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LA DIETA E L’INTEGRAZIONE ALIMENTARE COME TERAPIA

COME

TERAPIA

COADIUVANTE

PER

IL

TRATTAMENTO DELL’AR

L’artrite reumatoide, essendo una malattia autoimmune sistemica cronica, richiede il trattamento farmacologico per curare l’infiammazione che interessa principalmente le articolazioni. Nel corso degli anni, tuttavia, sono stati diversi gli interrogativi riguardanti le modalità di azione per una cura non strettamente farmacologica finalizzate a migliorare i sintomi della

malattia. È stata, dunque, posta l’attenzione sugli effetti di alcuni alimenti sull’AR

ed è stato osservato che gli acidi grassi omega 3, il digiuno, la dieta vegetariana e una dieta di tipo mediterraneo, avevano un modesto beneficio

sulla patologia (Panush e coll., 1983; Tedeschi e Costenbader, 2016). Uno studio di coorte ha coinvolto più di 1400 soggetti dal 2003, ai quali era

stata diagnosticata l’artrite reumatoide, e il 97% di essi presentava i criteri di AR secondo l’American College of Rheumatology (Arnett e coll., 1988). Ogni 6 mesi i dati riferiti dai pazienti includevano oltre ai dati demografici, comorbidità, farmaci assunti per il trattamento dell’AR, e punteggi di attività della malattia (misurato con il DAS), nonché indice di attività della malattia (ACR) e questionario modificato di valutazione della malattia (HAQ-DI). I medici, invece, durante ogni visita annuale, verificavano le misure di attività della malattia, ovvero punteggio di attività della malattia in 28 articolazioni, utilizzando il livello di proteina C reattiva

(DAS28CRP), e l’indice di attività della malattia clinica. Tra maggio e dicembre 2015, ad un campione casuale di 300 soggetti, che

avevano partecipato attivamente, è stato inviato per posta un sondaggio relativo a qualità e quantità di 20 alimenti (secondo credenze popolari

92 avevano proprietà infiammatorie (Arthritis Foundation; Cleveland Clinic): latte, formaggio, carne rossa, pomodori, melanzane, birra; avevano proprietà antinfiammatorie (Arthritis Foundation): cioccolato, pesce, spinaci, mirtilli, fragole e vino rosso), e per ciascuno di questi, i soggetti dovevano indicare se miglioravano o peggioravano la loro malattia, se e quanto spesso evitavano di mangiare uno o più di quegli alimenti per scongiurare un peggioramento dei sintomi. Inoltre, è stato chiesto loro, a parte la dieta, quali fattori ambientali (ad esempio una temperatura ambiente calda, sia in ambito climatico che domestico), e/o stili di vita, (quindi esercizio fisico regolare (Van der Giesen e coll.,2010), una buona notte di sonno (Lee e coll., 2009) o anche l’assunzione di integratori vitaminici e minerali), avrebbero potuto contribuire a modificare positivamente i loro sintomi. Per ogni alimento incluso nel sondaggio, è stata poi calcolata la percentuale di soggetti che hanno segnalato miglioramento o peggioramento dei sintomi della loro malattia a causa di quel cibo. Nel 10,1% dei partecipanti, mirtilli (11,1%) e pesce (10,9%) avevano migliorato i sintomi dell’AR come del resto il regolare esercizio fisico (83,7%) e dormire bene la notte (86,5%), mentre bevande dolcificate (12,7%) e dolci (12,4%) li avevano peggiorati; nel 9,2% avevano solo peggiorato e nel 4,6% li avevano migliorati. Per di più il 24,3% di tutti i soggetti evitavano gli alimenti ( il 16,2% a volte e l’8,1% spesso) poiché peggioravano la loro AR. I soggetti che hanno segnalato gli alimenti come possibili fattori che influenzavano

l’AR avevano un’età media 58,5 anni. Il 54,8% era in trattamento con MTX in monoterapia o in terapia di

combinazione; era anche comune l’uso di un DMARD biologico, inclusi gli inibitori del TNF (abatacept, rituximab, tocilizumab). Un quarto di soggetti stava assumendo corticosteroidi, con un dosaggio medio di prednisone di 5

93 mg al giorno, mentre nell’8,3% dei soggetti non sono stati usati farmaci per l’AR o sono stati utilizzati solo FANS. Sebbene la metà dei partecipanti abbia riferito una riacutizzazione negli ultimi 6 mesi, l’attività della malattia è stata bassa, con un punteggio DAS28-CRP medio di 2,1[ IQR

(interquartile range o “scarto interquartile”) compreso tra 1,6 e 3,0]. Per quanto riguarda l’associazione tra le caratteristiche dei soggetti e gli

alimenti che influenzano l’AR, è stato possibile osservare che sesso, indice di massa corporea, sieropositività per AR, durata della malattia, uso di corticosteroidi, DMARD biologici e non, non differivano tra coloro i quali sostenevano che gli alimenti influenzassero i loro i sintomi, da quelli che

affermavano il contrario. Un sondaggio simile è stato effettuato dal 1985 al 1990 tra 704 pazienti con

AR (Tanner e coll., 1990), e anche in questo caso erano generalmente i più giovani a riferire che i cibi influenzassero i loro sintomi di AR: il 10,7% dei rispondenti hanno riportato un peggioramento della malattia, mentre il

5,5% hanno riportato un miglioramento della malattia. Nonostante i numerosi interrogativi sull’efficacia del MTX in seguito

all’assunzione di caffeina (Nesher e coll., 2003; Benito-Garcia e coll., 2006), il 54,8 % dei partecipanti a questo studio, in trattamento con MTX, non ha segnalato caffè o the con caffeina come fattori aggravanti della loro malattia. Il presente sondaggio non ha comunque testato se cibi specifici influenzano l’attività della malattia, e non è stato riscontrato alcun collegamento tra punteggi di attività della malattia e cambiamenti auto segnalati dei sintomi provocati dagli alimenti. Infine, ricordiamo un recente studio randomizzato sull’artrite idiopatica giovanile (Zhong et al., 2015) che ha valutato l’effetto di etanercept, etanercept + succo di mirtillo ed etanercept + placebo, sull’attività della malattia e sui livelli circolanti di IL- 1. Dopo 6 mesi, nel gruppo etanercept + succo di mirtillo, si erano

94 abbassati i livelli di IL-1 e una percentuale significativamente maggiore di soggetti ha raggiunto criteri di ACR con un miglioramento del 20, 50 e 70% rispetto agli altri due gruppi. Eppure tramite questo studio non è stato possibile trarre conclusioni certe riguardo gli effetti benefici dei mirtilli sull’attività della malattia, anche perché, ad oggi, questi risultati non sono stati confermati.

5.1 Gli effetti dell’integrazione simbiotica sui pazienti affetti da AR

Nell’uomo, per mantenere l’omeostasi dell’intestino, è richiesta una complessa interazione tra il sistema immunitario dell’ospite e il micro bioma (Littman e Pamer, 2011; Flimt e coll., 2012). Il termine “microbioma”, coniato da Joshua Lederberg, definisce le comunità ecologiche di microrganismi commensali, simbiotici e patogeni che

condividono letteralmente il nostro spazio corporeo (Lederberg, 2000). I microbi, attraverso i costituenti cellulari codificati dai loro genomi,

svolgono numerose funzioni dinamiche in cambio di nutrienti estratti dai nostri ambienti corporei (Dominguez-Bello e coll., 2010; Hooper e Macpherson, 2010):

➢ protezione contro l’aggressione dei patogeni ambientali;

➢ funzioni metaboliche (costituiscono una fonte di energia tramite la fermentazione);

➢ sviluppo del sistema immunitario innato ed adattivo e mantenimento della tolleranza immunitaria;

➢ regolazione del transito ed estrazione di energia dal cibo mediante la produzione degli acidi grassi a catena corta (SCFAs);

95 ➢ influenzano diverse vie del metabolismo dei carboidrati e dei lipidi,

ed in particolare l’accumulo di grasso negli adipociti e la

gluconeogenesi intestinale.

Quando questa condizione di equilibrio (eubiosi) è compromessa o alterata (disbiosi), si verifica l’interazione tra cellule immunitarie e microorganismi, e il microbiota dell’intestino può contribuire all’instaurarsi di malattie infettive e innescare malattie autoimmuni (Honda e Littman, 2012).

Poiché studi recenti evidenziano che i pazienti affetti da AR subiscono cambiamenti significativi nel microbiota intestinale rispetto ai soggetti sani (Diamanti e coll., 2016), mostrando una riduzione nella quantità di specie di Bifidobacterium e Lactobacillus (Abhari e coll., 2016), e che l’alterato metabolismo dell’insulina (dovuto a modificazioni delle secrezioni degli ormoni intestinali GLP-1 e GIP), l’innalzamento degli indici di infiammazione e lo stress ossidativo, giocano un ruolo importante nella patogenesi dell’AR (Maruotti e coll., 2015; Geronikaki e Gavales, 2006) (in quanto a loro volta comporterebbero un aumento del rischio di morte, di eventi cardiovascolari [Avina-Zubieta e coll., 2008], di diabete mellito di tipo 2 del 68% negli uomini e del 45% nelle donne [Su e coll., 2013]), è stata eseguita una ricerca per determinare gli effetti dell’integrazione

simbiotica sui parametri clinici e metabolici in pazienti con AR. Con il termine simbiotici si fa riferimento a degli integratori nutrizionali

che combinano probiotici e prebiotici in una forma di sinergismo (de Vrese e Schrezenmeir, 2008). Diversi studi hanno dimostrato che gli effetti sinergici della supplementazione simbiotica sulla microflora intestinale e fecale e sul SI, sono significativamente maggiori rispetto ai benefici della

96 sola integrazione con un probiotico o con un prebiotico (Frece e coll.,

2009; Worthlly e coll., 2009). La somministrazione di simbiotici ha mostrato di:

- ridurre per 8 settimane i sintomi infiammatori in pazienti con diabete mellito di tipo 2 (Akram e coll., 2015). Numerosi studi hanno evidenziato che nei pazienti diabetici il microbiota intestinale è alterato, in termini di riduzioni delle concentrazioni dei batteri ad azione antinfiammatoria (quali Bifidobacterium e Faecalibacterium prausnitzi) e aumento dei batteri patogeni opportunisti. Una molecola chiave coinvolta nella genesi dell’infiammazione e delle malattie metaboliche è il liposaccaride (LPS), una potente molecola pro infiammatoria presente nella parete dei batteri gram-negativi e liberata nell’intestino con la loro morte. L’aumento della concentrazione plasmatica di LPS è inteso come endotossiemia metabolica: è possibile che la rottura della barriera della mucosa intestinale, con conseguente assorbimento di componenti batteriche, sia alla base dell’endotossiemia metabolica propria del diabete di tipo 2; - migliorare, per 28 settimane in pazienti con la sindrome

metabolica, gli indici di resistenza all’insulina, i livelli di colesterolo totale e HDL, mentre i valori del colesterolo LDL sono rimasti invariati (Eslamparest e coll., 2014);

- migliorare il metabolismo del glucosio, i profili lipidici, e i fattori infiammatori attraverso la modifica della flora intestinale, la riduzione dei livelli di endotossina ed aumento del pH fecale inibendo la produzione di citochine pro infiammatorie (Li e coll.,

97 2003) e producendo acidi grassi a corta catena (Compare e coll., 2012).

5.1.1 Studio clinico

Da settembre 2016 a dicembre 2016 è stato eseguito uno studio clinico, randomizzato, in doppio cieco, condotto tra 54 pazienti con AR diagnosticata da almeno 6 mesi (Reneses e coll., 2012), con attività della malattia moderata e grave (punteggio di attività della malattia-28 articolazioni: DAS28 >3), di età compresa tra 25 e 70 anni (Pereira e coll., 2003). Sono stati esclusi dallo studio pazienti con insufficienza renale cronica, con diabete mellito, donne in gravidanza o in allattamento, pazienti in trattamento con antibiotici, ipoglicemizzanti e coloro che assumevano integratori di vitamina A/C, probiotici, simbiotici e antiossidanti. Inizialmente i partecipanti sono stati divisi in due gruppi: braccio simbiotici (n = 27) e braccio placebo (n=27) per 8 settimane. Al gruppo di trattamento è stata somministrata una capsula sintetica contenente Lactobacillus Acidophilus Lactobacillus Casei e Bifidobacterium Bifidum + 800 mg di inulina, al gruppo placebo, invece, amido ma senza batteri; l’aspetto del placebo non era distinguibile dalla capsula del simbiotico in colore, forma, dimensione, confezione, olfatto e sapore. Inoltre, i pazienti sono stati invitati a non modificare la loro routine di attività fisica ed a non assumere integratori che avrebbero potuto influenzare

il loro stato nutrizionale durante le otto settimane di trattamento. Per la valutazione delle misure antropometriche, peso e altezza sono stati

determinati prima e dopo le otto settimane di trattamento, a digiuno, da un membro del personale autorizzato; il BMI è stato calcolato utilizzando le

98 Gli endpoint primari includevano i fattori infiammatori e il DAS28; mentre gli endpoint secondari erano rappresentati dal metabolismo dell’insulina, la concentrazione dei lipidi e i biomarcatori dello stress ossidativo. Durante lo studio non sono stati riportati effetti collaterali, nei pazienti con AR, dopo l’assunzione del simbiotico. Terminate le otto settimane di trattamento, l’integrazione con il simbiotico, rispetto al placebo, ha avuto effetti benefici su sintomi clinici, insulina sierica e valori di proteina C reattiva ad alta sensibilità (hs-CRP), ha migliorato il DAS28, innalzamento dei livelli plasmatici di ossido nitrico e aumento nel plasma di glutatione (GSH). Tuttavia, non ha influenzato i parametri di omeostasi glicemica e i

biomarcatori di stress ossidativo (Zamani e coll., 2016). Per confermare i risultati sopracitati sono necessari ulteriori studi per valutare

l’espressione genica correlata ai marcatori infiammatori e all’insulina, per chiarire l’esatto ruolo del microbiota nello sviluppo delle malattie autoimmuni, dato che i meccanismi corretti coinvolti nella disbiosi e nella rottura della barriera epiteliale dell’intestino sono attualmente sconosciuti, in modo tale da avere a disposizione nuovi approcci terapeutici per trattare le malattie autoimmuni.

5.1.2 Studi condotti su modelli animali privi di germi

Sono stati condotti diversi studi per affermare l’importanza del microbiota intestinale per il corretto funzionamento del sistema immunitario, sfruttando esperimenti che hanno messo a confronto animali allevati in assenza di germi con animali in gabbie convenzionali (Figura 15). Si è ricorso a questo metodo anche per valutare l’influenza dei batteri intestinali come fattori scatenanti l’artrite infiammatoria in vari modelli animali sensibili (Hyrich e Inman, 2001).

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Figura 15:

Modelli animali utilizzati per condurre gli studi clinici. [Scher and Abramson, 2011].

La prima descrizione del coinvolgimento della flora batterica nell’AR, avvenne alla fine degli anni ’70, quando i ratti allevati in condizioni privi di germi svilupparono un’infiammazione articolare grave, mentre i controlli in condizioni standard mostrarono una malattia lieve a bassissima incidenza (Kohashi e coll., 1979). Ciò suggerisce che, nonostante un microbiota non sia necessario per lo sviluppo dell’AR, la sua presenza ha un potenziale effetto soppressivo attraverso la modulazione della risposta immunitaria (figura 16). Inoltre, il sistema immunitario umorale non costituisce un prerequisito per l’AR, poiché i ratti esenti da germi non producono specifici autoanticorpi, eppure sviluppano una malattia clinica. In un altro modello di ratto, con artrite indotta da streptococco, gli animali allevati in condizioni standard resistono all’infiammazione delle articolazioni, mentre

100 i ratti esenti da germi sono diventati sensibili alla malattia artritica, principalmente attraverso la perdita di tolleranza delle cellule T, attivando perciò la risposta infiammatoria. Questi risultati supportano il concetto che l’infiammazione intestinale e articolare sono interconnesse e il ruolo della flora intestinale commensale sarebbe quello di stabilizzare la riposta immunitaria (Bjork e coll., 1994).

Figura 16:

Ruolo e meccanismo immunitario del microbiota nell’omeostasi. (Maynard et al., 2012).

101 Sebbene il microbiota si stabilisca precocemente nei primi mesi di vita, esso si modifica nel corso degli anni, variando con l’età, la dieta, la gravidanza, l’uso di farmaci, e in presenza di stati patologici (Martin e coll., 2010;

Dominguez-Bello e coll., 2010). La colonizzazione batterica è fondamentale nello sviluppo e nella funzione

del sistema immunitario e contribuisce a mantenere l’omeostasi nel tratto gastrointestinale (sterile alla nascita e successivamente popolato da microorganismi provenienti da fonti diverse) (Dominguez-bello e coll., 2010). La mucosa intestinale viene, quindi, a contatto con un numero di antigeni non indifferente e pertanto è fondamentale la presenza di difese che assicurino un’adeguata protezione immunitaria. Il sistema immunitario intestinale è essenzialmente formato dalle placche di Peyer, all’interno delle quali abbondano linfociti B e altre cellule APC (cellule presentanti l’antigene,come

i macrofagi e le cellule dendritiche) e da follicoli linfoidi isolati. Le cellule dendritiche sono delle cellule immunitarie che si trovano sotto alle

cellule epiteliali che rivestono il colon, e che attraverso i dendroni raggiungono il lume colico e ne controllano il transito. L’interazione tra le cellule dendritiche e i batteri patogeni porta all’attivazione del SI o dei meccanismi di tolleranza. Inoltre, le cellule dendritiche riconoscono strutture antigeniche condivise tra diversi gruppi di virus e batteri, attraverso delle proteine di membrana chiamate “toll-like receptors” (TLR) e stimolano l’immunità innata: legandosi ai virus o ai batteri portano all’attivazione di NF-kB e dell’interferone di tipo I, che è fondamentale in quanto induce la trasduzione di una serie di geni chiamati ISG (Interferon Stimulated Genes) ad azione specifica contro, appunto, virus e batteri. Le cellule dendritiche una volta captato l’antigene mediante le proteine TLR, lo processano e lo presentano ai linfociti T, stimolando la risposta T cellulare (Medicina Multidisciplinare, 2016). Questa può essere di tipo Th1 (flogosi mediata da

102 cellule T), Th 2 (flogosi mediate dalle cellule B), Th 17 o T reg . I linfociti T regolatori bloccano la risposta infiammatoria e impediscono che altri meccanismi di lesione si possano innescare (Atarashi e coll., 2011; Atarashi e coll., 2013). In questo processo svolgono un ruolo importante il fattore di crescita trasformante (TGF)-β e la linfopoietina timica stromale (TSLP) che esiste in due isoforme: “short” e “long”. La prima si trova nella mucosa, nelle cellule epiteliali e nelle cellule della lamina propria dove ha un’azione antiinfiammatoria e determina, infatti, una riduzione significativa dell’interferone (IFN)-γ e di altre citochine pro infiammatorie come l’interleuchina (IL)-6, il fattore di necrosi tumorale (TNF)-α e l’IL-1β. La forma “long”, invece, ha un effetto pro infiammatorio e porta ad un aumento

dei livelli di IFN-γ (Medicina Multidisciplinare, 2016).

5.1.3 Applicazione di probiotici e prebiotici nell’AR

I risultati emersi dagli studi condotti per testare l’applicazione dei probiotici come adiuvanti nelle malattie autoimmuni e quindi anche nell’AR, hanno associato la disbiosi intestinale alla patogenesi della malattia, ipotizzando che le superfici della mucosa intestinale potrebbero rappresentare un sito di innesco di autoimmunità e di generazione di un nuovo antigene in condizioni

disbiotiche (Gareau e coll., 2010) . Secondo l’OMS i probiotici sono degli “organismi vivi che, somministrati in

quantità adeguate, apportano un beneficio alla salute dell’ospite”; quindi un buon probiotico deve contenere organismi vitali in alte concentrazioni (Gareau e coll., 2010). Le prime ricerche effettuate da Kato et al.(1998) hanno dimostrato che la somministrazione orale di Lactobacillus casei vivi prevengono l’insorgenza dell’artrite, hanno un effetto immunosoppressivo

103 sulle citochine pro infiammatorie ed è stato anche osservato un loro effetto benefico sulle pareti della mucosa intestinale con notevole riduzione dello stato infiammatorio. Più di recente il trattamento orale giornaliero di pazienti affetti da AR, con Lactobacillus casei per 8 settimane, ha portato ad una riduzione nel siero degli indici di malattia artritica acuta ( proteina C reattiva,

IL-6, IL-12 e TNF-α) (Alipour e coll., 2014). In uno studio clinico randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo,

in 60 pazienti con AR, Lactobacillus casei non ha dimostrato alcun miglioramento dei lipidi sierici (Vaghef-Mehrabany e coll., 2017) valutati

come marker dell’infiammazione sistemica. In una meta-analisi di nove studi (n = 361) l’uso dei probiotici, a differenza

del placebo, ha portato ad una riduzione dei livelli di citochine pro infiammatorie in pazienti affetti da AR, tuttavia non è stata rilevata alcuna differenza tra probiotici e placebo nel punteggio di attività della malattia e l’effetto clinico dei probiotici è rimasto poco chiaro. Infatti secondo gli studiosi devono essere effettuate altre ricerche per dimostrarne l’effetto (Mohammed e coll., 2017), dato che i probiotici costituiscono una strategia terapeutica nell’AR grazie alle loro possibili interazioni con il microbioma. Buoni risultati si prospettano anche in seguito all’assunzione dei prebiotici: sono prevalentemente polisaccaridi, che non possono essere digeriti dall’intestino umano e dagli enzimi prodotti dal pancreas, ma vengono modificati da alcuni batteri che costituiscono il microbiota (Bedaiwi e Inman, 2014). L’obiettivo della somministrazione del prebiotico è, quindi, quello di favorire lo sviluppo della popolazione batterica che costituisce il microbiota.

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