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1.3 Il contract farming e la ‘nuova agricoltura’

1.3.2 La nuova agricoltura: ‘Horticulture revolution’

La Banca Mondiale, notando la crescita della produzione dei prodotti ortofrutticoli per i mercati locali e globali, ha parlato di ‘horticulture revolution’ (2007: 58). Mentre le esportazioni dei prodotti tropicali tradizionali, salvo alcune eccezioni, continuano a perdere di importanza nelle economie nazionali e nelle strategie della produzione degli agricoltori africani, le esportazioni dei prodotti non tradizionali sono aumentate sensibilmente in diversi paesi dell’Africa sub-sahariana. (Swinnen et al. 2013; USAID, 2015)24. Il valore dei prodotti ortofrutticoli esportati dal continente è passato dal 10% del 1988 a circa il 22% del valore totale delle esportazioni nel 2014 (Fukase and Martin 2016: 10). In alcuni paesi, il valore delle esportazioni di questi prodotti - sia per la crescita dei prezzi internazionali che per aumenti della produzione - ha superato il valore dei prodotti tradizionali. Swinnen et al. (2013), ad esempio, riportano che in Africa occidentale le esportazioni ortofrutticole sono triplicate in quantità dalla metà degli anni ’80 alla metà degli anni 2000. Diversi paesi stanno infatti diventando importanti fornitori di frutta e verdura per i mercati europei – Senegal, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Ghana, Guinea (ibidem: 290). In Africa sud-orientale le esportazioni ortofrutticole sono state storicamente monopolizzate dal Kenya e dal Sud Africa. Recentemente, tuttavia, anche altri paesi come Etiopia, Uganda, Mozambico e Tanzania, hanno conquistato (modeste) quote nei ‘nuovi’ mercati globali. In Uganda, Tanzania, Kenya, ed Etiopia il valore delle

24 Già durante gli anni ’90 le esportazioni di prodotti non tradizionali dall’Africa sub-sahariana sono aumentate del 4,9%

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esportazioni di vegetali è passato rispettivamente da circa 12, 6, 46, e 22 milioni di dollari nel 1997 a circa 79, 398, 281 e 897 milioni nel 2015. Le esportazioni di fiori sono cresciute allo stesso modo da circa 83 milioni a 716 in Kenya, da qualche centinaio di migliaia di dollari a oltre 700 milioni in Etiopia, da 5 a 43 milioni in Tanzania, e da 3 a 51 in Uganda. Le esportazioni di frutta sono cresciute particolarmente in Tanzania da 67 milioni a 279 e in Kenya da 21 a 150.

Tabella 2. Valore delle esportazioni di frutta da alcuni paesi africani, 1997-2015, in dollari USA

Paesi 1997 2006 2015 Etiopia 1.323.263 2.029.810 7.423.243 Senegal 1.661.800 5.987.662 23.041.211 Kenya 21.871.118 32.385.188 150.265.000 Tanzania 67.544.456 51.136.032 279.315.105 Uganda 388.467 1.342.298 3.880.015 Mozambico 29.759.873 42.510.000 45.869.000 Fonte: ITC trade map; UN Comtrade, consultati il 10/01/2017

Tabella 3. Valore delle esportazioni di fiori da alcuni paesi africani, 1997-2015, in dollari USA

Paesi 1997 2006 2015 Etiopia 144.884 36.905.810 737.485.681 Senegal 315 63.787 245.002 Kenya 83.402.840 358.938.000 716.052.000 Tanzania 5.249.763 11.421.724 43.594.414 Uganda 3.808.452 32.294.381 51.650.601 Mozambico - 46.523 360.282

Fonte: ITC trade map; UN Comtrade, consultati il 10/01/2017

Tabella 4. Valore delle esportazioni di vegetali da alcuni paesi africani, 1997-2015, in dollari USA

Paesi 1997 2006 2015

Etiopia 22,002,096 56,365,013 897,447,803

Senegal 1,333,838 16,112,641 48,673,890

Tanzania 6,590,458 25,746,138 398,570,064

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Uganda 12,401,350 11,481,284 79,636,806

Mozambico 447,739 2,336,000 30,593,000

Fonte: ITC trade map; UN Comtrade, consultati il 10/01/2017

In questi Paesi, la produzione delle colture ortofrutticole per l’esportazione nei mercati europei avviene in gran parte attraverso l’agricoltura a contratto.25 I produttori possono essere grandi aziende

o piccoli-medi agricoltori locali (questi ultimi generalmente riuniti in cooperative o gruppi a livello di villaggio). In alcuni casi, le grandi produzioni detengono centri per la lavorazione e l’impacchettamento dei prodotti ed hanno contratti diretti con le catene di supermercati e con i distributori nei paesi d’importazione (sono anche esportatori). Queste produzioni possono coinvolgere a loro volta gli agricoltori locali per incrementare i volumi e i profitti, in particolare grazie alle attività post-produzione che permettono di aggiungere valore alle esportazioni. In altri casi gli esportatori che hanno contratti o accordi con i grandi distributori o con le catene di supermercati esteri non detengono produzioni proprie, ma solo centri per la lavorazione e impacchettamento dei prodotti. Questi esportatori hanno a loro volta contratti o accordi verbali con le imprese agricole che non esportano direttamente, con le cooperative, con i gruppi di piccoli produttori o con singoli agricoltori che hanno accesso a terreni sufficientemente grandi per operare individualmente. In alcuni casi sono presenti degli intermediari che acquistano dagli agricoltori e rivendono agli esportatori. Tuttavia, la ‘nuova agricoltura’ si caratterizza per uno stretto coordinamento della produzione e dunque per filiere relativamente corte, dove i ‘middle man’ trovano poco spazio.

La crescita del contract farming nella produzione di colture ortofrutticole è avvenuta parallelamente ad una riconfigurazione dei rapporti di potere nel sistema globale agroalimentare e alla cosiddetta ‘supermarket revolution’. Queste nuove filiere sono sempre più controllate dai colossi globali della distribuzione e dell’agribusiness, i quali specificano tempistiche, qualità e quantità dei prodotti e richiedono inoltre moderne tecnologie per la lavorazione, la conservazione e il trasporto (catene del freddo) (Prowse 2012). Inoltre, con la globalizzazione del sistema agroalimentare, il profitto risiede sempre più della lavorazione dei prodotti, nell’impacchettamento, nel commercio, nel trasporto, nel ‘branding’ e nei nodi distributivi delle filiere. Di conseguenza, gli investimenti diretti nella terra da parte delle multinazionali sono meno attrattivi in presenza di alternative (Gibbon, Ponte 2005).

25 Ad eccezione dei fiori, per i quali esiste il sistema dell’asta in Olanda (il CF sta comunque emergendo anche nella

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Nell’ultimo decennio i maggiori supermercati e distributori mondiali hanno reso le certificazioni private sulla sicurezza alimentare una condizione sine qua non per le importazioni di prodotti freschi nei mercati europei. Le certificazioni private sono state introdotte come strumenti per coordinare le filiere ed assicurare la conformità dei prodotti importati agli standard fitosanitari imposti dalle regolamentazioni pubbliche. Nel 1999 trenta grandi supermercati/distributori di 12 Paesi europei hanno formato la certificazione EuroGaP, con la quale sono stati introdotti una serie di standard riguardanti la sicurezza alimentare e le ‘buone pratiche’ della coltivazione. La certificazione copriva oltre l’80% dei prodotti freschi venduti nei supermercati già nel 2004 (Swinnen et al. 2013). Nel 2007 Euro Gap è stato trasformato in Global Gap, il quale rappresenta oggi la certificazione più diffusa globalmente, nonché una condizione necessaria per le esportazioni di una vasta gamma di prodotti all’interno del mercato europeo (Ibidem). Un'altra importante certificazione privata richiesta dal mercato britannico (uno dei maggiori mercati per i prodotti esportati dall’Africa orientale) è British Retail Consortium (BRC). In aggiunta a queste certificazioni, negli ultimi anni si sono diffuse anche le certificazioni sostenibili volontarie come Fair trade, Rainforest Alliance, Biologico, Ethical trade Initiative e molte altre, che offrono nuove opportunità nei mercati di nicchia e forniscono ai produttori prezzi maggiorati rispetto ai prezzi di mercato. Queste nuove certificazioni tendono ad includere questioni sociali e ambientali – lavoro minorile, condizioni del lavoro nelle grandi produzioni, impatti della produzione sull’ambiente- e rappresentano sempre più delle strategie di differenziazione dei prodotti (‘branding’) da parte dei grandi distributori/supermercati. In letteratura vi è una crescente attenzione sulle conseguenze di questi standard sull’accesso ai mercati globali per i produttori dei PVS. Alcuni studiosi ritengono che queste certificazioni portino all’esclusione dei produttori più poveri dall’accesso ai nuovi mercati (Marx et al. 2012), mentre altri sostengono, al contrario, che rappresentino uno strumento per assicurare un commercio più equo, il benessere dei lavoratori e dei produttori e, in ultimo, la diffusione delle buone pratiche tra i piccoli agricoltori (English et al. 2004).

In generale, la ricerca sembra mostrare una tendenza verso l’esclusione dei piccoli produttori più poveri dai programmi di contract farming in favore di medi-grandi produttori e imprese agricole. A seconda dei prodotti i piccoli agricoltori possono incontrare barriere crescenti alla partecipazione in questi mercati a causa degli standard qualitativi e quantitativi richiesti dagli acquirenti, degli elevati capitali necessari per avviare e certificare la produzione, nonché della mancanza di infrastrutture (strade, sistemi di irrigazione) e di moderne tecnologie per la conservazione dei prodotti altamente deperibili (Simmons 2002; Ponte, Gibbon, 2005; USAID 2015). Alcune ricerche suggeriscono che le aziende esportatrici sono spesso frenate a includere i piccoli agricoltori dai costi di formazione e

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supervisione e dai rischi connessi alla distribuzione di input a credito. Ad esempio, alcuni studi riportano una diminuzione del numero dei piccoli produttori che partecipano nelle nuove filiere ortofrutticole in Kenya e Senegal (Gibbon, Ponte 2005; Maertens 2009; Swinnen et al. 2013; USAID 2015) e un consolidamento della media e grande produzione estera nelle serre. In Senegal, dove la produzione di fagiolini è cresciuta negli ultimi anni fino a costituire circa il 50% del valore delle esportazioni ortofrutticole, l’incidenza della piccola produzione nei volumi totali delle esportazioni è scesa dal 95% al 52% nel corso di dieci anni (Swinnen et al. 2013). Simili sviluppi hanno preso luogo in Kenya: agli inizi anni ’90 i piccoli produttori producevano la gran parte dei prodotti freschi esportati nei mercati europei, ma nel corso degli anni ’90 e degli anni 2000, nonostante la crescita delle esportazioni, si è registrata una diminuzione del loro contributo alla produzione totale (Dolan 2004).

Sebbene la ricerca metta in evidenza questa tendenza, i piccoli agricoltori rimangono comunque coinvolti nella produzione di queste colture attraverso l’agricoltura a contratto: in Kenya la produzione di fagiolini - che costituisce la gran parte del valore delle esportazioni ortofrutticole - vede ancora coinvolti oltre 50.000 contract farmer con terreni al sotto dei 2 ettari, i quali contribuiscono per oltre il 70% al totale della produzione (USAID 2015:7). In altri casi i piccoli agricoltori mantengono una presenza quasi esclusiva nelle nuove filiere: in Madagascar, ad esempio, contribuiscono per la quasi totalità al volume delle esportazioni di fagiolini (UNCTAD 2011; Smalley 2013). In particolare, le aziende esportatrici possono semplicemente non avere alternative alla piccola produzione, possono tentare di minimizzare i rischi scegliendo di diversificare le fonti di approvvigionamento tra piccoli agricoltori e grandi imprese, oppure possono preferire i piccoli produttori per questioni economiche o di ‘marketing’ a seconda delle caratteristiche particolari dei prodotti (Swinnen et al. 2013).

Inoltre, alcuni governi africani hanno introdotto strategie politiche per lo sviluppo del settore ortofrutticolo e hanno adottato misure di supporto agli agricoltori per il raggiungimento degli standard alimentari richiesti dai mercati occidentali. La Tanzania, ad esempio, nel 2010 ha introdotto per la prima volta una strategia nazionale di sviluppo del settore (Horticulture Development Strategy 2012-2021) con l’obiettivo di facilitare la crescita ‘pro-poor’ dell’industria (URT 2010). I governi del Kenya e del Senegal hanno istituito le certificazioni ‘Kenya Gap’ e ‘Origine Sénégal’ per la produzione certificata di prodotti ortofrutticoli, nel tentativo di facilitare l’adozione delle pratiche agricole conformi alle richieste dei mercati globali. Allo stesso tempo, Global Gap ha dato la possibilità di ottenere la certificazione ai produttori riuniti in gruppo, abbassando dunque i costi

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della certificazione per i piccoli agricoltori.26 Anche la cooperazione internazionale sta investendo molto nell’inclusione dei piccoli agricoltori nelle nuove filiere emergenti. In particolare, diverse iniziative riguardano il rafforzamento e la creazione di cooperative o di gruppi di produttori a livelli di villaggio con l’obiettivo di raggiungere economie di scala, coordinare la produzione con gli acquirenti e incontrare le richieste sulle tempistiche della consegna dei prodotti, accedere ad input e credito a costi minori, ottenere le certificazioni necessarie all’esportazione nei mercati europei a costi ridotti. (USAID 2015).

È opinione condivisa che l’efficacia della nuova agricoltura nella riduzione della povertà sia legata al grado di partecipazione delle popolazioni rurali, sia nella produzione che nei mercati del lavoro agricolo. La produzione di queste colture rende infatti fino a 10 volte di più rispetto alle colture tradizionali destinate ai mercati interni (per esempio i cereali) o all’esportazione (cotone, caffè) e genera maggiore occupazione sia nella produzione che nelle attività post-produzione (WB 2007). La crescita della produzione ortofrutticola sembra dunque essere associata ad un aumento sensibile dell’occupazione: i fagiolini, ad esempio, necessitano di oltre 500 ‘person-day’ lavorativi all’anno per ettaro; i peperoncini e i piselli quasi 400, contro i 200 del mais (Little and Watts 1994: 45; WB 2007: 240). Queste colture richiedono un gran numero di lavoratori in particolare durante i periodi della raccolta: i fagiolini e i piselli vengono raccolti due o tre volte alla settimana per un periodo di circa quattro o cinque settimane, e necessitano di oltre 40 lavoratori/ettaro per ogni giorno di raccolta. L’occupazione può dunque aumentare attraverso i posti di lavoro generati dalle imprese agricole, attraverso i posti di lavoro che si creano nei terreni degli agricoltori locali che partecipano a questi mercati e, infine, attraverso le attività post-produzione nei centri per l’impacchettamento, la selezione e l’esportazione dei prodotti.

In Kenya, le famiglie degli agricoltori coinvolti nell’agricoltura a contratto hanno redditi complessivi oltre due volte superiori rispetto a quelle che non partecipano nei programmi di CF (USAID 2015).27 Allo stesso tempo, le famiglie dei lavoratori agricoli impiegati stabilmente nelle grandi produzioni hanno redditi inferiori ai contract farmer ma superiori rispetto ad altre famiglie che non partecipano nei mercati formali del lavoro agricolo. Una simile situazione è stata riscontrata in Senegal (Swinnen et al. 2013: 303-304): in questo caso i redditi dei lavoratori salariati e dei contract farmer sono rispettivamente due e tre volte superiori rispetto a quelli delle famiglie che non partecipano in alcun modo alla ‘nuova agricoltura’. L’incidenza della povertà tra queste ultime è

26 La certificazione Global Gap può ora essere ottenuta dunque da un ‘gruppo di produttori’ o da singole imprese

agricole.

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risultata essere del 46%, contro circa il 15% riscontrato tra le famiglie dei contract farmer e il 40% tra le famiglie dei lavoratori agricoli (ibidem).

Nei due Paesi, anche se i piccoli produttori contribuiscono in misura minore alle esportazioni dei prodotti ortofrutticoli rispetto allo scorso decennio, i nuovi investimenti delle imprese agricole hanno generato una sensibile crescita dell’occupazione. Secondo alcuni studi, la crescita della ‘nuova agricoltura’, per questa ragione, ha portato ad una significativa riduzione della povertà nelle aree interessate dagli investimenti esteri. In Kenya il settore ortofrutticolo ha generato oltre 150.000 posti di lavoro nelle grandi produzioni di fiori, avocado e fagiolini, e molti altri nell’indotto (Dolan 2000; USAID 2015). Solo la produzione dei fagiolini, oltre a coinvolgere oltre 50.000 agricoltori, impiega direttamente più di 60.000 persone (di cui oltre il 70% donne) nelle imprese agricole e nei centri per la lavorazione e l’esportazione del prodotto. Swinnen et al. (2013) ritengono che in Senegal l’occupazione generata dalle grandi produzioni di fagiolini ha portato ad una sensibile riduzione della povertà in particolare tra le donne, le quali costituiscono il 90% della forza lavoro impiegata nel settore. Inoltre, diverse famiglie hanno potuto espandere la produzione sui propri terreni grazie ai redditi garantiti dal lavoro salariato dei propri membri (Maertens, Swinnen 2009). La nuova agricoltura, secondo questi studiosi, avrebbe un maggiore impatto sulla povertà rurale attraverso la creazione di posti di lavoro nelle imprese agricole piuttosto che attraverso il coinvolgimento degli agricoltori locali nel CF:

The shift from smallholder contract farming toward integrated estate farming observed in the bean export sector in Senegal has also shifted the way local households benefit: increasingly through agro-industrial employment and labor market effects rather than through contract farming (…) the poorest households mainly benefit through agro-industrial employment while contract farming is biased toward relatively better-off households with more land and non-land assets. Although both effects result in significantly higher incomes, the shift in supply chain governance has resulted in a stronger poverty-alleviating effect of high-value horticulture exports(...) The growth of modern supply chains leads to increased feminisation of rural labor markets, reduced gender inequalities in rural labor markets, increased female empowerment and economic indipendence (Swinnen et al. 2013: 302-304).

Sebbene questi dati facciano trapelare un cauto ottimismo, gli studi recenti sulla ‘nuova agricoltura’ tendono spesso ad associare la riduzione della povertà con l’aumento dei redditi dei ‘contract farmer’ e dei lavoratori agricoli stabili o formali nelle grandi produzioni. Nonostante le imprese agricole e soprattutto i piccoli agricoltori debbano necessariamente utilizzare lavoratori salariati aggiuntivi durante i periodi di raccolta (decine di individui a giorni alternati per diverse settimane),

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i mercati del lavoro stagionale e casuale vengono raramente considerati dalla ricerca.28 Vi sono pochi studi che rivolgono l’attenzione sugli effetti della nuova agricoltura e del CF sui mercati del lavoro informale, sulla crescita delle disuguaglianze, sulle ragioni che spingono le popolazioni rurali a praticare o abbandonare sia l’agricoltura a contratto, sia il lavoro salariato. In generale, emergono poche ricerche che inquadrano la nuova agricoltura nei più ampi processi di trasformazione economica, politica e sociale dei paesi africani. Questo è particolarmente evidente per la Tanzania ‘post-socialista’, dove sebbene il settore ortofrutticolo abbia mostrato tassi di crescita sostenuti e vi sia una presenza importante di investimenti esteri, soprattutto nel nord-est del Paese, non vi sono studi significativi che analizzano questi processi, in particolare in relazione alla povertà rurale. Nel Paese l’orticoltura è uno dei settori dell’economia che è cresciuto maggiormente negli ultimi dieci anni - ad una media del 10% mentre l’agricoltura è cresciuta del 3% e l’economia del 6-7% - ed è arrivata a generare oltre 500 milioni di dollari in valore delle esportazioni (TAHA 2016). Questa crescita costituisce un ottimo caso di studio per valutare gli effetti, le opportunità e i rischi della globalizzazione agroalimentare per le popolazioni rurali (gli impatti degli investimenti esteri sull’occupazione, l’eventuale inclusione/esclusione dei piccoli agricoltori nella produzione; impatti del CF sui redditi degli agricoltori coinvolti e sulla sicurezza alimentare, etc..), nonché per analizzare il ruolo (e i limiti) delle politiche pubbliche nell’epoca del post-Washington Consensus. Allo stesso tempo, l’analisi della ‘nuova agricoltura’ permette di comprendere i più ampi processi di cambiamento del mondo rurale: le strategie di accumulazione e sopravvivenza degli agricoltori (imprenditori?) e dei lavoratori agricoli salariati; la possibile nascita o consolidamento di élite rurali con lo sviluppo delle nuove filiere emergenti; le caratteristiche dei mercati rurali del lavoro; l’intensità delle disuguaglianze nelle aree rurali in termini di reddito, condizioni lavorative, asset e accesso alle risorse produttive. Questa ricerca si pone dunque l’obiettivo principale di analizzare la crescita della nuova agricoltura nel nord della Tanzania da una prospettiva politico-economica, e di comprenderne gli effetti sulla povertà rurale inquadrando il fenomeno nei cambiamenti economici, sociali e politici degli ultimi decenni.

28 Questo è anche dovuto alla difficoltà nell’individuazione dei lavoratori casuali/stagionali durate le ricerche di campo

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