originariamente una propria valenza precedente alle età dei colonialismi e degli imperialismi, anche se sia l’Oriente che l’Occidente non sono entità naturalmente predefinite, bensì sono uno dei prodotti culturali della civiltà umana. A questo proposito Edward Said sostiene che: «Perciò, proprio come l’Occidente, l’Oriente è un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e linguaggio che gli hanno dato realtà e presenza per l’Occidente. Le due entità geografiche si sostengono e in una certa misura si rispecchiano vicendevolmente» 63.

62 E. Said, Orientalismo: l’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 11-12 (ed. or. Orientalism, New York, Pantheon Books, 1978).

Le teorie legate all’orientalismo cercavano di mettere in evidenza come ogni discorso o rappresentazione sull’alterità venisse legittimato all’interno del sistema di potere che l’aveva prodotto, cioè il potere delle madrepatrie coloniali europee. In questo modo ogni definizione e ogni descrizione dell’altro più che rispondere a un criterio di oggettività poteva essere ricondotta alle procedure discorsive di un particolare sistema ideologico e politico. Nella visione proposta da Said, fu proprio questa dimensione orientalista della cultura occidentale ed europea ad aver preparato la strada alle pratiche dell’imperialismo e del colonialismo in età moderna, che non sono stati soltanto dei fenomeni politici ed economici, bensì dei discorsi finalizzati alla produzione di determinate immagini stereotipate dell’alterità culturale, che sono risultate essere funzionali sia alla creazione di un’identità occidentale, sia alla sua egemonia e dominio sul resto dei continenti. Un esame critico del pensiero europeo e delle categorie che affondano le radici nelle sue tradizioni intellettuali viene proposto anche da Dipesh Chakrabarty nel suo testo Provincializzare l’Europa quando afferma:

Concetti come cittadinanza, Stato, società civile, sfera pubblica, diritti umani, uguale trattamento di fronte alla legge, individuo – così come la distinzione tra pubblico e privato, l’idea del soggetto, la democrazia, la sovranità popolare, la giustizia sociale, la razionalità scientifica e molti altri -, portano tutti il peso del pensiero e della storia dell’Europa. Molto semplicemente, non è possibile pensare la modernità politica senza i concetti che hanno trovato un assetto definitivo nel corso dell’Illuminismo europeo e del XIX secolo. Tali concetti sottintendono una inevitabile – e in un certo senso indispensabile – visione universale e secolare di ciò che è umano. E’ il medesimo umanesimo illuminista che veniva proclamato, e al tempo stesso smentito, dal colonizzatore europeo ottocentesco nel suo concreto rapporto con i colonizzatori 64.

Per quanto riguarda il contesto italiano, a una certa costruzione dell’Oriente è seguita l’occupazione di quello spazio immaginario che si è concretizzata sin dai primi anni della storia dello stato unitario, portando così alla formazione,

64 Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi, 2004, p. 16 (ed. or.

Provincializing Europe: postcolonial thought and historical difference, Princeton, Princeton

attraverso alcune imprese militari, di un impero coloniale in Africa di dimensioni ridotte rispetto a quelli delle altre potenze europee, ma sorto con le stesse modalità di conquista e violenza. Proprio questi ultimi due elementi hanno contraddistinto sempre la principale differenza giuridica tra lo status della madrepatria e quello delle rispettive colonie, dove, almeno nella maggior parte dei casi, i principi giuridici delle società assoggettate non venivano né presi in considerazione né applicati 65. In questo caso però la prima colonia italiana rappresenta un’eccezione perché l’occupazione dell’Eritrea è accompagnata da un’attività di trascrizione e traduzione in italiano del diritto scritto e dei diritti consuetudinari orali dei diversi gruppi etnici. Questo lavoro è avvenuto grazie al supporto dei missionari e dei militari nei tribunali indigeni dove gli italiani rispettavano per lo più le consuetudini locali, anche se a volte parzialmente modificate, per tutti i casi e reati che riguardavano esclusivamente i nativi.

Durante l’Italia liberale, nel vortice del clima positivista di fine Ottocento, era disponibile e anche applicabile una catalogazione ricca di stereotipi sulla condizione dell’alterità da assoggettare con la ferma sicurezza della superiorità occidentale rispetto a tutto ciò che si collocava geograficamente, e soprattutto culturalmente, al di fuori del contesto europeo.

65 Sul tema più generale del rapporto tra la violenza e la sfera coloniale si vedano le seguenti monografie: Marc Ferro, Le Livre Noir du colonialism. XVIe-XXIe siècle: de l’extermination à la

repentance, Laffont, Paris 2003 e Claude Liauzu, Violence et colonization. Pour en finir avec les guerres de mémoire, Syllepse, Paris 2003. Inoltre segnalo l’articolo di Fabian Klose, Lo stato di necessità coloniale come radicalizzazione della situazione nelle colonie, in «DEP Deportate, esuli,

profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 9/2008, pp. 121-139. Nell’ambito del contesto italiano ricordo invece due interventi riguardanti la violenza di genere perpetrata dai colonizzatori nei confronti delle donne colonizzate: Chiara Volpato, La violenza contro le donne

nelle colonie italiane. Prospettive psicosociali di analisi in «DEP Deportate, esuli, profughe.

Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 10/2009, pp. 110-131 e Nicoletta Poidimani,

Faccetta nera: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa in Luigi

Borgomaneri (a cura di), Crimini di guerra. Il mito del bravo italiano tra repressione del

ribellismo e guerra ai civili nei territori occupati, Guerini e Associati 2006, pp. 33-62. In

quest’ultimo lavoro il periodo preso in esame dalla ricercatrice è l’apogeo imperiale del potere fascista, ma nel testo si ricostruiscono le varie tappe, storiche, sociali e culturali, che dal periodo liberale di fine Ottocento hanno permesso e condotto all’architettura giuridica del razzismo di stato negli anni Trenta del Novecento.

Il presunto primato militare, economico e culturale ha rappresentato l’espressione della più becera forma d’arroganza che ha spinto l’Europa, e di conseguenza anche l’Italia, a fare dell’imperialismo una politica di potenza e a colonizzare quindi circa l’85% della superficie terrestre sotto forma di domini diretti o protettorati che nelle parole di Edward Said vengono spiegati in questo modo:

Né l’imperialismo né il colonialismo sono semplici atti di espansione e acquisizione di territori. Entrambi sono sostenuti, e forse perfino sospinti, da formidabili formazioni ideologiche, che racchiudono l’idea che certi territori e certi popoli necessitino e richiedano di essere dominati, così come da forme culturali associate al dominio: il vocabolario della classica cultura imperiale dell’Ottocento è pieno di termini e concetti quali “razze sottomesse” o “inferiori”, “popoli subalterni”, “possedimenti”, “espansione” e “autorità” 66.

Nella seconda metà dell’Ottocento, l’avventura coloniale in Africa dell’Italia liberale ha rappresentato da una parte la corsa al mito dell’esplorazione che aveva caratterizzato quell’epoca con mirate finalità politiche ed economiche, come la ricerca di risorse sia naturali che umane da poter sfruttare. Dall’altra parte invece si scopre il tema del viaggio trasfigurato in una dimensione esotica che venne ricostruita sulla base delle proprie certezze culturali e di stratificati pregiudizi. Dopo gli avventurosi viaggi degli esploratori e le prime campagne di conquista militare, compare nella sfera coloniale un’altra figura, quella cioè del funzionario coloniale. Appartenevano a questa categoria tutte quelle persone che dalla madrepatria venivano mandate a lavorare, con compiti diversi, nelle varie amministrazioni pubbliche sorte nelle colonie. A partire dalla fine dell’Ottocento, quando anche l’Italia intraprese la strada verso il colonialismo, molti uomini partirono alla volta dell’Africa. Si trattò di un contingente assai eterogeneo al suo interno: molti uomini, partiti come ufficiali, si trovarono in breve tempo ad assumere ruoli amministrativi nella prima colonia, l’Eritrea. Interessante è chiedersi da dove provenissero i funzionari coloniali dal punto di vista sociale, intellettuale e culturale, in che modo venivano prima selezionati e poi reclutati,

66 Edward Said, Cultura e imperialismo: letteratura e consenso nel progetto coloniale

dell’Occidente, Roma, Gamberetti, 1998, p. 35 (ed. or. Culture and Imperialism, New York,

cosa li spingesse a questa scelta e come interpretarono il loro ruolo nel contesto coloniale. Quella del funzionario ha rappresentato una figura di primaria importanza nella costruzione dell’apparato burocratico italiano in Africa perché nella pratica quotidiana e nella gestione del potere amministrativo egli recepiva le disposizioni di legge e le volontà politiche provenienti dalla madrepatria e le applicava nel territorio della colonia. Le diverse modalità attraverso le quali i funzionari coloniali esercitarono il loro potere nelle terre occupate hanno influenzato i destini di molti colonizzatori e di molti colonizzati.

Un ritratto dei primi funzionari che partivano per assumere il loro incarico in Africa si ricava dalle parole di Chiara Giorgi, che oltre a spiegare come la vera ragione di questi incarichi fosse la speranza di ottenere maggiori guadagni e vantaggi di carriera, afferma che:

[…] il funzionario inviato in colonia sin dai primi anni della colonizzazione (a partire cioè dalla seconda metà dell’Ottocento in Eritrea) o è un militare, poi passato al servizio dell’amministrazione civile, o, nel caso di quanti tratti da altri ministeri, proviene da studi di carattere giuridico. Non ha quindi una preparazione

ad hoc rispetto al sapere coloniale e all’Africa nella sua complessità 67.

Per quanto riguarda il pensiero orientalista che è appartenuto storicamente al contesto italiano, la costruzione del rapporto tra madrepatria e mondo africano, avvenuta anche attraverso le figure dei militari e dei funzionari, è sempre stata esplicitamente connotata da un discorso politico di dominio e di superiorità sui vari popoli assoggettati nel Corno d’Africa. Ovviamente ciò non esclude la possibilità di poter considerare quel fenomeno in una dimensione più culturale, soprattutto se analizzato in una fase postcoloniale come quella di oggi, che si può anche definire a seconda dei casi diasporica oppure transnazionale.

Inoltre proprio in queste nuove dimensioni della contemporaneità riemergono le principali linee di un pensiero orientalista italiano che aveva avuto una propria diffusione nell’opinione pubblica nazionale a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma la cui presenza e radicalizzazione nella cultura e nella sensibilità collettiva è stata a lungo sopita e latente.

67 Chiara Giorgi, L’Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano, Roma, Carocci, 2012, p. 16.

A questo si accompagna un risveglio della memoria coloniale italiana che negli ultimi due decenni è stata troppo spesso strumentalizzata 68. Infatti la mancata rielaborazione dei trascorsi coloniali, da sempre rilegati ai margini della memoria storica, ha consentito a quelle strutture di pensiero razziste, che si erano formate e diffuse per mezzo della propaganda coloniale, di rimanere silenti nella coscienza dell’opinione pubblica italiana 69. Invece esse sono recentemente riemerse nell’incontro con l’altro e con il diverso che sono rappresentati dalle categorie dell’immigrato, del profugo, del rifugiato; queste ultime comparse a causa dell’acuirsi di emergenze globali quali le migrazioni, le diaspore e i movimenti transnazionali.

Questi fenomeni attraversano ormai con regolarità il contesto italiano, anche se con un certo ritardo rispetto a quello di altre realtà europee, che avevano adottato tra l’altro diverse e più efficaci forme di memoria coloniale capaci da una parte di rielaborare i nodi critici del passato e dall’altra di affrontare le sfide del presente.

68 Per la questione dell’orientalismo si vedano Elena Petricola, Andrea Tappi, Orientalismi

all’italiana, in «Zapruder», n. 23, settembre-dicembre 2010, pp. 2-7. Invece per un ritorno della

memoria coloniale si veda il seguente contributo di Silvana Palma, Il ritorno di miti e memorie

coloniali. L’epopea degli ascari eritrei nell’Italia postcoloniale, in «Afriche e Orienti», anno IX,

n. 1, pp. 57-79.