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Nuove strategie terapeutiche nel trattamento dell'artrite reumatoide

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Academic year: 2021

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D

IPARTIMENTO DI

F

ARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

TESI DI LAUREA

NUOVE STRATEGIE TERAPEUTICHE NEL TRATTAMENTO DELL’ARTRITE REUMATOIDE

Relatore:

Maria Cristina Breschi

Candidata Erica Strenna

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2 A nonna Carmela, la mia guida spirituale, la donna più forte che abbia mai

conosciuto. A lei che ha sempre creduto in me, fino alle fine. Oggi mi sosterrai da lassù, ne sono certa!

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3 INDICE INTRODUZIONE 6 1.ARTRITE REUMATOIDE 8 1.1Origine ed epidemiologia 8 1.2 Patogenesi 9

1.2.1 Fase di pre artrite 10

1.2.2 Fase di transizione 15

1.2.3 Fase clinica 15

1.3 Sintomi e diagnosi 23

1.4 Valutazione dell’AR 28

1.4.1 Indici articolari 29

1.4.2 Indici compositi di attività di malattia 30

1.4.3 Indici di miglioramento 30

1.4.4 Criteri di remissione 31

2. TERAPIA FARMACOLOGICA STANDARD PER IL TRATTAMENTO DELL’ARTRITE REUMATOIDE 33

2.1 Farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS) 34

2.2 Farmaci anti reumatici che modificano la malattia (DMARD) 36

2.2.1 Metotrexato 38

2.2.2 Leflunomide 41

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4

2.2.4 Azatioprina 44

2.2.5 Ciclosporina 45

2.2.6 Sali d’oro 46

2.3 Glucocorticoidi 49

3. FARMACI BIOTECNOLOGICI UTILIZZATI PER IL TRATTAMENTO DELL’ARTRITE REUMATOIDE 50

3.1 Farmaci biotecnologici di prima generazione 51

3.2 Farmaci biotecnologici di seconda generazione 54

3.3. Tocilizumab 57

3.3.1 Proprietà farmacodinamiche 57

3.3.2 Effetti indesiderati e reazioni avverse osservate negli studi clinici controllati 58

3.3.3 Sicurezza cardiovascolare 63

3.3.4 Efficacia e sicurezza clinica 64

3.3.5 Risposta clinica 66

3.3.6 Risposta radiografica 67

3.3.7 Risultati correlati alla salute e alla qualità di vita 69

3.4 Tocilizumab versus Adalimumab in monoterapia 69

3.5 Tocilizumab + MTX 71

4. SARILUMAB 73

4.1 Effetti farmacodinamici 75

4.2 Studi a sostegno dell’efficacia terapeutica 75

(5)

5

4.4 Effetti indesiderati e reazioni avverse negli studi clinici controllati 80

4.5 Sarilumab versus Tocilizumab 87

5. LA DIETA E L’INTEGRAZIONE ALIMENTARE COME TERAPIA COADIUVANTE PER IL TRATTAMENTO DELL’AR 91

5.1 Gli effetti dell’integrazione simbiotica sui pazienti affetti da AR 94

5.1.1 Studio clinico 97

5.1.2 Studi condotti su modelli animali privi di germi 98

5.1.3 Applicazione di probiotici e prebiotici nell’AR 102

6. CONCLUSIONE 104 7. BIBLIOGRAFIA 106 8. SITOGRAFIA 127 9. GLOSSARIO 128 Ringraziamenti

(6)

6

Introduzione

Il presente lavoro di tesi ha avuto come obiettivo cardine quello di studiare strategie farmacologiche innovative per il trattamento dell’artrite reumatoide focalizzando l’attenzione sui farmaci “biologici” (capitolo 3), ed in particolare sul Sarilumab (capitolo 4), approvato in UE nel giugno 2017, di cui sono stati approfonditi gli aspetti farmacocinetici e farmacodinamici, l’efficacia terapeutica ed i possibili effetti avversi in seguito alla somministrazione durante gli studi clinici. È stato altresì interessante, realizzare un confronto con il primo anticorpo monoclonale umanizzato bloccante l’IL-6, nonché il Tocilizumab, approvato in UE nel gennaio 2009. Nel primo capitolo, sono state delineate le peculiarità dell’artrite reumatoide, una malattia infiammatoria autoimmunitaria, caratterizzata dal coinvolgimento poliarticolare simmetrico e talvolta da manifestazioni sistemiche, la cui patogenesi vede il coinvolgimento di numerosi fattori: ambientali, genetici, ormonali e virali, e la cui diagnosi viene effettuata utilizzando dei criteri proposti dall’American College of Rheumatology e tramite esami di laboratorio che permettono di valutare il grado di attività

della malattia. Prima di far luce sui nuovi approcci terapeutici, nel capitolo 2, ho illustrato

la terapia farmacologica standard che prevede la somministrazione di antiinfiammatori, glucocorticoidi e antireumatici, ovvero DMARDs (Disease Modifying Anti Rheumatic Drug: farmaci antireumatici che modificano la malattia). Essa rappresenta il primo “step” di trattamento della malattia ed ha come scopo primario quello di massimizzare a lungo termine la qualità della vita attraverso il controllo dei sintomi, la prevenzione del danno strutturale, la normalizzazione della funzione e della

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7 partecipazione sociale. Nonostante un adeguato trattamento con un DMARD, alcuni pazienti hanno mostrato un’artrite reumatoide persistentemente attiva, rendendo quindi necessario lo sviluppo di farmaci “biologici” ottenuti mediante biotecnologie mirati ai meccanismi patogenetici della malattia e che hanno rivelato notevole e rapida efficacia, superiore ai trattamenti convenzionali, sia in monoterapia che in combinazione con un DMARD, anche se il loro uso è gravato da costi elevati e da possibile tossicità. Infine, nel capitolo 5, è stato visto come la dieta e l’integrazione alimentare (intese come trattamento alternativo a quello farmacologico) possano contribuire a migliorare i sintomi della malattia. Sono stati, perciò, analizzati gli effetti di una supplementazione probiotica, prebiotica e simbiotica, tramite la consultazione di pubblicazioni scientifiche e dei relativi studi clinici.

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8

1. ARTRITE REUMATOIDE

L’artrite reumatoide è una patologia cronica autoimmune, con eziologia sconosciuta, che interessa prevalentemente la sinovia articolare spesso in maniera evolutiva e distruttiva ma sono comuni anche manifestazioni extra articolari che possono coinvolgere altri organi e tessuti (Firestin, 2003). Essa è caratterizzata da rigidità muscolare mattutina (inizialmente colpisce le articolazioni mobili in maniera simmetrica, come la spalla, l’anca, il ginocchio e la mano), da sinovia infiammata che provoca la formazione del cosiddetto “panno sinoviale” che distrugge le strutture articolari locali, da progressiva disabilità e da conseguenze sistemiche quali stanchezza, anemia, disturbi cardiovascolari, polmonari e psicologici (Firestin, 2003; Bradfield, 2003).

1.1 Origine ed epidemiologia

È un’antica malattia scoperta in tribù del Nord America intorno al 1500 quando perfino la caratteristica distintiva dell’artrite reumatoide, quale erosione dell’interfaccia ossea e della cartilagine, era assente in tutti i loro esami diagnostici . Sono state analizzate diverse forme di artrite come osteoartrite, gotta e spondilite anchilosante e solo nel 1676 fu rilasciato il primo case report dai maestri orlandesi e da Sydhenam (considerato uno dei padri della medicina inglese). Nel 1859 l’artrite è stata definita “reumatoide” da Garrod ed è stata differenziata dalla febbre reumatica e dalla gotta. Tuttavia nel 1957 Charles Short l’ha chiaramente distinta da osteoartrite, spondilo artropatia, lupus eritematoso sistemico e malattia cristallo indotta

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9 (Aceves-Avila e coll., 1998) che si verifica in seguito al deposito di cristalli di pirofosfato di calcio diidrato in sede intra e/o extra articolari con manifestazioni proteiformi, variando da lievi attacchi fino a crisi intermittenti di artrite acuta, chiamata pseudogotta, e un’artropatia degenerativa spesso grave, la cui diagnosi richiede poi l’identificazione di

tali cristalli nel liquido sinoviale. Le malattie reumatiche e osteoarticolari sono molto diffuse nella

popolazione italiana: secondo quanto riportato dall’Indagine Multiscopo Istat 2010, artrite e artrosi colpiscono il 17,3 % della popolazione; inoltre i dati Istat confermano l’aumento di prevalenza delle principali malattie reumatiche con le donne colpite più degli uomini (22.1% di artrite/atrosi nelle donne vs 12,1% negli uomini); nella popolazione anziana l’incidenza tra i due sessi è simile. Sebbene la malattia colpisca tutte le età, dall’età infantile (2-3 anni) a quella senile (oltre 80 anni), il periodo di maggiore incidenza è tra i 40 e i 60 anni. L’ultima indagine (Ministero della Salute, 2011) ha rivelato un’incidenza annuale di 40/100 mila casi di artrite reumatoide in tutto il mondo e solo in Italia nel 2009 sono stati effettuati circa 159 mila interventi di sostituzione protesica, di cui il 58% di interventi di protesi d’anca, il 39% di ginocchio, il 2% di spalla e l’1 % di interventi su articolazioni minori.

1.2

Patogenesi

Le cellule immunitarie ed i mediatori dell’infiammazione rivestono un ruolo cruciale nella patogenesi dell’artrite reumatoide che coinvolge diversi fattori, tra cui influenze sia genetiche che ambientali, processi infettivi,

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10

alcuni alimenti e l’assunzione di estroprogestinici. E’ possibile distinguere tre differenti fasi di progressione (Molness e coll.,

2011):

• Fase di pre-artrite (o fase pre-clinica) • Fase di transizione

Fase clinica

1.2.1 Fase di pre artrite

E’ stato supposto che, nella storia naturale della malattia, esista una fase iniziale particolarmente sensibile al trattamento farmacologico durante la quale il processo infiammatorio non ha ancora danneggiato

irrimediabilmente le strutture articolari, non sono presenti i sintomi ma

sono rilevabili alterazioni di laboratorio del sistema immunitario. I fattori genetici contribuiscono allo sviluppo di artrite reumatoide per il

50-60%: particolarmente responsabili sono i geni del sistema di

istocompatibilità HLA di classe II (Gough e Simmonds, 2007); il locus HLA (Human Leukocyte Antigen, antigene leucocitario umano) maggiormente coinvolto è HLA-DRB1. A livello della terza regione ipervariabile della catena beta1 di HLA-DRB1, in posizione 70-74, la presenza della sequenza aminoacidica Shared Epitope (SE), è associata ad elevata suscettibilità di artrite reumatoide. Gli alleli SE sono per lo più associati alla variante di artrite reumatoide sieropositiva per anticorpi anti-peptide ciclico citrullinato (anti-CCP); la correlazione positiva tra alleli SE e fattore reumatoide è secondaria all’associazione con anticorpi anti-CCP. Inoltre i geni SE sembrano esaltare la risposta immunitaria verso proteine

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11 citrullinate con conseguente aumento della produzione di anticorpi anti-CCP e risultano anche correlati ad una elevata attività della malattia, ad un più alto rischio di sviluppo di sinovite erosiva e a maggiore frequenza di

manifestazioni sistemiche (Farouk e coll., 2009; Carrier e coll., 2009). Di contro la sequenza aminoacidica “DEERA” svolge un’azione protettiva,

ma solo in assenza di erosioni, nei confronti dello sviluppo di entrambe le forme di artrite reumatoide (sieropositiva per anti-CCP e sieronegativa) anche in caso di contemporanea presenza degli alleli SE, e risulta essere associata ad una minore attività di malattia in pazienti con AR in fase “early” (precoce) (Feitsma e coll., 2008; Carrier e coll., 2009), ovvero

diagnosticata entro i dodici mesi dall’insorgenza dei primi sintomi. Un altro locus HLA fortemente correlato allo sviluppo di artrite reumatoide

sieronegativa è HLA-DR3. (Verport e coll., 2005). Secondo quanto riportato da diversi studi i geni HLA contribuiscono per il

30-40% al progresso della malattia (Verport e coll., 2005); d’altra parte esistono geni non HLA che hanno una attività predisponente verso l’AR, quali ad esempio:

• Protein Tyrosine Phosphatase Non Receptor 22 (PTPN22) la quale codifica per la proteina intracellulare LYP (Lymphoid Tyrosine Phosphatase) che media la trasduzione del segnale ed è un potente inibitore dell’attivazione delle cellule T; aumenta il rischio per

fattore reumatoide e anticorpi anti-CCP del 40-70%. L’ipotesi patogenetica più accreditata è che PTPN22 inibisca la

delezione clonale (processo attraverso il quale i linfociti T immaturi, che possiedono un’elevata affinità per gli antigeni self, vengono eliminati per apoptosi) delle cellule T durante la selezione timica. (De Vries e coll., 2005; Lee e coll., 2005).

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12 • 18q21: codifica per Receptor Activator of Nuclear Factor kb

(RANK) coinvolto nella differenziazione degli osteoclasti nei siti di flogosi e nell’erosione ossea associata ad AR (Turesson e Matteson,

2006).

• Tumor Necrosis Factor Receptor-Associated Factor 1-C5 (TRAF1-C5) fortemente responsabile di AR anti-CCP positiva (Plenge e coll., 2007).

• Interferon Regulatory Factor 5 ( IRF5) particolarmente associato ad AR sieronegativa per anticorpi anti-CCP (Dieguez-Gonzalez e coll., 2008).

• Signal Transducer and Activator of Transcription 4 (STAT4) è considerato un fattore di rischio per AR e per LES, codifica per un fattore di trascrizione interferon gamma e altre citochine pro infiammatorie (Renners e coll., 2007).

• Delezione d32 di Chemokine Receptor Type 5 (CCR5d32): le chemochine e i loro recettori mediano la migrazione linfocitaria nei siti di flogosi in corso di infezioni e autoimmunità. In particolare le CC-chemochine ( RANTES, MIP1alfa e beta, MCP-1) sono espresse ad elevata concentrazione sulla membrana sinoviale di pazienti con AR. Tale delezione ha mostrato un’efficace riduzione della suscettibilità allo sviluppo di artrite reumatoide, minor rischio di erosioni articolari e azione protettiva anche verso altre patologie autoimmuni quali LES, morbo di Crohn e sclerosi multipla (Rossoll e coll., 2009).

Un marker biologico altamente specifico di AR è rappresentato dagli anticorpi ACPA (anticorpi anti-peptidi citrullinati) che possono essere

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13 presenti per anni prima dell’insorgenza conclamata dell’AR in soggetti a rischio, infatti una percentuale molto elevata di pazienti affetti da questa

patologia è sieropositiva a tali anticorpi (Klitz e coll., 2003). Svariati studi sostengono l’interazione geni-ambiente: il fumo di sigaretta

e altre sollecitazioni bronchiali, quale ad esempio l’esposizione e il contatto con la silice e/o con asbesto, aumentano il rischio di AR tra persone con alleli di suscettibilità HLA-DR4; per di più il sinergismo fumo di sigaretta e allele HLA-DRB1 predispone alla possibilità di avere ACPA (Klareskog e coll., 2006). Un enzima responsabile delle modificazioni post- traslazionali, a causa degli stress ambientali, è il peptide arginina deaminasi tipo IV che è responsabile della citrullinazione delle proteine della mucosa. La perdita della tolleranza a questi nuovi epitopi determina una risposta agli ACPA che può essere rilevata tramite un saggio diagnostico dell’anti- cyclic citrullinated peptide (De Ricke e coll., 2004) che riconosce varie proteine self citrullinate come cheratina, fibronectina, fibrinogeno, collagene, alfa enolasi e vimentina. Tra il 44 e il 64% dei pazienti con AR positiva agli ACPA sono sieropositivi per l’alfa enolasi citrullinata che è fortemente associata con HLA-DRB1*04, PTPN22 e il fumo; interazioni simili sono riportate anche per gli epitopi della vimentina e del fibrinogeno citrullinati (Alam e coll., 2017).

Fumo

In uno studio condotto su una coorte di 277.777 soggetti di sesso maschile il rischio relativo di sviluppo di AR determinato dal fumo è stato stimato intorno a 2,122 (Carlens e coll., 2010); in un altro studio caso-controllo condotto su 679 casi e 847 controlli, il fumo di sigaretta è stato associato ad aumento del rischio di artrite reumatoide sieropositiva in entrambi i sessi

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14

Smog

Recentemente è stato individuato lo smog tra i possibili fattori ambientali inquinanti come causa di AR (Hart e coll., 2009): uno studio condotto su 9000 soggetti in Taiwan ha evidenziato una prevalenza di AR in soggetti residenti in aree urbane o suburbane rispetto ai residenti in aree rurali (Chou e coll., 1994).

Oli industriali

Altri potenziali fattori scatenanti l’AR sono gli oli industriali che si sono dimostrati capaci di provocare artrite nei roditori. Sono stati esaminati in uno studio caso controllo eseguito su 1419 casi e 1674 controlli: il rischio relativo di sviluppo di AR associato all’esposizione ad oli industriali è risultato pari a 1,3; molto più elevato in pazienti sieropositivi per fattore reumatoide o per anticorpi anti-peptide ciclico citrullinato, invece non è risultato correlato a positività per alleli HLA-SE (Sverdreup e coll., 2005).

Virus

Alcuni agenti infettivi quali ad esempio il virus di Epstein-Barr, il citomegalovirus, specie proteus ed Escherichia coli, possono determinare l’insorgenza di AR attraverso numerosi meccanismi: mimetismo molecolare, produzione di neoantigeni, formazione di immunocomplessi, attivazione dei linfociti T autoreattivi e delle cellule presentanti l’antigene. (Meron e coll., 2010). Particolarmente responsabili sono le infezioni causate da Parvovirus B19, Virus della rosolia, HBV, EBV e Porphyromonas gingivalis, associato alla malattia periodontale, esprime PADI4 capace di promuovere la citrulli nazione di proteine di mammifero (Auger e Roudier. 1997). Tuttavia l’effettivo aumento del rischio relativo di AR sostenuto da agenti infettivi, non è stato determinato in maniera definitiva, né tanto meno è stato dimostrato il ruolo protettivo nei

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15 confronti dello sviluppo dell’AR degli alimenti ricchi in omega 3 e da un’elevata assunzione di vitamina D, contrariamente al caffè che sembra, invece, aumentare la suscettibilità della patologia anti-CCP positiva (Pedersen e coll., 2006).

Ormoni

E’ stato ipotizzato che il progesterone riduca il rischio di artrite reumatoide anche se alcuni studi sostengono che gli estroprogestinici più che prevenire lo sviluppo della malattia ne ritardano l’espressione clinica (Hamaford e coll., 1990).

1.2.1 Fase di transizione

E’ nella fase transitoria della malattia che si verifica la perdita sistemica di tolleranza correlata all’esordio del processo infiammatorio a livello delle articolazioni. L’attuazione di tale fase è indotta, probabilmente, da microtraumi, infezioni e fattori ormonali e/o psicologici, con conseguente attivazione del sistema immunitario innato ed adattivo e passaggio, quindi, alla fase clinica.

1.2.2 Fase clinica

Il sistema immunitario adattivo assume una funzione fondamentale nei primi mesi della patogenesi dell’artrite reumatoide. Lo stadio iniziale è rappresentato dalle cellule del sangue e dai tessuti che riconoscono

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16 l’antigene e lo “presentano” ai linfociti deputati alla nostra difesa sia da agenti esterni che interni. Se l’individuo è predisposto si avrà una risposta infiammatoria immuno-mediata attraverso la produzione di citochine responsabili dell’infiammazione principalmente a livello della membrana sinoviale, dove sono state trovate, in gran numero, le cellule T anche se il loro ruolo funzionale rimane non sufficientemente compreso (Elshabrawy e coll., 2015). Si pensa, appunto, che l’AR sia causata dalle cellule T, specialmente di tipo 1, anche se recentemente l’attenzione è stata posta sulla cellula T helper tipo 17 (Th17), una sottoclasse capace di produrre IL-17A, IL-17F, IL-21, IL-22 e TNF-α. Sono state identificate anche cellule T autoreattive contro le proteine self citrullinate, le cellule T natural killer (NKT), le cellule T regolatorie (T-regs) e un sottogruppo di ex-TH17, potenti produttori di citochine pro infiammatorie, resistenti all’inibizione

cellulare di T regs (Cantaert e coll., 2009). Il normale tessuto sinoviale, di origine mesenchimale, si compone di tre

strati (Smith e coll., 2003) :

➢ INTIMALE, costituito dai sinoviociti che possono essere di due tipi: cellule secretive con reticolo endoplasmatico rugoso alquanto sviluppato e cellule ricche di mitocondri e vacuoli che hanno la funzione di fagocitare i dedriti. Non sono saldate tra di loro, pertanto avremo cellule dette di tipo A o M ( macrofagiche) e di tipo B, simili a fibroblasti, che secernono proteine nel liquido sinoviale. Esso è un fluido bianco che deve la sua viscosità ad una glicoproteina, la mucina, ed ha la funzione di dissipare il calore,

lubrificare le articolazioni e nutrire la cartilagine. Un notevole accumulo di liquido sinoviale comporta tumefazione e

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17 ➢ SUB-INTIMALE, tessuto connettivo lasso, ricco di vasi sanguigni

che servono alla produzione del liquido sinoviale;

➢ SUB-SINOVIALE è a contatto con la membrana sinoviale, più ricco di vasi sanguigni rispetto alla strato intermedio.

In un soggetto con AR la sinovia è ricca di cellule mieloidi (monociti, macrofagi, basofili, eosinofili, cellule dendritiche e magacariociti) e cellule dendritiche plasmatiche, ovvero cellule immunitarie innate che circolano nel sangue e negli organi linfoidi periferici producendo varie citochine (IL-12, IL-15, IL-18, IL-6,IL-32), molecole HLA tipo II e molecole

co-stimolatrici responsabili dell’attivazione della cellula T. I neutrofili sono per lo più presenti, invece, nel liquido sinoviale e

contribuiscono alla sinovite tramite sintesi di prostaglandine, di proteasi e di intermedi reattivi dell’ossigeno; la maturazione di altre cellule e il trasporto dal midollo osseo alla sinovia è mediato dal Macrophage colony-stimulating factor (M-CSF), dal granulocyte colony-colony-stimulating factor e dal granulocyte-macrophage colony-factor (GM-CSF) (Hamilton, 2015). Sono proprio i macrofagi, mediante il rilascio di citochine (TNF-α, interleuchina 1, 6, 12, 15, 18 e 23), intermedi reattivi dell’ossigeno e dell’azoto, produzione di prostanoidi, di enzimi degradanti la matrice e fagocitosi, gli effettori centrali nella sinovite (Haringman e coll., 2005). Durante il processo infiammatorio è nota anche la presenza dei linfociti B, che producono il fattore reumatoide (che ha un’importanza peculiare nello sviluppo di una malattia più severa), si possono trovare sottoforma di

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18 aggregati di cellule T e B e sono supportati da un ligando che induce la proliferazione (APRIL) e da chemochine CC e CXC (quali ad esempio CXC ligand chemokine 14 e CC chemokine ligand 21) (Ohata e coll., 2005). Le chemochine e le citochine sono delle proteine che controllano il sistema immunitario, la cui regolazione è quindi molto importante per garantirne il corretto funzionamento poiché, un loro aumento o diminuzione, conduce a diverse malattie tra cui, appunto, l’AR, dove la

produzione è maggiore (Schett e Gravallese, 2012). Una citochina presente fisiologicamente nel nostro organismo, ma prodotta

in eccesso nelle articolazioni di pazienti con AR, è il fattore di necrosi tumorale alfa (TNFα), nonché uno dei principali mediatori dell’infiammazione tipica dell’AR (Brennan e McInnes, 2008). TNFα è prodotta principalmente dai macrofagi e da linfociti CD4+, da cellule natural killer, da neutrofili ed eosinofili ed è in grado di scatenare il processo di flogosi mediante l’attivazione di chemochine, di molecole di adesione delle cellule endoteliali, promuovendo l’angiogenesi e

sopprimendo le cellule T regolatorie (Hess e coll., 2011). Un’azione pro infiammatoria, che interessa sia il sistema immunitario

innato che adattivo (Kishimoto, 2005), è svolta dall’IL-6, una citochina pleiotropica coinvolta nella trasformazione da neutrofili a monociti a livello della membrana sinoviale dei pazienti con AR, e quindi nella transizione da infiammazione acuta a cronica (Dayer e Choy, 2010; Jansen, 1992). L’IL-6 è sintetizzata da cellule del sistema immunitario innato ed è la citochina più abbondante nella sinovia reumatoide. Induce, a livello epatico, la secrezione di proteine di fase acuta associate all’infiammazione sistemica, come la proteina reattiva C (PCR) (Heinrich e coll., 1990) comunemente usata come indicatore di infiammazione sistemica nell’AR, e l’epcidina, un ormone peptidico prodotto dal fegato, che regola il metabolismo del ferro.

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19 Poiché essa sopprime l’espressione del trasportatore di ferro, la ferroportina-1, inibendo quindi l’assorbimento e il rilascio di ferro, la sovrapproduzione di IL-6 può causare anemia. Inoltre IL-6 stimola le cellule T native a differenziarsi in T helper 17 (Kimura e Kishimoto, 2010; Belteni e coll., 2006) e la maturazione dei megacariociti a produrre piastrine con possibile induzione di trombosi; aumenta la produzione di IL-17 attraverso cellule ThIL-17 (Veldhoen e coll., 2006) e attiva i fibroblasti simili ai sinoviociti (FLS), determinando la produzione di anticorpi mediante la stimolazione delle cellule B (Navarro-Millan e coll., 2012). La funzione pleiotropica di IL-6 si esplica attraverso il legame al suo recettore, IL-6α (che esiste anche nella forma solubile, SiL-6R, presente nel liquido sierico e sinoviale), e co-recettore gp130, glicoproteina 130, attivando la via di segnalazione JAK/STAT delle Janus chinasi (JAK) e dei trasduttori

di segnale e attivatori di trascrizione (STATs) STAT1 e STAT3. Altre citochine espresse abbondantemente nell’AR sono le appartenenti alla

famiglia dell’interleuchina 1, interleuchina-1α, 1β, 18, 33, che promuovono l’attivazione dei leucociti, delle cellule endoteliali, dei condrociti e degli osteoclasti (Genovese e coll., 2014). Quest’ultimi sono delle cellule polinucleate, derivanti dalla linea monociti-macrofagi, a contatto con la matrice ossea, ben noti per la loro capacità di riassorbire l’osso erodendolo mediante enzimi di esocitosi e pH acido, a differenza degli osteoblasti che promuovono la formazione dell’osso. Il principale regolatore endocrino del rimodellamento osseo nell’adulto è l’ormone paratiroideo (PTH) che viene sintetizzato come prepro-PTH, processato a pro-PTH e infine trasformato completamente in forma attiva prima di essere secreto. Il recettore per il PTH è in grado di legare anche il peptide correlato al paratormone (PTHrP) e viene, quindi, definito recettore PTH/PTHrP che si trova sugli osteoblasti e a livello dei tubuli renali distali e prossimali. Un altro ormone

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20 fisiologicamente essenziale per il mantenimento dei normali livelli di calcio ematico è la 1,25-diidrossivitamina D. Il metabolismo osseo è pertanto regolato da fattori ormonali ma anche da fattori umorali e da citochine

(Udagawa e coll., 2000). Le citochine sinoviali, in particolar modo il macrophage colony-stimulating

factor ed il receptor activator of NF-kB ligand (RANKL), favoriscono la differenziazione e l’invasione degli osteoclasti della superficie periostale alla cartilagine articolare; attivazione di osteoclasti amplificata poi da TNF α e dalle interleuchine-1, 6 e 17. RANKL è, dunque, un mediatore essenziale per la formazione, la funzione e la sopravvivenza degli osteoclasti e viene prodotto non solo dal midollo osseo delle cellule stromali e dagli osteoblasti ma anche dalle cellule T (Anderson e coll., 1997). Influenzati dal PTH, gli osteoblasti secernono la citochina M-CSF per la quale i monociti possiedono un recettore specifico, il c-fms, e il recettore RANK, attivante dell’NF-kB (fattore nucleare di trascrizione che regola la produzione di molte citochine pro infiammatorie, presente sugli osteoclasti e su tutte le cellule della linea monocitaria). Sia RANKL che il suo recettore interagiscono con i monociti inducendoli a differenziare in osteoclasti. L’unione di più osteoclasti forma una cellula gigante ed attiva che provoca assorbimento e perdita di osso (Anderson e coll., 1997). Per interrompere l’interazione RANK-RANKL è necessario un finto recettore, l’osteoprotegerina (OPG), una glicoproteina prodotta dagli stessi osteoblasti, che legandosi a RANKL ne impedisce il legame con il corretto recettore RANK, inibendo in questo modo il riassorbimento osseo importante nella regolazione della degradazione ossea (Tyrovala e Odont 2015) (Figura 1).

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21

Figura 1: Le molecole RANKL, RANK e OPG sintetizzate dalle cellule

immunitarie (Boyle et al., 2003).

Recentemente è stata studiata la trombopoietina, una citochina che funziona a livello del controllo piastrinico, per l’espressione di OPG nel modello animale e ha mostrato risultati positivi (Bethel e coll., 2015). Il blocco di RANKL agisce solo sull’osso con nessun effetto

sull’infiammazione e sulla degradazione della cartilagine. E’ noto che la patologia si origina nel midollo osseo, in cui aggregati di

cellule T e B sostituiscono gradualmente il grasso midollare, e successivamente coinvolge la membrana sinoviale. L’erosione ossea avviene rapidamente, colpendo l’80% dei pazienti entro un anno dalla

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22 diagnosi, ed è associata con un prolungato aumento dell’infiammazione; per di più l’osso periarticolare eroso mostra scarse evidenze di riparazione

a differenza dell’osso in altre artropatie infiammatorie. Una componente essenziale dell’infiammazione sinoviale è l’angiogenesi,

lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni, che favorisce la migrazione dei leucociti nel tessuto sinoviale provocando distruzione di cartilagine ed ossa (Kennedy e coll., 2010); è strettamente controllata da citochine pro-infiammatorie e da fattori di crescita, incluse le angiopoietine 1 e 2, il fattore di crescita dei fibroblasti (FGF), delle piastrine (PDGF) (Kenney e coll., 2010; Ng e coll., 2010; Frasen e coll., 2001), IL-8, IL-1 e di particolare importanza è il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) (Tchetverikov e coll., 2005; Fearon e coll., 2001). Nonostante l’aumento dei nuovi vasi, la membrana sinoviale nell’AR rimane ipossica in vivo, con livelli di pO2 nel tessuto fino allo 0.46% inversamente correlati con le misurazioni cellulari e molecolari dell’infiammazione (Ng e coll., 2010). Indubbiamente l’ipossia gioca un importante ruolo nella patogenesi dell’AR: recentemente è stato dimostrato che causa disfunzione mitocondriale, invasione cellulare e formazione del “pannus” nella sinovia

con AR (Biniecka e coll., 2016). In condizioni di ipossia uno dei più importanti regolatori ipossia-inducibili

è il fattore di trascrizione 1 (HIF-1), eterodimero, costituito da due subunità HIF-1α e HIF-1. Alcuni studi hanno dimostrato che NF-kB, fattore trascrizionale chiave nell’AR, possa promuovere l’attivazione di HIF-α in

risposta a citochine pro-infiammatorie. Infine HIF-1 regola diversi geni, sia quelli codificanti enzimi coinvolti

nella glicolisi come ad esempio aldolasi A e C, lattato deidrogenasi A, esochinasi 1 e 3, portando ad una modificazione del metabolismo cellulare e ad un potenziamento del catabolismo anaerobico, e geni implicati nel

(23)

23 ristabilire i livelli di energia nelle cellule, come i trasportatori del glucosio GLUT-1 e GLUT-2 (Gao e coll., 2015).

1.3

Sintomi e diagnosi

Generalmente la sintomatologia dolorosa articolare è associata a rigidità presente in particolare al mattino, al risveglio, di lunga durata (almeno un’ora). Di solito l’esordio è poliarticolare, e tipiche sono le manifestazioni a livello dei polsi, delle piccole articolazioni delle mani,

metacarpofalangee, ovvero tra dorso della mano e dita, interfalangee prossimali, tra prima e seconda falange delle dita, delle articolazioni metatarsofalangee, tra dorso del piede e dita, e delle interfalangee prossimali dei piedi. Nelle mani è frequente la tenosinovite dei tendini estensori e dei flessori delle dita, che causa il cosiddetto “ dito a scatto”. L’infiammazione riguarda anche ginocchia, gomiti, caviglie, spalle, anche e comunque tutte le articolazioni sinoviali tra cui quelle della colonna vertebrale dove vi è una maggiore evidenza di alterazione patologica a livello cervicale (www.alomar.it)

(Fig.2).

(24)

24

Figura 2:

Articolazioni tipiche soggette ad infiammazione nell’artrite reumatoide. ( Google: Medicinafisica.it).

Tutte le articolazioni sopracitate sono dolenti e il dolore, la cui intensità può dipendere da variazioni climatiche e stagionali, è presente anche a riposo e si accresce in seguito a palpazione o movimento. Segni clinici caratteristici sono il gonfiore, causato dal versamento intra-articolare e dal processo infiammatorio sinovico (figura 3), l’arrossamento e il calore della pelle sovrastante le articolazioni interessate. Con il progredire della malattia la funzionalità articolare è compromessa prima dal dolore e successivamente dalla contrattura muscolare con conseguente anchilosi e

(25)

25 deformità articolare. Particolari deformazioni riguardano le dita della mano

(figura 4),

cosiddetta “ad asola” o “a collo di cigno”, la deviazione a Z del pollice e ulnare del polso; gli arti inferiori possono essere caratterizzati da ginocchia flesse e piede piatto con alluce valgo e dita “a martello” (www.alomar.it).

(26)

26

Figura 4:

Deformità delle dita e deviazioni delle articolazioni durante la fase tardiva dell’artrite reumatoide. (Indian J Ophtalmol, 2010).

Segni e sintomi generali sono accompagnati da conseguenze cliniche sistemiche: astenia, inappetenza, perdita di peso, anemia, coinvolgimento

(27)

27 della cute con formazione di noduli reumatoidi e vasculiti, dei muscoli, del sistema nervoso centrale e periferico, del polmone (pleuriti). Infine tra le manifestazioni extra-articolari, di notevole rilievo, è bene ricordare gli eventi cardiovascolari, legati ad un maggior rischio di

aterosclerosi presente nei pazienti con AR. Per quanto i sintomi siano abbastanza evidenti, il 25% circa dei soggetti

arriva allo specialista reumatologo quando la malattia è già in fase avanzata

e il danno è già consolidato. La presenza concomitante di questi segni e sintomi permette di effettuare

la diagnosi con significativa specificità e sensibilità. Gli esami di laboratorio richiesti possono essere distinti in tre categorie:

➢ test per valutare il grado di attività della malattia; in particolare si esaminano la VES (velocità di eritrosedimentazione) e la proteina C reattiva che aumentano nell’AR e si riducono nelle fasi di remissione, l’emocromo dove si riscontra un aumento dei globuli bianchi e delle piastrine, il liquido sinoviale che risulta essere edematoso e caratterizzato da cellule infiammatorie, e alterazione del ferro;

➢ test diagnostici;

➢ test di monitoraggio delle terapie.

Le alterazioni anatomiche delle articolazioni sono rilevabili mediante la convenzionale radiografia anche se ad essa, negli ultimi anni, si sono affiancate nuove tecniche per studiare le lesioni artritiche, quale ad esempio le moderne tecniche di imaging, che sfruttano la capacità dei computers di elaborare le immagini ottenibili con diversi tipi di energia.

(28)

28 Tuttavia più precisa della radiografia convenzionale è la tomografia assiale computerizzata (TAC) che permette di analizzare e riconoscere in maniera

dettagliata ossa, tessuti molli ed eventuali masse patologiche. È altresì possibile studiare i tessuti molli, evidenziando liquidi, ispessimenti

delle membrane capsulo-sinoviali, lacerazioni di tendini o muscoli, effettuando un’ecografia ad ultrasuoni: vengono utilizzate delle sonde, ad altissima frequenza, che sono poi rimandate indietro dai tessuti a seconda della loro ecogenicità, permettendo allo strumento di ricostruire un’immagine delle diverse parti che costituiscono il segmento esplorato. Un metodo valido che si sta affermando sempre più, che fornisce immagini dettagliate di cartilagini, legamenti, muscoli, etc, e ne rileva poi il coinvolgimento nei processi infiammatori, è la risonanza magnetica nucleare, che a differenza della TAC, ricostruisce il segmento in esame

secondo i tre piani dello spazio. Ciò nonostante, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, quando non

sono ancora comparse le lesioni a carico di cartilagine ed ossa e le caratteristiche deformazioni, è difficile fare una corretta diagnosi di AR che può anche essere ritardata a causa di un’insufficiente quantità di dati amnestici del paziente, di un superficiale esame o di un’eccessiva considerazione dei risultati delle indagini di laboratorio e radiologiche (www.alomar.it).

1.4 Valutazione dell’AR

Per valutare lo stato di attività della malattia esiste un numero minimo di variabili definito “core set” :

(29)

29 • Variabili di processo, che valutano lo stato della malattia in un

preciso momento, ovvero: numero di articolazioni tumefatte e dolenti, valutazione della disabilità fisica, valutazione del dolore da parte del paziente mediante scala analogica visiva, valutazione dell’attività globale della malattia da parte del paziente e dall’esaminatore, e indici della fase acuta nella valutazione (VES o PCR) (Ferraccioli e coll., 2004);

• Variabili di outcome (o esito), derivanti dal processo della malattia e quindi valutazione radiologica del danno articolare (Ferraccioli e coll., 2004).

1.4.1 Indici articolari

Per la conta delle articolazioni dolenti e/o tumefatte esistono diversi sistemi

che si differenziano per il numero delle articolazioni considerate. L’American College of Rheumatology (ACR) valuta 68 articolazioni

mentre l’European League Against Rheumatism (EULAR) ha approvato un

sistema di valutazione che ne comprende solo 28. Tuttavia dolore e tumefazione vengono valutati separatamente fornendo

informazioni diverse; infatti la dolorabilità è per lo più soggetta ad oscillazioni ed è correlata con il dolore, mentre la tumefazione è in

relazione con gli indici di fase acuta ed è predittiva di danno articolare. È con il cosiddetto indice di Ritchie che si valuta la dolorabilità e si calcola

(30)

30

1.4.2 Indici compositi di attività di malattia

Tali indici non sono espressi da una singola variabile ma da un “core set” di misure cliniche, funzionali e di laboratorio; includono il DAS e il SDAI

( Simple Disease Activity Index). Il DAS creato su basi statistiche, convalidato poi con precisione nelle

sperimentazioni cliniche, comprende articolazioni dolenti, tumefatte, VES ed attività globale della malattia. Per calcolarlo è richiesta la valutazione della tumefazione in 44 articolazioni mediante l’utilizzo di una scala che va da 0 (nessuna tumefazione) a 1 (tumefazione); i punteggi delle singole articolazioni vengono poi sommati (Ferraccioli e coll., 2004). Esiste anche il DAS28 che fornisce valori più elevati rispetto al DAS originale, ma comunque non sono intercambiabili. Il SDAI è stato proposto recentemente come indice di attività della malattia e i parametri che esso include sono: articolazioni tumefatte e dolenti, valutazione dello stato di salute sia da parte del medico che del paziente, su scala analogica visiva, e PCR in mg/dl (Ostendorf e coll., 2004).

1.4.3 Indici di miglioramento

Sui valori assoluti e sulle variazioni del DAS si basano i criteri di risposta clinica dell’EULAR che utilizzano 3 o 4 variabili del core set e permettono di classificare la risposta al trattamento come buona, moderata o assente. I criteri dell’ACR, invece, si basano su tutte e sette le misure del core set e la valutazione è dicotomica: miglioramento SI/NO. Inoltre, per l’EULAR,

affinchè l’artrite reumatoide sia definita attiva, il DAS deve risultare > 2,4 ( DAS28≥ 3,2), mentre per l’ACR tutte e sette le variabili all’inizio devono

(31)

31 sperimentazioni cliniche e la scelta di quali criteri utilizzare deve essere fatta all’inizio dello studio. Secondo i criteri dell’ACR20 è possibile evidenziare un miglioramento clinico quando ne consegue un 20% di miglioramento in 5 dei 7 seguenti criteri: numero di articolazioni dolenti e tumefatte, autovalutazione globale dell’attività di malattia, valutazione globale della malattia da parte del medico, autovalutazione del dolore, della disabilità fisica (HAQ, MACTAR, ETC..) e indici della fase acuta (VES o PCR). Con gli stessi criteri vengono definite le risposte ACR50 e ACR70, con un miglioramento rispettivamente del 50 e del 70% (Ferraccioli e coll., 2004).

1.4.4

Criteri di remissione

Suddetti criteri, che devono tener conto obbligatoriamente del fattore tempo, determinano l’assenza o la presenza di un livello molto basso della malattia. L’EULAR utilizza un valore soglia del DAS e considera la malattia in fase di remissione se quel valore DAS si mantiene < 1,6 (DAS28 < 2,6) per almeno due mesi consecutivi; l’ACR ritiene che devono essere soddisfatti 5 o più dei seguenti criteri per almeno due mesi consecutivi:

• Rigidità mattutina ≤15 minuti; • Assenza di astenia;

• Assenza di tumefazione articolare o tendinea; • Assenza anamnestica di dolore articolare;

• Assenza di dolorabilità articolare o dolore al movimento;

(32)

32 Altresì importante è la valutazione della progressione radiologica dell’artrite reumatoide che consente di conoscere la storia naturale della malattia e monitorare, quindi, gli effetti a lungo termine dei DMARD e dei

nuovi agenti biologici (Ferraccioli e coll., 2004). Le mani, i polsi e le articolazioni metatarsofalangee rappresentano le aree

più sensibili a codesta misurazione e tra i parametri più idonei allo studio della progressione radiologica rientrano l’erosione e la riduzione della rima articolare. I metodi più utilizzati, soprattutto nelle fasi precoci della malattia, sono l’indice di Larsen e l’indice di Sharp. Il primo si basa sulla valutazione delle lesioni articolari e viene assegnato un punteggio (da 0 a 5) in base alla gravità per ogni singola articolazione. Complessivamente le aree interessate sono 32 e comprendono 16 aree per entrambe le mani, 8 per entrambi i polsi e 8 per i piedi. Dunque il punteggio totale va da 0 a 160. Il metodo di Sharp, modificato poi da van der Heijde, valuta la progressione radiologica di mani e piedi. Il punteggio per le erosioni è compreso tra 0 e 5 per le mani e tra 0 e 10 per i piedi (punteggio da 0 a 5 per ogni lato della superficie articolare); quindi il punteggio totale varia tra 0 e 120 per le mani e tra 0 e 48 per i piedi (Ferraccioli e coll., 2004).

(33)

33

2. TERAPIA FARMACOLOGICA STANDARD PER IL

TRATTAMENTO DELL’ARTRITE REUMATOIDE

Il trattamento dell’artrite reumatoide è mirato a: controllare o per lo meno attenuare la sintomatologia infiammatoria, bloccare o rallentare

l’evoluzione della malattia, preservare e/o recuperare la funzionalità articolare e prevenire e/o correggere le deformazioni articolari (Jones e coll., 2003). Il raggiungimento di questi obiettivi necessita di un programma terapeutico, non solo farmacologico, che viene adottato da ciascun paziente a seconda della durata e del grado di attività della malattia. Poiché l’artrite reumatoide si caratterizza per il suo decorso cronico, è richiesta una terapia prolungata, se non addirittura continuativa. Infatti solo pochi pazienti giungono a completa guarigione mentre per la maggior parte dei pazienti si parla di “controllo della malattia” per tempi più o meno lunghi. La terapia medica si basa generalmente su quattro diversi approcci:

• Farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS);

• Farmaci antireumatici che modificano la malattia (DMARD); • Glucocorticoidi;

• Farmaci biologici (in quanto sintetizzati attraverso tecniche biotecnologiche).

L’efficacia dei farmaci nei diversi studi è stata valutata attraverso i criteri di valutazione dell’American College of Rheumatology (ACR).

(34)

34

2

.

1

Farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS)

I FANS vengono adoperati sin dalle fasi di esordio della malattia poiché il loro effetto principale è quello di ridurre l'infiammazione acuta così da diminuire il dolore e migliorare la funzione articolare. I FANS hanno proprietà antinfiammatorie e analgesiche, mediati principalmente dal blocco più o meno selettivo delle ciclo-ossigenasi I e II (COXI, COX-II) e quindi della produzione di prostaglandine, prostacicline e trombossani. È importante notare, tuttavia, che questi farmaci da soli non cambiano il decorso della malattia e non prevengono il deterioramento

dell'articolazione. I FANS più comunemente impiegati nell’AR comprendono: diclofenac,

ibuprofene, meloxicam, nimesulide, ketoprofene, naprossene, piroxicam, acido acetilsalicilico e indometacina. Non vi sono indicazioni precise su quale dei numerosi FANS disponibili usare, quali dosaggi e per quanto tempo, in quanto la risposta individuale dei pazienti è molto variabile sia nei confronti di un determinato farmaco, che a volte, addirittura, rispetto alla modalità di somministrazione dello stesso farmaco. L’impiego di questi farmaci può essere associato all’insorgenza di reazioni

avverse anche a causa delle possibili interazioni farmacologiche. La principale tossicità dei FANS si manifesta soprattutto a livello

dell’apparato gastrointestinale e comprende: disturbi digestivi, dispepsia, dolori addominali, nausea, vomito, diarrea, fino alla possibile comparsa di

ulcere gastro-duodenali con possibile perforazione e sanguinamento. La somministrazione di questi farmaci dopo i pasti e il trattamento con

farmaci inibitori della pompa protonica o con misoprostolo riduce il rischio di sanguinamenti gastrointestinali. Poiché le prostaglandine svolgono un ruolo chiave nella regolazione del

(35)

35 flusso ematico a livello renale e nel mantenimento della filtrazione glomerulare, i FANS possono anche compromettere la funzionalità renale portando alla ritenzione di sale, edema ed aumento della pressione sanguigna. Inoltre la soppressione della sintesi a livello endoteliale di prostaciclina, dove svolge una funzione cardioprotettiva antitrombotica, può favorire l’insorgenza di eventi cardiovascolari (trombosi) (Solomon e coll., 2010). Per limitare la tossicità, soprattutto quella gastrointestinale (Fig.5), si preferisce utilizzare i COX-II inibitori o COXIB poiché hanno un profilo di sicurezza migliore rispetto ai FANS tradizionali. I COXIB utilizzati frequentemente nei pazienti affetti da AR sono celecoxib o etoricoxib, i quali hanno dimostrato di avere, oltre ad un’elevata efficacia terapeutica, anche minori effetti collaterali, soprattutto a livello gastrointestinale. Tuttavia diversi studi hanno messo in evidenza un aumento del rischio di complicanze cardiovascolari, soprattutto in pazienti con alterazioni della coagulazione (White e coll., 2007). Gli effetti collaterali dei FANS a livello epatico sono rari (2-3% dei pazienti) e il più delle volte sono provocati da un danno epatotossico diretto e da reazioni idiosincrasiche; l’aumento delle transaminasi è frequente e generalmente

reversibile con la sospensione del farmaco. In sostituzione o combinazione con i FANS, per ridurre il dolore articolare

e quindi come rimedi sintomatici, sono utilizzati gli analgesici quali

paracetamolo, codeina, tramadolo, che non agiscono né

sull’infiammazione, né sulla progressione della malattia, ma sicuramente a livello gastrico sono meglio tollerati rispetto ai FANS (www.alomar.it).

(36)

36

Figura 5:

Tabella riassuntiva degli effetti collaterali gastrointestinali dei FANS

. (Google:

www.informazionisuifarmaci.it

).

2.2 Farmaci antireumatici che modificano la malattia (DMARD)

I farmaci antireumatici DMARDs (Disease modifying antirheumatic drugs) o cosiddetti “farmaci di fondo”si sono dimostrati capaci di modificare il decorso clinico dell’AR e di rallentare nel tempo l’evoluzione del danno anatomico delle articolazioni. Si differenziano dai farmaci sintomatici esercitando un’evidente soppressione dell’attività della malattia in una buona percentuale di casi (case responder), permettendo una remissione completa (anche se in una bassa percentuale di casi) e influenzando

positivamente i parametri bioumorali della malattia. I DMARDs comunemente usati includono:

• Metotrexato (MTX) o Ametopterina, immunosoppressore, antagonista della sintesi dell’acido folico;

(37)

37 • Leflunomide, immunosoppressore;

• Idrossiclorochina solfato e Clorochina, antimalarici che inducono la soppressione di IL-1 e TNF-α e provocano l’apoptosi delle cellule infiammatorie;

• Sulfasalazina o salazosulfapiridina, antibatterico, antiinfiammatorio e immunosoppressore;

• Ciclosporina A, immunosoppressore;

• Azatioprina, antiinfiammatorio e immunosoppressore; • Sali d’oro.

Nonostante le differenze chimiche e farmacologiche, questi farmaci, i cui meccanismi molecolari d’azione non sono stati completamente chiariti, condividono alcune caratteristiche fondamentali; occorrono in genere, alcune settimane o mesi perché si possano manifestare i benefici derivanti dall’impiego di questi farmaci e, inoltre, gli effetti si protraggono anche

dopo la sospensione della terapia. Studi osservazionali (www.notiziariochimicofarmaceutico.it) hanno trovato

che i DMARD più spesso prescritti come trattamento iniziale dell’AR sono MTX, sulfasalazina e antimalarici. Essi riducono il dolore e la tumefazione delle articolazioni, migliorandone la funzionalità, e abbassano i livelli dei markers di fase acuta. Il trattamento con DMARD sintetici dovrebbe essere iniziato al momento della diagnosi e dovrebbe avere come obiettivo la remissione o almeno la bassa attività di malattia in tutti i pazienti il più presto possibile.

(38)

38

2.2.1 Metotrexato (MTX)

Figura 6: Metotrexato

È il farmaco che ha raccolto i maggiori consensi di provata efficacia terapeutica nell’AR ed è tra i DMARDs che viene utilizzato maggiormente, seguito da leflunomide e sulfasalazina (Sandoval e coll., 1995). Il principale meccanismo d’azione del MTX ad alte dosi è l’inibizione della sintesi purinica mediante l’inibizione di enzimi folato-dipendenti, tra cui la diidrofolatoreduttasi; alle dosi impiegate per il trattamento dell’AR agisce

inibendo l’IL-1. I DMARDs sono spesso usati in regime di combinazione, in quanto

presentano un’azione sinergica: un esempio di terapia combinata prevede la somministrazione di metotrexato, sulfasalazina e idrossiclorochina; il MTX viene generalmente associato anche ai farmaci biologici anti-TNF perché ne aumenta l’efficacia. Metotrexato ha superato altri DMARDs in una meta-analisi di studi che hanno confrontato l'efficacia e la tossicità, e inoltre più pazienti rimanevano in terapia con metotrexato per un tempo maggiore di cinque anni rispetto ad altri DMARDs (Sandoval e coll.,

(39)

39 1995). La posologia efficace varia tra i 10/20 mg alla settimana; pertanto a seconda del peso del paziente si consiglia di iniziare la terapia con 5/10 mg/settimana salvo incrementare progressivamente il dosaggio se dopo 2-3 mesi non vi è stato miglioramento. Il MTX può essere somministrato per os o per via intramuscolo o sottocute in associazione a folati, tuttavia tra gli schemi terapeutici proposti si preferisce una singola iniezione intramuscolare settimanale in maniera tale da evitare il passaggio epatico del farmaco e ridurre, quindi, i rischi di tossicità a quel livello. Essendo teratogeno il MTX va sospeso almeno 3-6 mesi prima del concepimento

(www.torrinomedica.it). Le reazioni avverse più frequenti osservate in seguito a trattamento con

metotrexato sono in gran parte correlate all’inibizione del metabolismo dei folati (es. nausea, stomatite e soppressione midollare). Poiché gli effetti benefici del metotrexato nell’AR sono in gran parte non correlati con l’inibizione del metabolismo dei folati, la somministrazione di una singola dose settimanale di acido folico, da 5 a 10 mg, può portare a una significativa riduzione della tossicità senza perdita di efficacia (Sandoval e coll., 1995). L'utilizzo di metotrexato è limitato dalla possibile insorgenza di due reazioni avverse potenzialmente gravi, che possono non risolversi con la cessazione del trattamento: cirrosi epatica e polmonite interstiziale (Felson e coll., 1992; Pincus e coll., 1992). La cirrosi epatica è una complicazione piuttosto rara (incidenza 1/1000 pazienti trattati nel corso di 5 anni) che si manifesta soprattutto nei pazienti con fattori di rischio (abuso di alcool e malattie epatiche). L’aumento degli enzimi epatici non è direttamente correlato con la tossicità, ma la terapia con metotrexato deve essere interrotta o la dose ridotta se le transaminasi sono più elevate di 2

(40)

40 Nei pazienti che presentano una persistente elevazione dell’aspartato aminotrasferasi (AST) può essere richiesta una biopsia epatica per accertare

che la continuazione del trattamento non è nociva. La polmonite interstiziale è una complicazione rara (incidenza < 2%) ma

potenzialmente fatale del trattamento con metotrexato. I fattori di rischio possono includere preesistente malattia polmonare o una radiografia del torace anormale. Sintomi della polmonite interstiziale includono tosse secca, dispnea da sforzo, malessere, febbre e crepitii all’auscultazione. La polmonite indotta da metotrexato può insorgere in qualsiasi momento della

terapia e non è correlata alla dose (Sandoval e coll., 1995). Altri effetti collaterali che possono verificarsi in seguito a trattamento con

MTX, includono: la depressione midollare, l’alopecia e disturbi delle mucose, in particolare orale e gastrica. Proprio per ridurre gli eventi avversi gastrointestinali e mucocutanei, dopo 24 ore la somministrazione di MTX,

si dovrebbe associare l’acido folico. Inoltre, l’uso contemporaneo di alcuni FANS con il MTX può causare una

maggiore tossicità da MTX (discrasie ematiche, mucosite, neuropatia). In presenza di controindicazioni o intolleranza al MTX, come prima

strategia terapeutica dovrebbero essere considerati la leflunomide (20 mg una volta al giorno), la sulfasalazina (1.000 mg due volte al giorno, posologia da raggiungere iniziando da 500 mg al giorno e incrementandola posologia di 500 mg ogni settimana) o i sali d’oro iniettabili, ormai poco

utilizzati per scarsa tollerabilità. Nei pazienti in trattamento con MTX si consiglia il controllo periodico,

ogni 1-3 mesi, della crasi ematica e delle transaminasi (www.torrinomedica.it).

(41)

41

2.2.2 Leflunomide.

Figura 7: Lefluonomide

È un profarmaco, approvato dall’FDA nel settembre del 1998, il cui metabolita attivo inibisce la proliferazione dei linfociti T attivati, impedendo la sintesi pirimidinica. È un DMARD promettente per il trattamento dell’AR nell’adulto in tutti gli stadi della malattia; presenta risposta precoce e prolungata, migliora la capacità funzionale e la qualità della vita dei pazienti e la sua efficacia clinica e radiologica è paragonabile a quella del MTX (Amitabh e Blair, 1999; Fox, 1998; Scharlemmer e coll.,

1999). Negli studi clinici di fase III allargati, leflunomide ha mostrato efficacia

clinica, rallentando la progressione radiografica delle erosioni alle articolazioni, e tollerabilità equivalenti a metotrexato e sulfasalazina. Leflunomide rappresenta una valida alternativa per i pazienti che hanno fallito o sono intolleranti al metotrexato. Gli studi hanno dimostrato che può anche essere somministrata in regime di combinazione con metotrexato in pazienti che non abbiano preesistenti fattori di rischio epatici,

(42)

42 monitorando però, attentamente, il paziente durante la terapia ed effettuando i test di funzionalità epatica. Il trattamento con leflunomide è stato, infatti, associato ad aumento delle transaminasi epatiche che si normalizzano con la sospensione del farmaco. A tal proposito, si richiede, almeno all’inizio, un attento monitoraggio degli enzimi epatici. Altre forme di tossicità includono disturbi gastrointestinali (diarrea spesso transitoria, nausea), diradamento dei capelli e alopecia (reversibile), rash cutaneo e

ipertensione arteriosa con meccanismo non chiarito (Li e coll., 2004). Il farmaco si è dimostrato altamente teratogeno nei ratti e nei conigli e può

causare danni fetali nella specie umana, dunque la leflunomide non deve essere somministrata a donne in gravidanza o a donne in età feconda che non facciano uso di un contraccettivo affidabile durante il trattamento (www.alomar.it).

2.2.3 Sulfasalazina e idrossiclorochina

(43)

43

Figura 9: Idrossiclorochina

Sulfasalazina e idrossiclorochina hanno effetti simili nel ridurre l’attività di malattia, anche se sulfasalazina è risultata significativamente superiore a idrossiclorochina nel prevenire il danno articolare misurato alla radiografia

(van der Heijde e coll., 1989). La sulfasalazina o salazopirina è composta da un sulfamidico, la

sulfopiridina, e dal salicilato, originariamente proposta per la cura dell’AR sulla convinzione, poi dimostratasi errata, che questa malattia fosse dovuta all’azione dello Streptococcus agalactiae, il farmaco è stato abbandonato per questa indicazione e successivamente se ne è riproposto l’impiego in

alternativa ai farmaci di fondo sopra citati. Le reazioni avverse più frequenti osservate in seguito a trattamento con

sulfasalazina comprendono effetti collaterali minori, tra cui nausea spesso transitoria durante i primi giorni di trattamento. Tali effetti possono essere minimizzati con l'introduzione del farmaco a basse dosi ed aumentando la dose di mantenimento abituale di 2-3 g/die suddivise in due somministrazioni giornaliere. Rash cutanei, generalmente di tipo maculopapulare e pruriginoso, si verificano nel 4-5% dei pazienti. È stata riportata oligospermia reversibile che può portare a riduzione della fertilità.

(44)

44 Effetti collaterali più gravi, che includono neutropenia potenzialmente fatale o anemia aplastica, sono rari. L'incidenza di neutropenia indotta da sulfasalazina è stata stimata essere pari al 2% nei pazienti con AR, ma la maggior parte dei casi sono reversibili con la sospensione del farmaco (Box e Pullar, 1997). Effetti collaterali minori in seguito a trattamento con idrossiclorochina includono nausea ed eruzioni cutanee. La soppressione del midollo osseo è rara, ma possono insorgere agranulocitosi o anemia aplastica potenzialmente fatali. Molta attenzione è stata data alla tossicità oculare da idrossiclorochina (1/40.000 pazienti trattati alle dosi raccomandate) che include depositi corneali, debolezza dei muscoli extraoculari, perdita dell’accomodazione (e di sensibilità alla luce), e retinopatia che può progredire fino alla perdita irreversibile della vista. Tuttavia, uno studio ha dimostrato che pazienti affetti da AR che assumevano una dose giornaliera inferiore a 6,5 mg /kg di idrossiclorochina non erano ad aumentato rischio di complicanze oculari. Al fine di ridurre il rischio di complicanze oculari, è raccomandato un esame oftalmologico prima di iniziare il trattamento e un follow-up ogni 12 mesi durante il periodo di trattamento (Levy e coll., 1997).

2.2.4 Azatioprina

Figura 10: Azatioprina

(45)

45 Azatioprina ha dimostrato di essere utile nel trattamento dell'artrite reumatoide, ma non influenza la progressione dei cambiamenti radiografici. In alcuni studi, azatioprina ha mostrato tossicità simile a sulfasalazina e metotrexato, ma è risultata meno efficace. Inoltre, la sua efficacia è risultata simile a quella degli antimalarici (idrossiclorochina), ma presentava una maggiore tossicità. Effetti collaterali transitori possono includere nausea, stomatite e soppressione midollare. L’epatite e la pancreatite sono eventi rari. L’aumento del rischio di neoplasie secondarie a causa di azatioprina è controversa. Mentre nei trapiantati è stato riportato un aumento del rischio di linfoma, ci sono prove contrastanti nei pazienti con AR. Prima di iniziare la terapia con azatioprina è consigliato di effettuare uno screening per i livelli del tiopurina metiltransferasi (TPMT). Alcuni individui hanno un deficit genetico di questo enzima che metabolizza azatioprina con un aumento del rischio di tossicità (Pincus e coll., 1992).

2.2.5 Ciclosporina

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46 È un potente immunosoppressore risultato efficace nel trattamento dell’AR sia di recente insorgenza che nelle forme più consolidate. Rispetto alle comuni terapie di fondo la ciclosporina ha il vantaggio di rallentare la progressione del danno anatomico della malattia valutato radiologicamente. I dosaggi consigliati sono di 3-5 mg/kg/die, visto che a più alte dosi può indurre ad aumento della creatinemia per riduzione del filtrato glomerulare e nefropatia interstiziale. In studi controllati con placebo, ciclosporina ha mostrato di migliorare le manifestazioni cliniche dell’AR, e di ridurre la progressione delle erosioni evidenti alla radiografia (Forre, 1994). L'effetto avverso più importante è la nefrotossicità, che deve essere controllata mediante misurazioni della pressione arteriosa e della creatinina sierica. L’insufficienza renale può essere acuta, mediata dalla vasocostrizione renale, o cronica, con conseguenti danni permanenti ai reni. Altri effetti indesiderati comprendono irsutismo, iperplasia gengivale, tremore, parestesie e cefalea. Ciclosporina può aumentare il rischio di infezioni e linfomi (Jain e Lipsky, 1997). L’impiego della ciclosporina nel trattamento dell’AR viene oggi riservato solo a quei casi che si sono dimostrati refrattari alle più usuali e meno costose terapie (www.alomar.it).

2.2.6 Sali d’oro

Sono delle molecole ad azione lenta, scarsamente attive in monoterapia, ma talvolta impiegati in schemi associativi (insieme a FANS o corticoidi; non possono invece essere somministrati con i farmaci di fondo perché esistono differenze nei meccanismi d’azione e gli effetti collaterali possono

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47 sommarsi o addirittura potenziarsi). Non curano la malattia ma possono contribuire a tenerla sotto controllo: alleviano il dolore, riducono il gonfiore e la rigidità delle ossa, diminuiscono il rischio di deformità articolare e di disabilità. Pertanto l’efficacia della terapia con i sali d’oro, o crisoterapia, è sostanzialmente migliore se viene utilizzata nella prima fase della malattia. Il loro meccanismo d’azione non è del tutto chiaro, ma sono state avanzate delle ipotesi, secondo le quali l’oro abbia influenza sui linfociti T, su reazioni immuno-globuliniche e sull’attivazione del

complemento (www.torrinomedica.it). I sali d’oro per iniezione intramuscolare sono i farmaci di fondo usati da

più tempo nel trattamento dell’AR, anche se si sta ricorrendo sempre meno al loro uso, in quanto, a parità di efficacia con altri farmaci antireumatici

(sulfasalazina e metotrexato), mostrano una maggiore tossicità. Per l’impiego parenterale sono disponibili il sodio-aurotiomalato,

l’auro-tio-glucosio e l’auro-tio-polipeptide, il cui contenuto in oro è rispettivamente del 46%, 50% e 13% circa. Se ben tollerati, lo schema terapeutico prevede iniezioni settimanali fino alla ventesima settimana di 50 mg di Tauredon o di Aureotan e 200 mg di Aurodetoxin. Probabili sono effetti collaterali più o meno accentuati; da sintomi articolari a dermatiti pruriginose, che possono manifestarsi anche solo dopo poche iniezioni (dipende dalla dose e da fattori individuali), e a causa delle quali bisogna

sospendere la terapia fino alla regressione della manifestazione cutanea. In Italia è reperibile una preparazione di tiosolfato di sodio e oro

(Fosfocrisolo R), che contiene circa il 20% di oro metallo, la dose terapeutica è di 50-100 mg alla settimana, il cui effetto terapeutico si esplica lentamente e richiede in genere 4-6 mesi di cura. Se dopo questo periodo il risultato non è stato soddisfacente, il trattamento va sospeso poiché il paziente ha dimostrato di essere un non-responder. Al contrario,

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48 nei pazienti responder, la terapia va continuata passando gradualmente a dosaggi ridotti (una iniezione ogni 4 settimane). Infine in alcuni pazienti è necessario sospendere la terapia per la comparsa di effetti collaterali (www.alomar.it). Gli effetti collaterali possono includere: rash, stomatite, alopecia, trombocitopenia, proteinuria e sindrome nefrosica. La polmonite interstiziale è una complicanza rara ma potenzialmente fatale del trattamento con sali d'oro (Jain e Lipsky, 1997). Se somministrati per os, gli eventi avversi sono più rari ma sono meno efficaci rispetto a quando vengono somministrati per via parenterale. Inoltre nel corso della crisoterapia è sconsigliabile un’intensa esposizione alla luce solare perché è

facile che si manifesti una accentuata fotosensibilità. La reversibilità di tali effetti collaterali è correlata al loro precoce

riconoscimento con immediata sospensione del farmaco. Tuttavia bisogna saper riconoscere altri eventuali effetti collaterali

mediante regolari controlli di laboratorio, poiché possono comparire diminuzioni di trombociti e di leucociti. Una riduzione dei leucociti e dei trobociti al di sotto, rispettivamente, dei 4000 e dei 100.000 dovrebbe indurre alla sospensione temporanea della cura. È possibile, altresì, un aumento moderato degli enzimi epatici. Sono quindi richiesti controlli dell’esame emocromocitometrico e morfologico completo, incluso il conteggio dei trombociti, le transaminasi, la fosfatasi alcalina e parametri di funzionalità renali, esami delle urine ad intervalli di 14 giorni durante i primi 3 mesi, successivamente ad intervalli mensili. Ad intervalli trimestrali vanno controllate le immunoglobuline.

Controindicazione all’impiego dei sali d’oro sono le connettiviti, la gravidanza, la colite ulcerosa, il morbo di Crohn e le malattie propriamente ematologiche (www.torrinomedica.it).

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