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La crisi finanziaria ed economica internazionale

Il mondo economico e finanziario ha attraversato un periodo di profonda crisi, culminata nel 2008 e con un estensione su scala internazionale: nei due sottoparagrafi successivi verrà analizzato sia l'impatto globale, sia le specificità degli effetti a livello nazionale.

1.4.1 Impatto globale

Il 2007 viene considerato, dalla maggiore parte degli studiosi, l'anno di avvio della crisi finanziaria globale. Le tensioni che avevano interessato i principali mercati finanziari, fino a quel momento sotto controllo, si erano fortemente inasprite, generando forti oscillazioni nei prezzi dei titoli, e nell'anno successivo, avevano portato al crollo di numerosi istituti finanziari. Analizziamo sinteticamente quali sono stati i fattori e le dinamiche evolutive che hanno innescato la crisi finanziaria globale, prima di focalizzarci sul sistema finanziario e bancario italiano. Gli Stati Uniti hanno attraversato, negli anni '90, una fase di crescita economica eccezionalmente lunga7: una durata atipica se si considera che un ciclo di espansione economica si protraeva mediamente per 5-6 anni. La banca centrale americana, spinta dalle preoccupazioni di un prolungato trend economico in declino, ha introdotto un forte taglio dei tassi d'interesse, portandoli ad un livello inferiore ai valori di lungo termine. L'andamento dei tassi e del ciclo economico sarebbero divenuti la principale causa della creazione di una bolla immobiliare. Il taglio dei tassi interbancari operato dalla Fed ha esteso e reso maggiormente conveniente l'accesso ai mutui per l'acquisto di immobili: il valore delle abitazioni è esploso, registrando in alcune aree tassi di crescita superiori al 100%. Il volume di prestiti immobiliari è aumentato, e con esso anche la durata del mutuo e gli importi delle rate. Nel 2004 la Federal Reserve, per contenere il fenomeno inflazionistico, decise di reintrodurre la politica di rialzo dei tassi: l'importo delle rate aumentò, portando ad un rapido peggioramento della capacità di rimborso.

Nei bilanci bancari cresceva la quota di crediti deteriorati: i prezzi delle case erano scesi in seguito al crollo della bolla speculativa, riducendo le garanzie in capo alle banche. Gli intermediari bancari manifestavano quindi un'elevata esigenza di copertura dal rischio di credito: la soluzione adottata fu quella di trasferire il rischio creditizio ad una molteplicità di investitori, attraverso l'emissione di titoli derivati, denominati CDO (collaterized debt obligation). Nel periodo pre-crisi si era assistito ad un elevata espansione di questi titoli, grazie agli interessanti rendimenti offerti: l'acquisto, effettuato anche da operatori finanziari esteri, aveva oltrepassato i confini statunitensi, creando i presupposti per una crisi di portata globale. I CDO si configuravano come titoli ad alto profilo di rischio: la determinazione del loro prezzo non avveniva in base alle normali dinamiche d'incontro domanda-offerta di mercato, ma si basava sulle valutazioni di rating del pacchetto clienti che ne costituiva il “sottostante”. Tale caratteristica rendeva questi titoli fortemente soggetti al rischio di liquidità: il mercato secondario inesistente non consentiva un aggiustamento dei prezzi in funzione ai mutamenti nel profilo di rischio. Il rialzo dei tassi nel 2004 aveva portato in pochi anni ad un amplificazione esponenziale delle problematiche d'insolvenza (soprattutto nei pagamenti delle rate di mutui a tasso variabile) mentre i CDO non subirono un adeguamento di valore. L'aggiustamento di prezzo avvenne in un'unica circostanza, quando i problemi di sostenibilità finanziaria dei prestiti avevano assunto una dimensione tale da rendere di fatto illiquidi i CDO. Le banche che avevano in portafoglio una rilevante quota di CDO, furono costrette ad effettuare elevate rettifiche di bilancio. Per finanziare le propria attività, le banche non potevano più concedere in garanzia i CDO, il cui valore risultava ormai azzerato: la necessità di fondi spinse gli istituti a vendere addirittura titoli azionari in portafoglio e posizioni in cambi, per acquistare i titoli statali, gli unici ricevuti in garanzia a fronte di nuovi finanziamenti. Il dissesto finanziario degli istituti aveva innescato una crisi di fiducia fra banche, generando uno stallo dei prestiti interbancari: ciò contribuì ad aggravare ancor di più la situazione finanziaria degli intermediari. Il governo degli USA e la Federal Reserve furono costretti ad intervenire per cercare di ripristinare la stabilità finanziaria: vennero approvati piani di risanamento mirati per salvare determinate banche ed operatori finanziari.

Vennero salvati i due colossi del credito ipotecario, la compagnia assicurativa AIG, mentre a Lehman Brother venne concessa la procedura di fallimento pilotato.

La crisi finanziaria, originata negli Usa dallo scoppio della bolla speculativa del settore edilizio, si era estesa a livello globale, investendo il Giappone e l'area Euro, e trasferendosi negli anni successivi anche all'economia reale. Alla base della crisi internazionale vi fu sostanzialmente un accumulo di un livello di “debito insostenibile”, sia privato che pubblico: gli Stati Uniti, a partire dagli anni settanta, incrementarono notevolmente il proprio disavanzo commerciale, finanziandosi attraverso l'emissione di titoli e attività finanziarie presso investitori esteri. La Cina fu il principale creditore degli Usa: a partire dagli anni '80 i due paesi avevano intrapreso intensi rapporti commerciali.

Analizziamo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, esposti nella tabella 1.3: gli Stati Uniti primeggiano nel confronto internazionale quale stato che registra lo squilibrio maggioritario, con un deficit commerciale pari all'1.56% del PIL mondiale nel periodo antecedente la crisi.

Tabella 1.3: Flussi commerciali mondiali fra le principali aree (in % rispetto al PIL)

Fonte: IMF- World economic outlook, 2009

Il deficit delle partite correnti, che raggiunse il culmine nel 2006, con un valore pari al 6.5% del PIL, veniva finanziato dall'acquisto delle attività americane da parte dei paesi in surplus commerciale. Gli Stati Uniti, a fine Novembre 2014, avevano accumulato un debito estero pari a circa 61008 miliardi di dollari, un terzo del debito pubblico complessivo.

Usa Japan Euro Area

Usa - 0,27 0,5 1,04 0,57 0,04 1,26 3,68 Japan 0,11 - 0,09 0,044 0,04 0,01 0,43 1,14 Euro Area 0,33 0,14 - 0,76 0,18 0,59 1,74 3,74 Emerging Asia 0,41 0,61 0,43 - 0,15 0,05 1,36 3,15 Latin America 0,42 0,06 0,15 0,18 - 0,01 0,16 1,07 Emerging Europe 0,03 0,03 0,74 0,16 0,01 - 0,41 1,4

Rest Of the World 0,82 0,2 1,88 1,02 0,17 0,34 - 4,38

Total exports 2,12 1,31 3,78 3,36 1,06 1,04 4,66 -

Exporter

Importer Emerging

I principali detentori del debito americano sono Cina, Giappone e (prima dello scoppio della crisi dell'Ucraina) Russia, paesi che registravano negli anni pre-crisi un elevato surplus commerciale. La consistente dipendenza dall'afflusso di capitale estero rappresenta una fonte di instabilità, in un contesto di crisi finanziaria e dei conti pubblici, in quanto la garanzia di finanziamento degli squilibri futuri è rimessa alle negoziazioni intraprese con i principali paesi creditori. Inoltre il governo americano, nel corso della crisi economica, ha potuto attingere in misura contenuta al risparmio privato, notoriamente basso: nel confronto internazionale gli Stati Uniti figurano fra i paesi a maggior indebitamento finanziario, in rapporto al reddito disponibile.

Figura 1.14: Indebitamento familiare in rapporto al reddito disponibile

* Livello d'indebitamento rappresentato, per ogni nazione, in tre periodi: 2000, 2007 e 2012 Fonte: Elaborazione dati da OECD - Households debt

Inoltre, nel periodo pre-crisi, il considerevole livello di debito delle famiglie americane aveva accelerato, per effetto della propagazione esponenziale degli stati d'insolvenza, la nascita della crisi dei mutui sub-prime descritta in precedenza.

1.4.2 Impatto Nazionale

La crisi economica e finanziaria italiana ha avuto origine, a differenza degli Stati Uniti, da fattori esterni al contesto finanziario nel quale operava. La propagazione degli effetti negativi, originati dal crollo modelli finanziari differenti rispetto al nostro, ha invece avuto notevoli ripercussioni sulle banche e l'economia reale. Lo stato italiano ha incontrato notevoli difficoltà nel fronteggiare gli shock esterni: negli anni pre-crisi l'Italia non era stata in grado allinearsi a livelli di competitività europei e dei mercati emergenti, registrando un basso livello di crescita del PIL, inferiore rispetto ai principali paesi dell'area euro. In figura 1.15 sono esposti i trend di crescita del Pil delle principali economie, assumendo una base pari a 100 nell'anno 1999: si può notare con chiarezza la posizione di inferiorità assunta dall'Italia nella crescita pre-crisi e la perdita di valore maggiore, rispetto agli altri paesi, al culmine della crisi stessa.

Figura 1.15: Tasso di crescita del Pil dei principali paesi industrializzati

Fonte: Scott Barber, Thomson Reuters Datastream, 24 August 2012

Il sistema bancario italiano tuttavia ha retto bene alla prima fase di crisi, di matrice finanziaria, che aveva investito altri paesi, in particolare Regno Unito, Usa e Irlanda. La ragione risiedeva nel basso sviluppo, riscontrato negli istituti italiani, degli investimenti in titoli derivati o connessi al processo di cartolarizzazione: inoltre, nonostante un'elevata crescita dei prezzi nel mercato immobiliare, non si era assistito alla formazione e allo scoppio di bolle speculative.

L'economia italiana ha risentito invece in misura consistente degli effetti della seconda ondata della crisi, che era stata originata dalla crisi del debito sovrano europeo: i bilanci delle banche avevano registrato forti squilibri finanziari a partire dall'anno 2010.

Gli istituiti bancari avevano manifestato una grande instabilità finanziaria, dovuta principalmente a due fenomeni: le difficoltà di approvvigionamento di capitale nei mercati all'ingrosso e le perdite (in termini patrimoniali e di utile) conseguite dall'economia reale che avevano inciso principalmente nel versante dei crediti. Analizziamo le due cause nel dettaglio. Una banca commerciale eroga crediti ad operatori finanziari, imprese e famiglie finanziando i propri prestiti attraverso molteplici forme di raccolta. Le banche italiane ricorrono ai depositi bancari, e alle obbligazioni emesse dall'istituto stesso e collocate principalmente presso la clientela “retail”. Inoltre, negli anni antecedenti la crisi, una quota rilevante della raccolta bancaria proveniva dai finanziamenti nel mercato wholesale, formato dai prestiti concessi da operatori finanziari esteri (banche, società finanziarie, investitori istituzionali). In quel periodo, una percentuale elevata di prestiti a privati e aziende era garantita dai finanziamenti nel mercato interbancario: vi facevano principale ricorso gli intermediari di dimensioni maggiori, in particolare i primi cinque gruppi bancari. L'avvento della crisi aveva generato gravi squilibri nei mercati all'ingrosso: dalla fine del 2008, il volume e la dimensione delle operazioni finanziarie nei mercati wholesale si era ridotto notevolmente. L'incremento del rischio di controparte, legato alla situazione di crescente dissesto finanziario degli istituti bancari, aveva innescato una crisi di fiducia generalizzata: i prestiti interbancari si erano ridotti per lasciare spazio a scelte di approvvigionamento orientate ai più sicuri depositi della clientela. La percentuale di depositi di famiglie e imprese in rapporto al totale delle attività aveva conosciuto, fin dall'introduzione dell'Euro, un andamento decrescente: al culmine della crisi registrava una progressiva crescita, come illustrato in figura 1.16: il valore mediano era passato dal 38% nel terzo trimestre 2008 al 43.5% a fine anno 2011.

Si osserva tuttavia una forte differenziazione fra i vari paesi: nel grafico l'ampiezza della distribuzione interquartile evidenzia infatti, nel periodo di crisi, un incremento della dispersione.

Figura 1.16: Quota di depositi di famiglie e imprese in rapporto al totale degli asset

(percentuali, minimo, massimo e distribuzione interquartile relativi agli istituti dell'area euro)

Fonte: Bce, “Changes in banking financing pattern”, chart 9, April 2012

Il fenomeno di crescita dei depositi può essere analizzato, sotto un altro punto di vista, considerando il “loan to deposit ratio”, un indice percentuale che esprime il rapporto fra i prestiti concessi alla clientela ed il volume di depositi complessivo. Negli anni pre- crisi, come illustrato in figura 1.17, il “loan to deposit ratio” aveva registrato una progressiva crescita fino all'autunno del 2008 raggiungendo un valore pari al 138%, e negli anni successivi è diminuito assestandosi al 130% a fine 2011.

Figura 1.17: Loan to deposit ratio relativo al settore privato non finanziario

La riduzione riscontrata nel corso della crisi è in gran parte legata ad un maggiore tasso di crescita dei depositi rispetto ai prestiti, che hanno subito una forte contrazione dei volumi erogati, in seguito allo scoppio e all'intensificarsi della crisi finanziaria globale. La crisi del mercato interbancario ha provocato un altro effetto sostitutivo: la riduzione del volume di risorse investite nei prestiti interbancari, a favore dei più sicuri fondi depositati presso le banche centrali. Osserviamo il grafico di figura 1.18, che illustra l'evoluzione, con riferimento all'area euro, della quota di passività interbancarie sul totale delle attività bancarie. Analizzando i mesi immediatamente antecedenti la crisi, si nota un forte aumento del relativo valore mediano dalla fine del 2007 al terzo trimestre del 2008, seguito da un consistente crollo verso al fine del 2008. Il trend discendente si è protratto fino alla metà del 2010, registrando nel periodo successivo assestamenti del valore mediano prossimi al 20%.

Figura 1.18. Quota di passività interbancarie in rapporto agli asset bancari totali

Fonte: Bce, “Changes in banking financing pattern”, chart 1, April 2012

Se invece si esamina il trend relativo alla raccolta finanziaria delle banche europee presso la banca centrale, si può notare un aumento considerevole del ricorso al finanziamento, a partire dalla metà del 2007. Si osservi il grafico in figura 1.19: il tasso di finanziamento presso la Bce raggiunge il culmine nell'avvio della fase più critica della crisi (ultimo trimestre 2008) e attorno al 2010: i problemi di sostenibilità dei debiti sovrani avevano amplificato la crisi di fiducia nella solvibilità delle banche, che preferivano ottenere finanziamenti dalla Banca Centrale, anziché rivolgersi al mercato interbancario.

Figura 1.19. Finanziamenti presso la Banca Centrale sul totale dei depositi gestiti dalle banche

Fonte: Bce, “Changes in banking financing pattern”, chart 23, April 2012

Il crollo della raccolta di fondi nel mercato interbancario aveva portato ad una contrazione del volume di credito erogato e ridotto, di conseguenza, la capacità di remunerare i depositi e le altre passività in scadenza. L'impatto finanziario sulle famiglie e sull'operatività delle imprese fu in realtà limitato, per due motivi. Da un lato l'incertezza sulle dinamiche evolutive dei mercati aveva provocato una forte riduzione della domanda di credito. In secondo luogo le banche potevano contare sui depositi delle famiglie per espandere e compensare l'offerta di finanziamenti. Il secondo stadio della crisi ha avuto invece un impatto (economico e finanziario) di maggiore portata. L'aumento del tasso di remunerazione-rischio del debito sovrano aveva influenzato, sotto molteplici aspetti, la capacità di raccolta degli istituti bancari. I titoli di stato rappresentavano, come accennato in precedenza, una percentuale rilevante dell'attivo bancario: i titoli pubblici potevano essere facilmente concessi in garanzia per l'approvvigionamento nei mercati wholesale o per la concessione di prestiti dalla Bce. L'aumento dei tassi d'interesse dei titoli statali ne aveva ridotto il valore, generando di conseguenza anche una diminuzione delle scorte di liquidità degli istituti. La consistenza patrimoniale delle banche aveva subito una forte riduzione: minori garanzie per i finanziamenti si riflettevano in una contrazione del credito, portando ad una diminuzione della redditività da margine d'interesse. L'indice di rischiosità dei principali istituti bancari venne inoltre innalzato dalle agenzie di rating: il taglio inflitto al merito di credito degli stati sovrani aveva prodotto un abbassamento generale delle valutazioni di solvibilità delle banche.

Risulta evidente che le performance di un istituto bancario siano essere strettamente correlate a quelle dello stato in cui opera: inoltre uno stato in difficoltà finanziarie disporrà di minori margini di manovra nel finanziarie e sostenere istituti in crisi.

Le banche nazionali e degli altri stati europei attraversarono quindi un periodo di profonda crisi: la Bce, dinnanzi al pericolo di consistenti e disordinate vendite delle attività in portafoglio, decise alla fine del 2011 di adottare iniziative che innalzassero in misura consistente il volume di liquidità del sistema. Venne attuato il cosiddetto LTRO, un'asta di liquidità con la quale la Bce concedeva alle banche finanziamenti a lungo termine (3 anni), ricevendo strumenti finanziari in garanzia (collateral). Finora sono stati due gli interventi finanziari a lungo termine: il primo venne lanciato il 21 dicembre 2011, con un asta di 489 miliardi, mentre il secondo l'anno successivo nel febbraio 2012, con un immissione di liquidità pari a 530 miliardi di euro 9. Gli istituti beneficiari furono 800, per un prestito complessivo di 1000 miliardi di euro: tuttavia, nonostante l'elevata iniezione di liquidità, la raccolta all'ingrosso aveva registrato una ripresa molto modesta nel volume degli scambi. I bilanci delle banche nazionali risentirono anche degli effetti del calo generalizzato della produttività industriale. L'Italia è entrata in una fase recessiva a partire dal 2011, caratterizzata da un forte abbattimento della domanda di credito, ed una conseguente diminuzione della redditività bancaria. Ma l'impatto di maggior rilievo è stato l'incremento dei problemi di sostenibilità finanziaria dei prestiti concessi a famiglie e imprese. La percentuale di crediti “deteriorati” era cresciuta, dal 2007 al 2012, di 3 punti percentuali: la quota di crediti “in sofferenza”, le situazioni debitorie di insolvenza, è passata invece dal 3 al 7%.

Il trend è illustrato dall'istogramma di figura 1.20, che evidenzia inoltre, nel medesimo arco di tempo, un incremento di 8 punti percentuali della quota di crediti deteriorati (dal 5,4% al 13.5%).

Figura 1.20: Rapporto fra le tipologie di credito deteriorato e il credito complessivo del settore bancario nazionale

Fonte: Elaborazione dati da Banca d'Italia - bollettini statistici, 2008-2012

Il deterioramento dei rapporti creditizi ha interessato l'intera economia reale, registrando l'impatto di maggiore portata nel settore dell'edilizia, che negli anni pre-crisi rappresentava, per le banche, il principale mercato verso cui orientarsi nell'espansione dell'offerta creditizia. Alcuni studi di confronto fra le industrie bancarie dei vari paesi europei hanno riscontrato nelle banche nazionali una quota di crediti deteriorati (NPL ratio) e tasso di copertura minore rispetto ai sistemi bancari delle principali economie. In realtà, l'applicazione di differenti criteri di valorizzazione e classificazione dei crediti rende difficile la comparabilità dei portafogli creditizi dei vari stati: molti paesi europei includono, fra i non performing loan, i prestiti di incerto rimborso per i quali non si stima, a fronte di adeguate coperture, la manifestazione di perdite future. Le banche italiane effettuano invece la classificazione in base al merito creditizio, prescindendo dall'ampiezza delle garanzie: dall'applicazione di questa convenzione risulta un tasso di prestiti non performanti superiore ed un coverage ratio inferiore. Secondo le stime di Banca d'Italia, se al sistema bancario nazionale venissero applicati i medesimi criteri di altri stati europei, a fine anno 2012 l' NPL ratio sarebbe pari all'8.5% (circa quattro punti percentuale in meno), mentre il tasso di copertura avrebbe superato il 50% dei crediti deteriorati. Se invece si analizza il trend evolutivo del Coverage ratio si riscontra (a prescindere dai problemi di confrontabilità) un progressivo deterioramento dallo

2008 2009 2010 2011 2012 0,00% 5,00% 10,00% 15,00% 20,00% 2,60% 3,70% 4,50% 6,10% 7,10% 2,10% 3,10% 3,10% 3,30% 4,30% 5,40% 8,20% 9,10% 11,10% 13,50%

Come si nota dalla figura 1.21, il tasso di copertura registra un forte declino nel 2009 e, dopo un piccolo incremento nei 2 anni successivi, si assesta attorno al 37.8% dei crediti deteriorati lordi.

Figura 1.21: Coverage ratio (rettifiche su crediti in rapporto alle esposizioni deteriorate lorde)

Fonte: Elaborazione su dati di Banca d'Italia, bollettini statistici dal 2008 al 2012

Le banche, in presenza di crediti di incerta esigibilità, devono operare delle rettifiche di valore che andranno imputate come costi in conto economico, riducendo e assorbendo una fetta rilevante del reddito operativo ( raggiungendo quasi il 90% dei ricavi operativi). L'entità della contrazione creditizia presentava inoltre rilevanti differenziazioni fra istituti bancari, a seconda della situazione di solvibilità finanziaria e delle condizioni di liquidità.

I quattro grafici di figura 1.22 evidenziano un legame negativo fra tasso di erogazione del credito e:

-peggioramento della condizione di liquidità (crescita del loan to deposit ratio); -aumento del costo della raccolta bancaria;

-aumento della quota di credito non performante (NPL Ratio);

ed una relazione positiva rispetto all'aumento delle capacità di assorbimento delle perdite.

Si può dedurre che le banche che presentavano i loan to deposit ratio (rapporti impeghi-depositi) maggiori, inferiori potenzialità di copertura delle perdite (espressa dal rapporto fra capitale di prima qualità e crediti netti in sofferenza), NPL ratio e costi di raccolta più elevati, hanno manifestato la contrazione più intensa dei prestiti a privati e aziende.

Figura. 1.22: Credito e vincoli: analisi per i 13 gruppi italiani quotati

* Rapporto crediti erogati-depositi gestiti (esclusi i PCT attivi e passivi) ** Core capital/sofferenze nette

*** Crediti deteriorati lordi sul totale degli impieghi lordi Fonte: Elaborazione dati dai bilanci consolidati dei gruppi quotati

Si era innescata una pericolosa spirale recessiva: la contrazione dei ricavi delle imprese ha ridotto le possibilità di accesso al credito: l'elevato profilo di rischio ha spinto le banche ad innalzare i vincoli di accesso ai finanziamenti, accelerando ancor di più lo stato di dissesto delle aziende stesse.

1.4.3 Impatto della crisi nei bilanci bancari