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LA PROCREAZIONE ASSISTITA:

Nel documento Sisifo 27 (pagine 38-43)

QUALE LEGGE

E QUALI DIRITTI

di D e m e t r i o Neri Elaborazione dell'intervento presentato al seminario «La procreazione artificiale.

Istituzioni per nuove tecnologie e nuovi diritti',

svoltosi nell'ambito del ciclo di seminari «La questione

bioetica. Quali regole per individui e istituzioni organizzato in collaborazione

con il Centro d'Iniziativa per l'Europa, la Consulta Laica di Bioelica, il Group of the Party of European Socialists, svoltosi a Torino il 24 gennaio 1994.

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Non pretendo certo di affrontare, in questa sede, il complesso dei problemi etici connessi alle NTR1, che tra l'altro si situano ad almeno due livelli: quelli legati alle singole tecniche e, direi, persino a parti di esse; e quelli generati dalle coppie antinomiche intomo alle quali si è polarizzato il dibattito specificamente etico-filosofico: naturale / artificiale, biologico / sociale, progettualità / casualità ecc.

Penso allora che sia più fruttuoso affrontare un solo nucleo tematico: su quali basi dovremmo segnare i limiti e i vincoli al ricorso alle NTR? Naturalmente, non mi riprometto di indicare dettagliatamente i possibili limiti, quanto invece di svolgere un ragionamento sul modo in cui il problema è stato affrontato nel dibattito. Devo innanzitutto premettere che domande di questo tenore scontano naturalmente almeno un giudizio non totalmente negativo sulla liceità morale delle NTR; e lo scontano sia perché sembra ormai

implausibile, anche in Italia, una legge che vieti tutto, sia perché un giudizio totalmente negativo è patrimonio esclusivo di etiche fondate su principi religiosi. E non di tutte: penso, ad esempio, all'etica diffusa nel mondo mussulmano la quale, considerando prioritaria la purezza della linea ereditaria, vieta tutte le forme di fecondazione che richiedano il ricorso al donatore (ma, con coerenza, vieta anche l'adozione come strumento per superare l'infertilità), mentre consente ed incoraggia il ricorso a tecniche che non prevedano la mescolanza del corredo genetico2. L'etica cattolica, invece, è ferma ad un giudizio totalmente negativo sulla base dell'intrinseca unitarietà tra atto sessuale e atto procreativo che queste tecniche spezzerebbero: ma anche qui, accanto alle posizioni più aderenti all'insegnamento ufficiale della Chiesa (ad es., quelle espresse dall'Istituto di Bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore), esistono posizioni più possibiliste che fanno leva sull'idea che quella unitarietà deve essere assicurata non nel singolo atto, ma nel complesso del rapporto matrimoniale e quindi ritengono lecita almeno l'inseminazione omologa'. Può essere forse interessante ricordare che una posizione così radicalmente negativa risale, nella storia della Chiesa, al

1897, quando il Sant'Uffizio rispose con un deciso Non licere alla domanda: An adhiberì possit artificialis mulieris foccundatto. Conosceremo fra

tre anni le ragioni di questa risposta che, pur essendo certo aderente alla concezione cattolica del vincolo coniugale.

Jeanne Grimoìr.

era innovativa rispetto ad una tradizione teologica e canonistica che, essendosi posta fin dai tempi più antichi la questione (puramente teorica o basata su vaghe notizie di vergini divenute madri sive arre, sire ope daemonis) se una fecondazione con successiva nascita di un figlio avvenuta senza congiunzione sessuale fosse da considerarsi valida ai fini della consumazione del matrimonio, aveva dato quasi costantemente una risposta positiva-1.

Ma torniamo alla nostra domanda: su quale base segnare limiti e vincoli? Nel dibattito e nella letteratura in materia ricorre spesso l'espressione: diritto di avere un figlio ad ogni costo, dove «ad ogni costo» è chiaramente ambivalente sul piano valutativo. Da un lato, c'è chi ne sottolinea l'aspetto positivo di sforzo diretto a soddisfare il legittimo ed intenso desiderio/bisogno di diventare genitore da parte di chi è stato privato di questa possibilità dalla lotteria naturale nella distribuzione della fertilità; o da parte di chi non può procreare (penso a portatori di handicap) o è bene che non procrei (si pensi, ad es., al caso di portatori di malattie ereditarie) o addirittura sceglie di non procreare per

mezzo di normali rapporti sessuali. Ognuno di questi casi ovviamente pone problemi distinti, ma in generale la possibilità offerta dalle NTR viene salutata come una benefica estensione della libertà procreativa, uno degli ultimi acquisti nella schiera delle libertà soggettive, frutto della moderna cultura della scelta responsabile e dell'esaltazione dell'autonomia delle persone. All'interno di questa posizione — anche in connessione col crescere di una concezione della genitorialità che insiste sulla dimensione sociale e culturale dell'assunzione consapevole delle responsabilità di cura, piuttosto che sulla dimensione biologica5 — il centro del discorso è dunque il diritto aI figlio.

Altri invece, pur riconoscendo ovviamente come legittimo il desiderio/bisogno di

genitorialità, ne hanno deplorato il perseguimento «ad ogni costo» (e cioè in modo da «forzare» i limiti naturali) col ricorso alle NTR, sostenendo che ciò è segno e causa di grave disordine morale, a sua volta foriero di conseguenze negative di enorme portata. E tra queste, quella più comunemente addotta, soprattutto da chi non vuole fondare la sua posizione su principi scarsamente difendibili in un dibattito razionale e pluralistico, fa perno

sulla esigenza di salvagurdare i diritti del figlio: al diritto al figlio, che è centrale nella prima argomentazione e che di solito implica una posizione largamente favorevole alle NTR, viene contrapposto il diritto del figlio, ovviamente in funzione negativa o comunque fortemente limitativa. L'appello al diritto sembra dunque trasformarsi in appello a confliggenli diritti. La polarizzazione che ho schematizzato è forse prova evidente del fatto che nelle questioni etiche l'appello ai diritti non è sempre risolutivo. Per dirla con un filosofo morale inglese (R.M. Hare), non c'è affermazione che faccia fiduciosamente appello a un diritto che non possa essere contraddetta da un'altra affermazione che faccia altrettanto fiduciosamente appello a un altro diritto, talora allo stesso diritto. E importante sottolineare che ciò vale anche quando si tratta di diritti già riconosciuti: se un'espressione come «quella donna ha diritto di abortire, ma ciò è moralmente sbagliato», continua ad avere senso, allora l'appello al diritto può funzionare solo come riassunto dell'argomentazione etica, ma non può sostituirla interamente. Al di là del fascino esercitato dal linguaggio dei diritti, qualunque strategia argomentativa (sia prò, sia contro) focalizzata sull'appello ai diritti non esime comunque dal l'offrire buone ragioni morali indipendenti del perché sia giusto fare quel che si rivendica dì avere il diritto di fare.

J

Tornerò alla fine

sull'effetto «riduzionistico» che talora può avere l'appello ai diritti. Per ora mi interessa solo sottolineare che tale appello non sembra sufficiente a risolvere il problema morale dei limiti, né quando si assume come centrale il diritto al figlio, né quando si assume come centrale il diritto del figlio. Conviene allora abbandonare questo incerto terreno per provare a porre la nostra questione in termini di preferenze, interessi e bisogni delle persone coinvolte. Ci si può chiedere: diventare genitori per mezzo delle NTR è un buon modo, o almeno un modo accettabile, per diventare genitori? E nascere per mezzo delle NTR è un buon modo, o almeno un modo accettabile, di concepire un evento così delicato e importante quale la generazione della vita umana? Io non ho dubbi che la risposta alla prima domanda debba essere positiva, ma non argomenterò ulteriormente in proposito. La questione centrale, in relazione ai vincoli all'accesso, sarebbe piuttosto quella di discutere se le NTR debbano essere considerate

soltanto uno strumento per ovviare all'infertilità o anche un modo alternativo a quello «naturale» di avere un figlio. Penso, ad esempio, che occorre porsi il problema di una risposta non emotiva da dare a chi intende scegliere di diventare genitore non per mezzo di normali rapporti sessuali, anche alla luce della recente Raccomandazione del Parlamento europeo contro le discriminazioni verso gli omosessuali in materia di matrimonio e di adozione. Salto comunque questi punti, per concentrare l'attenzione sulla seconda domanda, che è il terreno di discussione preferito da chi assume sulla questione dei limiti una posizione fortemente restrittiva. In genere, qui viene portato innanzi uno scenario di questo tipo. Ci si chiede, in primo luogo, se il concepire un evento così delicato e importante quale la generazione della vita umana entro un contesto tecnologico e «disumanizzato» non trasformi (in peggio) la nostra visione della vita. Quel che è in gioco, insomma, sarebbe il nostro stesso concetto di umanità». Non sono tanto le tecniche in se stesse, quanto il tipo di atteggiamento che esse possono sviluppare, orientato dai valori propri della tecnologia (potere, controllo pubblico, efficienza) a destare preoccupazioni, in specie quando a ciò si aggiunge, almeno in certe forme (l'utero in affitto), l'aspetto della commercializzazione7. In secondo luogo, dobbiamo chiederci se per il bambino nascere come risultato di un progetto della nostra volontà perseguito entro un contesto tecnologico, piuttosto che come risultato dì un evento naturale, non sia già una lesione insanabile della sua dignità di (futura) persona.

4 Ora, quanto alla prima questione, essa attira la nostra attenzione su conseguenze generali riguardanti l'intere società. Non intendo certo sottovalutare la rilevanza delle preoccupazioni che essa sottende, ognuna delle quali richiederebbe però un discorso a parte che non è possibile affrontre

compiutamente qui. Mi limito ad osservare che non è facile individuare il tipo di

conseguenze che una eventuale (e massiccia) diffusione delle NTR potrebbe avere; e soprattutto, non è indiscutibile che tali conseguenze siano da valutare necessariamente e prioritariamente come negative. Potrebbe certamente cambiare (e già cambia) la nostra concezione della famiglia: ma perché la futura concezione dovrebbe essere peggiore della attuale? Tutto ciò che si può dire è che potrebbe essere

differente, esattamente come la nostra concezione (che non è certo un dato di fatto statico o sottratto alla storia e alla cultura) è differente da quella propria dì altre culture o di altre civiltà.

Il secondo punto richiede invece una riflessione più

circostanziata. L'idea che sembra soggiacervi è che la generazione naturale garantisce la dignità della futura persona in quanto mancherebbe (o dovrebbe mancare) in essa quell'elemento di progettualità che invece è intrinseco alle (ed anzi è esaltato dalle) NTR: generare un figlio — ha scritto O. O'Donovan —è impartirgli il nostro proprio essere, non renderlo scopo di un progetto della nostra volontà. Ciò che così viene sottolineato nella generazione naturale è evidentemente l'elemento della casualità: nel lasciare che qualcosa accada casualmente, pur avendo le possibilità tecniche di intervenire, noi ci affidiamo alla divina

provvidenza e riconosciamo che quel qualcosa giace al di là della nostra competenza. Invece di diventare un «fare strumentale» (making), la nostra

partecipazione all'evento resta un semplice «agire» (doing). Questo discorso ci porta al livello di scelta di stili di pensiero e di vita morale che vorrei, in questa sede, lasciare da parte. Mi limito solo ad osservare che molti considerano un progresso della nostra epoca l'introduzione di elementi di progettualità e di pianificazione (se, come e quando fare figli) anche nella procreazione naturale, senza che per questo il «valore» dei figli sia percepito in alcun modo come sminuito. Detto questo, io non credo però che sia una buona strategia argomentativa quella di sbarazzarsi di queste obiezioni semplicemente rilevando che fanno riferimento a stili di pensiero morale sostenuti da premesse di natura teologica; c'è anche questo, ma quelle obiezioni possono essere riformulate in termini di valutazione delle conseguenze delle nostre scelte sugli altri soggetti coinvolti e nessuna recente teoria etica, men che mai una «laica», può escludere la valutazione delle

conseguenze dai fattori che determinano il giudizio morale sulle nostre azioni e scelte. Se è vero che il terreno della valutazione delle conseguenze è quello cui soprattuto deve fare riferimento la scelta di questa o quella politica pubblica in società pluralistiche, allora un'etica laica non può pensare di cavarsi d'impaccio sostenendo, ad esempio, che quando una coppia decide di esercitare (in modo «artificiale», non potendolo fare

naturalmente) il proprio diritto a procreare «poiché il figlio non

c'è ancora, possono essere oggetto di valutazione soltanto le aspirazioni dei coniugi, la loro idoneità a diventare genitori»'». Luciano Violante ha ragione se intende dire che uno dei modi in cui mostriamo rispetto per le persone sta nel non porre, senza sufficienti ragioni, vincoli preventivi alle loro scelte. 11 fatto è che bisogna poi mostrare che quelle «sufficienti ragioni» non esistono e non eludere il problema dicendo

semplicemente che il bambino, non essendoci ancora, non può reclamare la nostra attenzione. Questo è un tipico caso in cui l'appello al diritto (in questo caso: di procreare) serve ad eludere la sostanza delle questioni etiche. Dopo tutto, noi ci preoccupiamo delle conseguenze delle nostre azioni su coloro che ancora non esistono (vedi la tematica delle generazioni future) o che non possono avanzare pretese (vedi la questione «animalista»). Perché mai non dovremmo allora accettare la sfida di porre al centro delle nostre preoccupazioni il benessere del bambino? E proprio vero che così facendo si sfocia necessariamente in politiche restrittive?

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In un rapporto del Segretariato del Consiglio d'Europa si legge che quali che siano i vincoli all'accesso alle NTR, la condizione sine qua non del ricorso ad esse è che queste tecniche «non dovrebbero essere utilizzate se non nel caso che esistano le condizioni per assicurare il benessere del nascituro, dandogli in particolare la possibilità di svilupparsi in un ambiente che gli permetta il pieno dispiegamento delle sue capacità fisiche, mentali e morali»". E probabile che gli estensori del rapporto abbiano pensato a questa condizione in funzione fortemente restrittiva. Ma è necessariamente così? Invece di escludere il benessere del nascituro dall'orizzonte delle nostre preoccupazioni, possiamo provare a sottoporre questo principio al vaglio razionale per saggiarne l'esatta portata.

Quando la nostra attenzione si concentra sulla valutazione delle conseguenze che possono essere connesse alle specifiche modalità del nascere, l'interrogativo che dovremmo porci è se nel perseguimento dei beni ai quali la vita dà accesso un bambino nato per mezzo delle NTR sarebbe svantaggiato rispetto agli altri per cause imputabili alle modalità della nascita; e inoltre, se le cause di tali svantaggi siano

ineliminabili o dipendano dalla nostra capacità di orientare i processi individuando i vincoli 40

idonei a evitare o minimizzare tali svantaggi e certamente a non crearne di nuovi. Ora, a me sembra ovvio (e direi anche banale) dire che al centro delle nostre preoccupazioni in materia procreativa debba esserci il benessere dei futuri bambini: di tutti, intendo, anche di quelli nati col metodo «naturale». Mi chiedo allora in che senso questa

preoccupazione sia utile a dettare limiti specifici e preventivi solo in materia di procreazione assistita. Si può, ad esempio, ricordare che in genere chi ricorre alle nuove tecnologie presenta già le caratteristiche desiderabili del buon genitore e non solo sotto l'aspetto delle condizioni materiali di esistenza. L'intensità del desiderio di avere un figlio — che induce a sottoporsi a una procedura stressante — è un buon indizio del fatto che probabilmente il bambino sarà allevato con grande amore e in condizioni di stabilità di coppia che tutti riteniamo desiderabili in generale: negli Stati LJniti, il lasso di divorzio scende dal 49% all'I % tra le coppie che hanno fatto ricorso alle nuove tecnologie. Ci si potrebbe chiedere allora perché dovremmo preoccuparci di garantire in via preventiva ai bambini nati «artificialmente» le condizioni ottimali che invece non ci preoccupiamo di garantire, sempre in via preventiva'-, anche ai bambini nati «naturalmente».

Si potrebbe sostenere infatti che per questa via si creerebbe una paradossale situazione: se noi riteniamo di dover sottoporre la nascita di bambini per mezzo delle nuove tecnologie a severi vincoli diretti a garantire loro le condizioni sopra ricordate, probabilmente questi bambini (se mai ne nasceranno ancora) avranno condizioni di vita mediamente superiori a quelle degli altri bambini. Cosicché, se proviamo a metterci dal punto di vista dei futuri bambini (che non sanno con quale metodo nasceranno), può darsi che essi ci chiederebbero non solo di permettere, ma anzi di incoraggiare il ricorso alle nuove tecnologie, in modo da aumentare le loro chances di essere tra i fortunati; oppure di sottoporre ad analoghi vincoli preventivi la procreazione «naturale». La conclusione può sembrare paradossale, ma forse serve a mettere in rilievo che il vaglio razionale può consentirci di individuare le premesse implicite che giacciono sotto certi vincoli: ad esempio, l'idea che, indipendentemente da quel che noi possiamo fare, nascere per mezzo delle nuove tecnologie non è

intrinsecamente un buon modo di nascere e che quindi al bambino è dovuto un «risarcimento». Ma se è cosi, è

solo il piano della discussione razionale che può costringere chi intende accettarne le regole ad esplicitare queste premesse, discutendone apertamente invece di farle agire surrettiziamente.

^ ^ Questo può essere un ^ P M modo plausibile di ^ ^ ^ accettare la sfida lanciata da chi ritiene che i limiti all'accesso devono essere modulati a partire dall'esigenza di salvaguardare il benessere del futuro bambino. Non tocco neppure la questione di sapere che tipo di limiti, per questa via, converrà porre. So però che una discussione genuinamente razionale eviterebbe che limiti e vincoli vengano posti sulla base di emozioni o sentimenti vari d'indignazione o sulla base di implausibili analogie (ad es., con le leggi sull'adozione) o comunque in modi che risultano, ad un attento scrutinio razionale, arbitrari ed

indifendibili. Un esempio può forse chiarire meglio quel che intendo dire.

In una delle leggi europee più recenti (quella austriaca del 1992), il ricorso al donatore è consentito solo nel caso dell'inseminazione artificiale, ma è vietato nel caso della corrispondente tecnica in vitro: ciò vuol dire che è lecito tentare di superare una impotentia generandi dell'uomo, ma se anche la donna ha bisogno della fecondazione extracorporea, il ricorso al donatore diventa illecito. Quale sia la ratio soggiacente è difficile comprendere; ed ancor più difficile è capire perché l'inseminazione eterologa è consentita solo nel caso di infertilità del seme maschile, mentre è vietata nel caso in cui il seme maschile sia portatore di una malattia ereditaria: qui la coppia viene posta

nell'angoscioso dilemma tra il non poter soddisfare il proprio desiderio di genitorialità e il mettere a rischio la salute del nascituro. La legge si ripromette di evitare finalità eugenetiche: ma. a parte l'equivocità di questa espressione, perché allora imporre, nel caso dell'inseminazione eterologa, un attento screening genetico del seme donato? Sembrerebbe che al nascituro «artificiale» si voglia garantire una «buona nascita» (e questo è eugenismo"), mentre consentiamo che il nascituro «naturale» rischi di avere una «cattiva nascita».

È difficile individuare un criterio di razionalità in tutto ciò. Ho l'impressione che questi limiti (come anche quelli, ad esempio, relativi all'età: il caso delle nonne-madri) dipendano dall'agire surrettizio di quello che è stato chiamato effetto simulatorio: tanto più accettabile appare una tecnica

quanto meno si allontana dal modo naturale di ottenere una gravidanza. Ma è assurdo che una legge, sulla base di questo effetto, ordini le tecniche in una scala gerarchica e imponga, segnando un limite in un punto della scala, determinate scelte. Bisogna tener conto del fatto che ognuno di noi, in dipendenza dalle proprie convinzioni morali, può avere idee differenti circa quel che, nel procedimento naturale, merita di essere massimamente salvaguardato. Ad esempio, a parità di altre condizioni, se una coppia privilegia per ragioni morali l'inviolabilità ed inaccessibilità dell'embrione umano nell'utero materno probabilmente preferirà le tecniche che garantiscano ciò; mentre la preferenza per la fecondazione in vitro potrebbe indicare sollecitudine per la salute del nascituro". Credo quindi sia da preferire un tipo di legislazione aperta e «minimale» nei principi, più dettagliata nella normazione delle conseguenze delle scelte procreative sullo status delle persone. Se infatti assumiamo, almeno come dato di fatto, la pluralità delle comunità etiche che convivono all'interno delle nostre società, allora non possiamo più assegnare al diritto la funzione dì legittimare

Nel documento Sisifo 27 (pagine 38-43)

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