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STUDENTI SENZA SPONDE

Nel documento Sisifo 27 (pagine 48-53)

di Adriano Ballone

m untualmente, W nell'autunno-inverno m r 1993 sono tornati alla ^ L . ribalta delle cronache giornalistiche i giovani studenti. I inedia, come da qualche tempo sempre più frequentemente, se ne sono impadroniti, con affabilità e determinazione, e ne hanno costruito un'immagine: quella dì studenti «arrabbiati» contro il ministro, decìsi a bloccare una riforma, già approvata dal Senato, della scuola media superiore che li penalizzerebbe; espressione, gli studenti e la riforma, di un «disagio» soggettivo e collettivo che sì trascina da un paio di decenni per un sistema scolastico «che non funziona». Se si studiasse con attenzione il ruolo dei media nell'orientale, oltre che nel rappresentare, ì labili movimenti sociali di questi anni, probabilmente ci sorprenderebbe non tanto l'incidenza (e forse l'efficacia) di tale ruolo, quanto l'impermeabilità dei «movimenti» a subire una gestione eterodiretta. Sembra un paradosso che però non è stato studiato con il necessario equilìbrio: a mano a mano che i media danno spazio al movimento allo stalli nascenti, questo si rinserra su se stesso e tende a scomparire. Si direbbe che i media, prestando ascolto e voce ai giovani studenti, sottraggono vitalità e radicalità. II fenomeno si registra in un clima di percepibile «simpatia» da parte di non pochi giornali e giornalisti per ì comportamenti studenteschi di «protesta» e di manifestazione del «disagio». Tanto che A. Panebianco ha voluto stigmatizare quella che definisce una «schizofrenia» dei media: il passare da un «servizio» sulle tangenti, «in cui si invoca con fervore il ripristino della legalità», a pezzi giornalistici «su blocchi stradali o su occupazioni di scuole (tipici reati "di sinistra", reati "di popolo") in cui il valore legalità scompare

improvvisamente dall'orizzonte e dagli interessi del cronista e ciò che invece conta è sostenere più o meno entusiasticamente il "popolo in lotta"»'. A questa presa di posizione, in linea teorica ineccepibile, hanno fatto eco, come poteva essere prevedibile, più acuti richiami al «disciplinamento» e

aH'«autocontrollo» contro le «evidenti strumentalizzazioni», richiami dovuti talora a chi da un lato propone «carte dei diritti» degli studenti e dall'altro teme una «riedizione del sessantotto»2. In questa oscillazione è evidente un atteggiamento contradditorio degli addetti alla scuola nei confronti degli studenti: preoccupazione per un «silenzio» giovanile, indice forse di una «passività» diffusa non definibile in termini sociologici tradizionali, talvolta

anche di una «resistenza al nuovo» o addirittura di una indifferente «estraneità» ai progetti educativi dell'istituzione; nello stesso tempo, precauzione verso una possibile «devianza di massa», scatenata appunto da un «disagio profondo», non più governabile e tale da riproporre non lontani fantasmi di violenza e di contestazione. Credo che questo approccio complessivo alla scuola e al vissuto giovanile dentro la scuola sia in larga misura datato, scarsamente utile a farci comprendere le dinamiche sotterranee che attraversano i comportamenti giovanili e studenteschi, viziato da un eccesso di pedagogismo. Da altri punti di vista occorre partire e con una melodica di «osservazione partecipante», di immersione (e distacco) nelle manifestazioni, nelle occupazioni, assemblee, autogestioni, cioè nei momenti di maggiore visibilità del movimento, ma anche nel vissuto «normale» dell'ambiente scolastico'.

hi ha avuto modo di £ / seguire dappresso i

movimenti studenteschi degli ultimi anni (1977-1985-1993, in parte il movimento della «pantera» universitaria del 1990), non può non essere colpito della ciclicità di queste «emergenze»; è un dato non più trascurabile che riguarda un trend di sette/otto anni, streltamente legato al periodo autunnale/invernale dell'anno scolastico, precedente ogni modo la conclusione del primo quadrimestre (fine gennaio), e caratteristico del movimento degli studenti medi, i quali inoltre rifuggono e certo non cercano un collegamento con gli universitari, quasi che tra gli uni e gli altri sia intervenuta una frattura comunicativa. In parte questa distonia o sfasatura tra movimento universitario e movimento dei medi ha un riverbero sulla produzione di documentazione scritta, fonte prima e insostituibile per la ricerca storica: che sia questa oppure no la causa, occorre constatare che, almeno dal 1985, gli studenti «in movimento» producono rari documenti, qualche volantino, perlopiù graffiti murali, soprattutto slogans e striscioni. Il sintomo è importante e non andrebbe trascurato, poiché vi contribuiscono, e quasi congiurano, molte ragioni: la minore dimestichezza, rispetto alle generazioni precedenti, degli studenti con la scrittura, con il testo scritto, con i messaggi verbali (in un contesto dove pure, come documentano recenti indagini, la lettura non è assente dalle scelte giovanili); l'insofferenza, prodotta probabilmente dalla scuola stessa e dall'insegnamento.

verso una elaborazione scritta complessa e articolata (che, per altro, anche gli insegnanti soprattutto di scuola media superiore manifestano); la prevalenza, nella

comunicazione interpersonale, di una gergalità di linguaggio allusivo e, apparentemente, impreciso non trasferibile nel codice scritturale. Ragioni tutte (ma altre occorrerebbe aggiungerne) che rinviano a problemi di più vasta portata attorno ai quali sarebbe necessario riflettere con più acume e prudenza di quanto non si sia fatto finora-1.

i pare però che la scarsa produzione di scritti — e il dato va ammesso senza reticenze — sia la conseguenza, o la

manifestazione, di una del tutto insufficiente riflessione teorica: già in alcune situazioni vi erano state avvisaglie di questo fenomeno nel movimento del Settantasette, che si sono andate generalizzando negli anni successivi. Il «movimento» si esprime — e il punto di massima evidenza di ciò lo si è registrato nel 1993 — più per «stati d'animo», per «lampi di fantasia», per «appercezioni simboliche», che attraverso ragionamenti, analisi, deduzioni, procedure logiche: un indubbio primato del sentimento sulle fredde ragioni valutative. Ciò non significa che gli studenti esprimono un punto di vista banale o superficiale: osservati da vicino, come nota giustamente C. Martello, essi appaiono «meno sprovveduti di quanto non inducano a ritenere i pareri degli esperti che affollano le redazioni dei quotidiani e dei rotocalchi di più apia tiratura»5. Sulla questione, ad esempio, della «privatizzazione» gli studenti hanno — e n questo non sono estranee le preoccupazioni de docenti per una riforma della scuola che rimodella il loro ruolo e ne chiede un coinvolgimento personale più elevato — preso un evidente abbaglio, non essendo in gioco, né nella Legge Finanziaria che all'art. 4 ha sanzionato l'autonomia scolastica, organizzativa, fnanziaria, didattica dei singoli istituti", né nelle proposte del progetto della «commissione Brocca» di riforma dei programmi e dei piani di insegnamento, né nella poi ripudiata legge di riforma degli ordinamenti della scuola media superiore, la questione della «privatizzazione». Pur però sbagliando bersaglio, gli studenti hanno intuito un pericolo reale: il crescente disinteresse del «pubblico», dello Stato, del ministero per i destini della scuola e della formazione culturale delle giovani generazioni. Ma hanno

proceduto, appunto, più per «intuizione» che per corretta valutazione dei dati.

uesta modalità di «scoperta» politica rende È assai più difficile la

comunicazione intergenerazionale, non solo perché i codici di riferimento sì specializzano e si distanziano, ma anche perché rende più vulnerabili, sul piano della capacità dialettica e della persuasione retorica, gli studenti, ne mina alla radice la possibile autonomia, sottrae loro la possibilità di far valere le proprie ragioni e

argomentazioni. Non si tratta di essere riduzionisti e manichei, se si imputa molta parte di questo stato di cose alla oramai pressocché totale assenza, nei programmi di insegnamento e nella pratica didattica reale, dì una seria riflessione sul presente, sulle sue aporie, sulle sue conflittualità esplosive o inespresse, sui suoi itinerari incerti e mal definibili. Questi studenti vivono un paradosso difficilmente spiegabile: «bombardati» da informazioni eppure privati di una chiave di lettura. Troppe notizie e poca interpretazione: le une e l'altra poi senza un aggancio scolastico ad una pratica euristica. Non il presunto «disagio», categoria oramai così abusata da esser divenuta strumento inservibile e paradigma infedele, ne deriva, ma un disorientamento reale, una rinuncia ad approfondire, a valutare, a scegliere. Che è la rinuncia — lo si dica senza timori — operata dagli insegnanti da troppo tempo. Un antico slogan imposto alla scuola italiana in epoca gonelliana («a scuola non si fa politica»), ridicolizzato negli anni Settanta, è tornato prepotentemente ad imporsi nella pratica didattica per timore di riproporre quelle

semplificazioni e ritualità della «contestazione studentesca». Senza un confronto sul presente — senza cioè un dibattito e un confronto politico, nel senso più suggestivo del termine — i giovani vengono privati della possibilità stessa di scegliere. Tanto più quando, come oggi succede, le «ideologie forti» si mimetizzano sotto forma di «non-ideologie» o utilizzano surrettiziamente i modelli e gli schemi del senso comune, quindi veicolano «ideologie» a scarsa potenzialità

autoriflessiva. Questo è il contesto culturale nel quale maturano i movimenti giovanili e studenteschi, non, come ritiene L. Corradini, in una «sedimentazione» anacronistica di motivi e temi del Sessantotto, di cui gli studenti di oggi hanno vaga e imprecisa memoria o nebulosa conoscenza o addirittura generale ignoranza.

¿ p ppure sarebbe improprio • y dire che i giovani studenti

si rifiutano di operare scelte: parlerei piuttosto di una «soggettività debole»', di una adattabilità, paradossalmente poco flessibile, alle

sollecitazioni contradditorie del presente, di una autonomia più personale che collettiva, gestita nel rapporto diretto e immediato con l'adulto e determinata da situazioni particolari e specifiche e perciò mutevoli. Quasi paradigmatiche sono le modalità di crescita e di sviluppo del movimento nel 1993: ogni volta le «autogestioni» vengono concordate e pattuite tra i leaders momentanei degli studenti e la dirigenza scolastica (presidi e talvolta consigli di istituto). Non solo: il

coinvolgimento degli insegnanti risulta determinante nella definizione di un «programma» di lavoro e di ricerca per le autogestioni. Laddove questo coinvolgimento non risulta, per varie ragioni, possibile, le «autogestioni» si avvitano su se stesse e appaiono fallimentari e incapaci di proporre una ipotesi dì scuola diversa da quella abituale. Ad una «soggettività debole» corrisponde un «movimento debole», possibile vittima di fascinazioni e di dipendenze. Ciò che appunto emerge con tutta evidenza è l'assenza di un punto dì vista studentesco, articolato e ragionato, che proponga un modello alternativo di scuola e di alfabetizzazione culturale. Emerge invece l'esigenza, sorretta anche dagli insegnanti «democratici», di una informazione più puntuale sui problemi del presente e sulle difficoltà del vissuto quotidiano giovanile. Se si passano in rassegna i temi e gli argomenti affrontati nelle autogestioni scolastiche, si resta colpiti da questo «bisogno» di «capire» e di «saperne di più» o su questioni di stretta attualità o su aspetti della «vita scolastica». Ad esempio, i temi della sessualità (che nel Sessantotto avevano costituito un potente grimaldello di «liberazione» personale e collettiva ed erano stati i primi indicatori di una «ribellione» modemizzatrice contro una morale ipocritica e a doppio binario) o il riferimento alle grandi correnti

internazionali di pensiero (che nel Sessantotto aveva rappresentato, sia pure in modo schematico e semplificato, il momento più intenso di rottura del provincialismo culturale italiano) sono del tutto assenti o limitatissimamente presenti nei programmi autogestiti; quando sono presenti, lo sono in modo indiretto, come «educazione alla sessualità», ad esempio, o come informazione sulle «malattie sessuali», soprattutto Aids. Solo in un caso, per quanto riguarda la realtà piemontese (ma il dato

va assunto con qualche cautela, data la difficoltà a raccogliere documentazione su questo versante), ho notizia di un gruppo di lavoro studentesco sulla guerra nella ex-Jugoslavia: nulla su quanto succede nella ex-Urss, nulla sulle tante guerre locali dimenticate, nulla sulle tragedie africane o sud-americane. 1 temi della politica intemazionale e della

condizione dei popoli dei mondi non benestanti sono quasi del tutto estranei all'orizzonte di interesse delle giovani generazioni. 11 dato è, a mio giudizio, inquietante, poiché lascia intuire una

autoreferenzialità del «movimento» e della

condizione studentesca che resta rinserrata nella costruzione di una soggettività a dimensione, direi, localissima. Destino simile tocca ai temi

dell'economia, della finanza e della produzione e quindi del mercato intemazionale e delle «guerre finanziarie»: si direbbe anzi che l'alfabetizzazione economica sia del tutto scomparsa dai processi di formazione e autoformazione culturale dei giovani. E ciò malgrado sia essa contemplata nei programmi di insegnamento della storia, del diritto, della economia appunto, dell'educazione civica, della geografia e, laddove si praticano, delle scienze sociali. Amaramente dobbiamo constatare una refrattarietà o una indisponibilità a trattare argomenti di carattere economico. Assai presenti sono invece i temi degli sbocchi professionali (soprattutto negli istituti tecnici e in quelli professionali), della «preparazione al lavoro», non più certo di una improponibile acquisizione di un «mestiere», ma semmai di una formazione idonea, purchessia, a trovare una occupazione: sintomo di una preoccupazione acuta per un inserimento nel «mondo del lavoro» che la crisi economica e le trasformazioni del mercato lasciano intravedere sempre più problematico. Anche se mi pare, impressionisticamente, che la preoccupazione sia affrontata con un atteggiamento al quale non sono estranei sensi fatalistici. Mafia, razzismi, violenza sportiva sono i temi più frequentati dai grappi di lavoro o dalle assemblee nelle autogestioni: temi appunto di stretta attualità cronachistica, sui quali converge il consenso di una fascia di docenti, per Io più di discipline umanistiche. Quando gli studenti propongono percorsi dì approfondimento del tutto autonomo, è verso la musica e la scuola che gli argomenti si indirizzano. E se nel primo caso constatiamo, non senza una qualche sorpresa, il riemergere di stili e miti musicali di un trentennio fa (i Doors, ad esempio, i Genesis, i

1 Pink Floyd), nel secondo caso e avvertiamo un'embrionale i] tensione a pensare ad un ri modello di scuola diversa, ma p quasi in stretta continuità con • quella più nota e conosciuta.

0 n nessun modo viene . jm messa in discussione ^ M' l'istituzione scuola, che

anzi appare quasi i indispensabile (se non centrale) s alla formazione dei giovani: la a scuola è, nel campo visivo dei i giovani, una realtà

i imprescindibile. C'è e non se ne q può fare a meno. Non solo: i nelle sue strutture fondamentali, i nei suoi assetti, nelle sue ] procedure appare i immodificabile anzi I preferibilmente non i modificabile, questo sembra il ) convincimento implicito che 1 presiede al rapporto tra giovani i e scuola. Ed è la spia di una ì radicale trasformazione ) culturale intervenuta nella

società italiana dal 1968 ad oggi j e che si potrebbe definire come i una interiorizzazione del valore i istituzionale e culturale della » scuola da parte delle giovani generazioni8. Se l'istituzione : scuola non viene messa in i discussione, interrogativi, I problemi, richieste riguardano i invece il vissuto scolastico, il i modo di stare a scuola, quello i che il ministero, un po'

improvvidamente, ha definito lo «star bene a scuola» in uno dei suoi Progetti Giovani. In particolare due aspetti vengono posti al centro dell'attenzione, aspetti interattivi e convegenti: essendo la scuola entrata nel patrimonio esperienziale dei giovani, chiedono che tutto il vissuto scolastico sia legittimato con pari dignità; dall'altra parte, avendo con gli insegnanti un rapporto continuativo, si vorrebbe che altrimenti venisse impostata la relazione educativa. Sull'uno e sull'altro aspetto qualche riflessione occorre fare, poco più di una suggestione.

Che la scuola sia oramai strutturante nella formazione psicologica e intellettuale, ma anche comportamentale e cognitiva, dei giovani, è constatazione persino banale: dalla quale però non sono ancora state ricavate tutte le conseguenze sul piano dei comportamenti e dei riferimenti valoriali collettivi. A scuola «si cresce» non solo grazie all'insegnamento impartito, ma anche grazie a una

«socializzazione clandestina» sempre meno clandestina, cioè sempre più visibile e

riconosciuta: le diverse forme di socializzazione, di

comunicazione, di interazione che si manifestano a scuola e lì si strutturano, sono, nella consapevolezza degli studenti, altrettanto importanti e decisive della socializzazione normativa e istituzionale. Il tema dei diritti

dello studente" è, non casualmente, uno dei più affrontati, poiché uno dei più sentiti e dei meno rispettali a scuola: ma non si tratta di una più acuta sensibilità per i diritti dell'utente, che mi pare invece del tutto assente dalla percezione studentesca. 1 diritti dello studente sono concepiti come specificazioni di un più generale diritto di cittadinanza e di visibilità per quei percorsi e quelle modalità di crescita culturale che l'istituzione scolastica considera marginali, ininfluenti o addirittura inefficaci. Da questo punto di vista, le manifestazioni di insofferenza dei giovani verso luto ciò che produce una condizione di «malessere scolastico» non possono essere lette come sintomatologia del «disagio», nell'accezione tradizionale, quanto come indicatori di uno stato di «stress» psicologico e collettivo. Per meglio spiegare, possiamo ricorrere ad un esempio.

ulla questione della valutazione didattica si concentrano molte tensioni e la più generale richiesta di riconoscimento dei diritti studenteschi: non viene espresso alcun rifiuto della valutazione (al più un superamento del «voto di condotta»

legittimamente considerato un contenitore onnicomprensivo e dunque difficilmente

controllabile e fonte di equivoci e contrasti determinati dal suo inevitabile carattere di minaccia e di vessazione), semmai una pressante richiesta di chiarezza e trasparenza delle procedure valutative e di funzionalità rispetto alla coerenza progettuale e programmatica. Non emergono in alcun modo propensioni verso modalità autovalutative e neppure propositi di abolizione dei tradizionali voti decimali: ma una regolazione pattuita e contrattata delle regole che presiedono al processo valutativo. La differenza rispetto alle richieste formulate dal movimento degli studenti del sessantotto è davvero grande, sotto questo profilo. Da questo, la difficoltà e, a mio giudizio, l'inopportunità di leggere le insofferenze degli studenti di oggi come «disagio esistenziale»: segnalano invece i logorìi e gli affaticamenti che vengono indotti da un sistema scolastico progettualmente superproduttivo e concretamente inefficiente e inefficace. Credo vada considerata, allora, corretta e auspicabile l'intromissione, direi il coinvolgimento pieno e non la eterodiretta

«partecipazione», degli studenti nella definizione degli obbiettivi formativi ed educativi, degli standards di formazione, nella organizzazione e nel governo

della scuola, nella progettazione di curricula disciplinari e interdisciplinari. Anche quando tale intromissione potrà configurarsi come disagevole contrattazione tra soggetti con diverse finalità. Rifiutare l'intromissione degli studenti rischia, oggi, non solo di essere una inutile chiusura

antidemocratica, ma soprattutto uno spreco di risorse, energie, intelligenze.

j i a altra parte, gli ¿ J J studenti stessi — se

tutto ciò che si è sinora detto risulta confermato da altre esperienze — appaiono assai più autocontrollati di quanto un modo abituale di interpretare il «conflitto intergenerazionale» lasci sospettare: si direbbe anzi — e ne hanno sensìbile esperienza coloro che hanno seguito dappresso le autogestioni — che i giovani studenti si ritraggono appena il confronto con il mondo adulto prende le mosse di un conflitto esplicito e impegnativo, preferendo modalità conflittuali morbide e in qualche misura non aggressive. Si è rarefatto, nel vocabolario gergale giovanile, ad esempio il termine «lotta» e quando compare rinvia a comportamenti che poco hanno a che fare con l'immagine tradizionale, non necessariamente di scontro fisico, soprattutto di derivazione operaia, che ci consegna una contrapposizione netta e non sanabile. L'approssimazione ad un compromesso pare essere, tra le modalità di comportamento collettivo, quella prevalente nel movimento degli studenti del 1993. Tutto ciò, al di là del semplificato commento agli slogans degli studenti che i media hanno profuso, sollecita agli insegnanti la ricerca sincera, e certo scomoda perché necessita di decentramento cognitivo, non solo dei motivi profondi che originano il «malessere scolastico», ma anche delle implicazioni che la scuola di massa impone sul ruolo sociale dei docenti.

1 A. Panebianco, La legalità

populi-sta, in «Il corriere della sera», 22

di-c e m b r e 1993. G r a n d e s p a z i o al «movimento» è stato dato da tutti i quotidiani e dai settimanali. Come esempio dì scoperta simpatia vorrei citare solo questo: M. Bussoletti,

Contro il nome della Rosa, in

«Pa-n o r a m a » , 12 d i c e m b r e 1993 (ac-compagna l'articolo una intervista al ministro Jervotino; commenta il « m o v i m e n t o » R. Vecchioni), nel quale sì dice che «autonomia, tolle-ranza e democrazia sono il credo della maggior parte degli adolescen-ti».

2 Si veda ad esempio L. Corradini,

Simboli e messaggi delle mobilita-zioni studentesche, in «Nuova

Se-condaria», a. XI, n. 6, 15 febbraio 1994, pp. 11-12.

3 In questa direzione si è mossa M. Sciavi, A una spanna da terra, Fel-trinelli, Milano 1990, suggerendo un percorso di ricerca originale e in-novativo. Il periodico mensile della FNISM, Federazione Nazionale In-segnanti, ha pubblicato, nel corso del 1993, una serie di interventi di studenti sul «mal di scuola» che per molti versi sono stati una avvisaglia di umori, sensibilità, temi del futuro movimento.

4 Cfr. Il linguaggio giovanile degli

anni Novanta. Regole, invenzioni, gioco, a cura di E. Banfi e A.A.

So-brero, Laterza, Bari 1992.

5 C. Martello. Jurassic School oltre

gli slogans, in «L'eco della scuola

nuova», periodico mensile della

Nel documento Sisifo 27 (pagine 48-53)

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