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Sisifo 27

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Academic year: 2021

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(1)

Sisifo

^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ A k Idee ricerche

^ ^ ^ ^ ^

Gramsci » piemontese ^ f l H v maggio

GIANCARLO

di C e s a r e R o c c a t i Zanzibar'!. ^mf iancarlo Corcano ci ha ÌM lasciati, per un attacco ^^W cardiaco, la sera de124 ^^^ dicembre. Giancarlo aveva 59 anni. Fino alle 20 aveva lavorato in redazione per organizzare l'edizione serale del Tg piemontese. Poi era rientrato a casa per trascorrere in famiglia la festa natalizia. Un malore, la breve corsa in

ospedale, il decesso.

Ci sono uomini che se ne vanno lasciando di sè il ricordo delta loro vita, altri che lasciano anche il ricordo delle loro opere. Giancarlo Corcano apparteneva a questi ultimi. Chi ha scritto di lui, nei giorni della sua scomparsa, ha ricordato l'uomo che in tanti abbiamo conosciuto: il democratico, l'antifascista, il compagno senza tessera «con il cuore e la mente dalla parte degli uomini di coscienza», l'uomo del dialogo, il «suo sorriso velato di tristezza», la sua grande ironia (tutti ci aveva ribattezzati: chi «garitula», chi «iuomo coI tascapane», chi più semplicemente — ed ero io — «Pinot»), la sua carica umana. Perché Giancarlo era tante cose assieme e la sera che lo abbiamo ricordato, tutti assieme al Circolo della Stampa, ognuno lo ha visto con occhi diversi: tutti straordinariamente umani.

Diego Novelli, che di Giancarlo fu grande amico, ha ricordato il

suo cammino professionale, quando, magro e smunto, con qualche brufolo sulla faccia, si presentò, a 16 anni, per bussare alla porta del Paese Sportivo, diretto allora da quel civilissimo giornalista che fu Giglio Panza. Pochi mesi prima, a giugno, era scoppiata la guerra di Corea e nell'agosto Cesare Pavese si era suicidato all'hotel Roma. Nell'atrio dello storico palazzo di corso Valdocco, dove si stampavano numerosi quotidiani e settimanali (l'Unità, la Gazzetta del Popolo, Gazzetta Sera, Tuttosport, il Radiocorriere)

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c' erano due box: in quello di sinistra c'era la redazione di Sempre Avanti che da poco aveva chiuso l'edizione torinese, in quello di destra c'era la redazione del Paese Sportivo, una dependance dell'Unità. Corcano si presentò a quel box da solo, senza raccomandazioni, senza lettere di presentazioni, e fu subito assunto (i suoi lo volevano ragioniere) come collaboratore con 5-6 mila lire al mese di rimborso spese.

Poi furono gli anni dell' Unità, della Gazzetta deI Popolo, dove si occupò di politica estera, del Radiocorriere,fmo alla Rai dove portò la sua esperienza nei telegiornali di Barbato. Rendendogli omaggio Novelli ha ricordato che «a differenza di altri giornalisti dell'Unità passati nelle redazioni di quelli che allora venivano chiamati con una vena dì sano settarismo

"giornali borghesi", Giancarlo non si è mai vergognato o pentito delle sue orìgini, combattendo le discriminazioni e le umiliazioni a cui venne sottoposto con il rigore, la serietà, la professionalità». Giancarlo, come ha ricordato Salvatore Tropea che Io ha conosciuto alla «Gazzetta del Popolo», quando Corcano guidò da sindacalista Tautogestione, non era un giornalista come gli altri. Questo mestiere, per lui, «non era soltanto lo stipendio coniugato a quella carriera che molti inseguono quasi fosse l'unica ragione del vivere». Era qualcosa di più. Il giornalismo era la professione che amava, ma anche uno strumento per realizzare quel senso di giustizia che, probabilmente, provò a inseguire nei tre anni

(dal 75 al 78) in cui fu consigliere comunale eletto come indipendente nelle liste del Pei. Non si spiegherebbero altrimenti la sua lunga, tenace, appassionata e sempre umanissima militanza nel sindacato, alla presidenza dell' Associazione Stampa Subalpina e alla Federazione nazionale della Stampa, in cui per anni alternò responsabilità

dirette ( come membro della giunta esecutiva della Fnsi) al ruolo, sempre intelligente, di consigliere nazionale. Non c'è stata battaglia sindacale dagli anni sessanta in poi che non abbia visto Corcano in prima linea (dai tempi di Cefis all'autogestione della Gazzetta del Popolo, agli scontri per rompere cartelli e monopoli); non c'è stato tentativo di rinnovamento (dal movimento dei giornalisti democratici al gruppo dì Fiesole) che non abbia visto Giancarlo tra ì fondatori, sempre tra i protagonisti di primo piano.

M a er almeno tre decenni Corcano è stato uno dei punti di riferimento più importanti del giornalismo democratico italiano, dei contratti di lavoro più innovativi, delle leggi che. negli anni più cupi del potere politico, in cui maturarono stragi e furono tentati golpe di tutti i tipi, hanno creato le linee di resistenza per realizzare una informazione civile, non subalterna ai vari potentati (economici, politici, giudiziari) che, ininterrottamente, hanno tentato di rovesciare le regole de! gioco in questo Paese nato dalla Resistenza e fondato sulla Costituzione.

Giornalista e studioso, Corcano non fu mai un antifascista di maniera. I suoi libri dedicati alla Resistenza e al giornalismo sono una testimonianza di quel suo impegno mai ostentato, sempre disinteressato e generoso, privo di «quella insopportabili civetterie cattedratiche» che hanno spesso snaturato la storia degli uomini. In un suo libro, dedicato al gruppo Rizzoli, fu tra i primi (nel '78) a smascherare le trame della P2 e intravedere gli intrecci penarsi che legavano logge, affari e politica. E quanto sarebbe stato alto il livello dello scontro che poi si sarebbe aperto nel paese. Su incarico della Fnsi, Giancarlo scrisse un libro ( «Il fascismo contro la stampa») che resta una delle testimonianze più alte per non dimenticare mai quella generazione di «coraggiosi dirigenti del giornalismo italiano» che, nel '25 e nel '43, «incuranti delle minacce non soltanto alle loro idee, ma anche alle loro persone», tennero alta la fiamma della libertà.

Ma i suoi interessi per la storia, in particolare delle classi subalterne (una scelta che lo portò a una sincera amicizia con Paolo Spriano e Nuto Revelli), lo hanno guidato lungo tutto l'arco della sua carriera professionale a prediligere le ricerche sulla storia del movimento operaio,

sull' avvento del fascismo, sulla strage del '22 ad opera de! famigerato Brandimarte con

l'incendio alla Camera del Lavoro di Torino e l'assassinio dei suoi dirigenti. E anche il suo ultimo libro ( «Torino

antifascista. Vent' anni di opposizione 1922-1943»), pubblicato significativamente dall'Anppia, l'Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti ; è l'estremo omaggio che Giancarlo ha voluto fare a una città — e alla sua gente, quella delle «rivolte de!pane», della resistenza in fabbrica; dei moti di borgo San

Paolo — che, se fu occupata militarmente dalle camicie nere, non si è mai piegata al fascismo e ai suoi servi.

Questo libro lo abbiamo

presentato assieme al Circolo ' della Stampa in una fredda sera d~v di novembre. E Giancarlo era s felice. C'erano Nicola

Tranfaglìa, tanti ex partigiani, tanti ex internati, tanta gente che non ha mai abbassato la guardia né tanto meno

dimenticato le atrocità compiute 3W

dai regimi totalitari o dalle

destre camuffate di perbenismo, .os Giancarlo quella sera era felice '»i

non solo perché, in tante

mattine, aveva potuto illustrare si

la sua ricerca in numerose

scuole torinesi (luì che esortava D'f

ogni giorno a non dimenticare), .O

ma anche perché tra i relatori ì c'era un ex sindacalista,

Fernando Bianchi, un grande testimone degli scioperi del '43, ; ,0

quelli del grande riscatto, il quale ricordò come scattò la rivolta. Non un fischio o una parola d'ordine, ma semplicemente perché alcuni operai comunisti cambiarono il Vi nastro alle macchine che

timbravano le cartoline. Non più blu, ma rosso. E tutti capirono che l'ora era arrivata. Da quella sera sono trascorsi pochi mesi. E sembrano un secolo. Giancarlo non c'è più. E S

ci manca. Per tante ragioni. Ma anche perché Giancarlo, come 3

ha ricordato Diego Novelli, era sr

un tipico intellettuale torinese un po' schivo, che non amava frastornare il prossimo, modello o\\

«understatement» (che tradotto 01 in piemontese suona come

«esageruma nen») ¡I quale ha sempre saputo trovarsi al

momento giusto al posto giusto. ;! o Sapeva che dietro ogni sconfitta oV

c'è una possibilità di riscatto, basta che gli uomini lo vogliano. E di questi tempi, in cui i figli della P2 e i «nipotini» «i

di Almirante scendono in campo oq

«riciclati» con tutti i loro

armamentari di un passato che í

pensavamo sepolto per sempre, per dettare legge, Dìo solo sa,

tutti sappiamo quanto, anche in ni questi giorni, sarebbero preziosi \va

uomini come Giancarlo.

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SOCIETÀ' LOCALE

IL FUTURO

DEL PIEMONTE:

PROBLEMI E SCENARI

di P a o l o B u r a n II ragionamento enucleato in questo articolo sintetizza

alcuni terni elaborati nella Relazione IRES, sulla situazione economica sociale e territoriale del Piemonte 1993, recentemente pubblicata presso Rosemberg & Sellier.

X

Negli ultimi quattro anni la produzione industriale piemontese ha subito una successione di fasi negative, il cui effetto globale evoca immagini da economia di guerra: le ultime quattro stime trimestrali Unioncamere (ottobre 1992 — settembre

1993) indicano un livello medio di produzione del 25% inferiore rispetto al punto massimo toccato nel 1989. L'utilizazione degli impianti si è ridotta di alcuni punti percentuali, ma il grosso della contrazione produttiva dovrebbe essersi scaricato sulla capacità produttiva installata, con un taglio stimabile intorno al 17%. Per valutare la situazione, si può compararla alla precedente recessione dell'industria piemontese, avvenuta nei primi anni ottanta: in quel caso (del quale tutti ricordiamo il pesante impatto sociale ed economico) la riduzione complessiva dei livelli di produzione fu contenuta al 10%.

La conclusione è evidente: se quella dello scorso decennio fu una crisi-ristrutturazione entro un trend di continuità dell'evoluzione produttiva del Piemonte, la recessione attuale avvia un processo di

deindustrializzazione che potrebbe compromettere seriamente il ruolo e i destini della regione, e che comunque ne mette in questione le formule costitutive. Una conferma di questo

preoccupante giudìzio è fornita dalla capacità reattiva della regione al dischiudersi di nuove opportunità di sviluppo. Negli anni ottanta il Piemonte fu ancora in grado di amplificare la portata della ripresa 1983-86 recuperando lo svantaggio rispetto al contesto nazionale maturato nella precedente fase recessiva (confermando così un

tradizionale comportamento prociclico tipico delle regioni forti). Oggi, il dato da registrare è il modesto impulso dato all'export piemontese dalla svalutazione della lira dell'autunno 1992: il fatturato estero del Piemonte è stato, nel primo semestre 1993, solo del 9,8% superiore allo stesso periodo dell'anno precedente, contro il 16,8% dell'intero sistema nazionale. (Ricordo che sono dati in valore, a fronte di un deprezzamento della lira che si aggira intorno al 25%). Certo, le conseguenze sociali della crisi industriale sono attutite dal maggior livello di reddito reale per abitante, cresciuto nel decennio di circa il 25%, nonché dal maggior grado di terziarizzazione dell'economia piemontese, elevatosi in questo periodo dal 49 e 59% circa.

Ma proprio sul fronte del terziario emergono altri indizi di discontinuità, che ora vedremo.

Per tutta la prima fase della recessione i posti di lavoro hanno continuato a crescere: gli adattamenti organizzativi e occupazionali seguono in genere con qualche ritardo le svolte nel sistema economico. Tra il 1992 e il

1993 però la questione occupazionale è emersa con evidenza, e nel settore industriale sono stati cancellati 70.000 posti di lavoro (un decimo del totale) mentre le ore di cassa integrazione sono aumentate fino a rappresentare una massa di lavoro equivalente a quasi 50.000 occupati. Gli addetti ai servizi, in crescita per tutti gli anni ottanta, hanno conservato un ruolo

equilibratore fino al 1992. Nel 1993 il fenomeno ha cambiato 120 — 115 — H O — 105 — 100 — 95 —

Piemonte, produzione del settore manufatturiero. Indice trimestrale, su base: 1985=100, medie mobili a quattro termini

9 0

-85 —

76 77 78 79 80 81 82 83 84 85

Fonte: e l a b o r a z i o n e su dati U n i o n c a m e r e del P i e m o n t e

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di segno, e il terziario piemontese ha espulso 25.000 lavoratori, che si sono aggiunti ai 37.000 addetti estromessi dal settore industriale. È presto per dire se si tratti di un fenomeno transitorio, magari connesso ad una sommersione di attività provocata dalle nuove misure fiscali, o se ci si trovi invece di fronte alle avvisaglie del processo di razionalizzazione dei servizi da tempo preannunciato, in relazione al gap di produttività del terziario italiano rispetto alla

concorrenza estera. Quello che è certo è che non ha funzionato un meccanismo tipico delle precedenti fasi congiunturali avverse, e cioè il ruolo di spugna occupazionale svolto dalle attività terziarie di tipo tradizionale.

Ma il problema ha una portata che supera il breve periodo. La compensazione intersettoriale delle dinamiche occupazionali aveva funzionato nel periodo 1980-92 con precisione millimetrica: nei due estremi di questo arco temporale si contano in Piemonte 41,7 occupati ogni 100 abitanti, come risultato di una diminuzione di addetti nell'industria (-191.000) e nell'agricoltura(-87.000) da un lato, e di una crescita nella pubblica aministrazione (+110.000), nel commercio (+23.000) e negli altri servizi (+55.000) dall'altro lato. Il saldo negativo dipende dal fatto che l'occupazione globale diminuisce nell'identica misura della popolazione regionale, con un processo di

«dimagrimento» che possiamo considerare fisiologico. Che cosa succederà nel futuro prossimo?

Certo gliimpiegati pubblici non potranno ulteriormente aumentare, per il vincolo rappresentato dal debito dello stato; mentre agricoltura e industria continueranno a ridurre l'occupazione, anche nel caso di un rapido recupero dei livelli produttivi pre-crisi. I servizi privati potranno ancora espandersi? In alcuni settori terziari (banche, commercio) l'effetto congiunto del mercato unico europeo e delle tecnologie di trattamento e trasmissione dell'informazione dovrebbe comportare forti aumenti di produttività del lavoro. Negli anni ottanta la terziarizzazione

dell'occupazione piemontese è stata sostanzialmente il frutto del blocco della produttività, giacché il prodotto lordo reale dei servizi non ha accresciuto la sua incidenza sul PIL regionale. Per il futuro, se terziarizzazione ulteriore ci potrà essere, dovrà investire il livello della produzione e della domanda, in rapporto alla tendenziale dematerializzazione dell'economia: aumento del contenuto di servizi incorporati

nei beni industriali, crescita dei servizi alle persone non surrogabili da prodotti tecnologici equivalenti sotto il profilo funzionale (il CD in luogo del concerto dal vivo), sviluppo dei servizi alle imprese non limitato al mercato locale ma orientato

all'enucleazione di funzioni di eccellenza di respiro nazionale.

L'orizzonte evolutivo è chiaro: occorre passare dalla produzione di beni alla produzione di tecnologie; dalla fabbricazione di massa alla costruzione di prototipi, produzioni di fascia top, o prodotti specializzati; dalia vendita nuda del bene fisico alla fornitura di un pacchetto di prestazioni che gravitano sull'oggetto offerto; dall'atomizzazione / mercificazione dei bisogni alla loro ricomposizione sistemica a soddisfacimento collettivo. L'interrogativo che si apre a questo punto è altrettanto chiaro: il Piemonte è in grado di avviarsi in questa direzione? Ne ha le risorse? Ne ha la volontà?

J

Questa evoluzione include un riscontro settoriale, ma in modo elastico e non esaustivo. È naturale: il comparto della microelettronica ha un contenuto di innovazione e prospettive di mercato superiori — ad esempio — al settore tessile. Ma ormai in tutte le branche produttive la divisione del lavoro ha scorporato le fasi di elaborazione e

sperimentazione dalle fasi esecutive. Per una regione di medio livello tecnologico potrebbe a volte risultare più vantaggiosa la scelta di sviluppare le parti pregiate delle attività tradizionali, piuttosto che avventurarsi su ruoli puramente operativi in produzioni di punta, delle quali non riesce a controllare la «testa» progettuale. Sembra però di poter dire che oggi in Piemonte si ponga anche un problema di scelte strategiche a livello di settore. La tradizionale matrice di specializzazione regionale — rimasta sostanzialmente la stessa dagli anni cinquanta, sia pure con importanti

ammodernamenti — presenta ancora notevoli potenzialità sotto il profilo tecnologico-qualitativo (margini di innovazione, crescita di direzionalità, occasioni di inserimento nell'oligopolio intemazionale) ma ha forse esaurito il suo effetto traente sul tessuto complessivo della regione, dal punto di vista dell'attivazione di produzioni complementari, di apporto occupazionale, di generazione di circuiti virtuosi di crescita autosostenuta.

J m Nello scorso decennio ^ ^ ^ ^ in questa regione è stata

M lungamente e diffusamente coltivata l'immagine della Tecnocity. Nelle attuali vicissitudini osservatori autorevoli e non sospetti (tra gli altri, Umberto Agnelli) si sono chiesti se questa immagine si attagli davvero alla concreta realtà del Piemonte. La mia opinione in proposito è articolata. Come descrizione di uno stato di fatto, questa definizione tradisce un intento apologetico: in Piemonte esistono aree di eccellenza tecnologica, ma esse hanno un peso minoritario, e un potere trainante modesto. Al contrario, come prospettiva da perseguire, mi pare una via obbligata, quando si voglia evitare una linea di netto impoverimento della regione. In mezzo tra la realtà e la prospettiva, ci sono enormi problemi da risolvere, comportamenti e atteggiamenti diffusi da modificare sostanzialmente, strutture e procedimenti regolativi da costruire ex novo. Una «Tecnocity» è una formazione territoriale il cui compito precipuo è la produzione di tecnologie e il cui assetto socio-urbanistico è quello della metropoli ad intenso consumo di cultura. Il Piemonte è ancora, largamente, una «regione-fabbrica»: tale essa appare ad un esame dei dati di contabilità economica degli anni ottanta. Come rileva Sergio Alessandrini in uno studio sulla Padania promosso dalla Fondazione Agnelli, il Piemonte costituisce il motore produttivo dell'intera macro-regione padana, in quanto esportatore netto sia nei confronti dell'estero che delle altre regioni italiane, mentre spetta alla Lombardia una funzione dì intermediazione e di dominio gerarchico sulle altre regioni italiane. Allo spiccato orientamento produttivo del Piemonte corrisponde una ridotta propensione al consumo, da ricondursi probabilmente alla struttura di distribuzione dei redditi: di conseguenza, un'inclinazione verso la generazione di surplus, in favore delle potenzialità di investimento o della redistribuzione interregionale. Questo apparato di produzione presenta indubbiamente dotazioni tecnologiche di prim'ordine, che gli consentono non pochi primati, come il livello di export di prodotti hi-tech per abitante (tre/quattro volte la media nazionale) o le spese in ricerca e sviluppo (nel 1990, 658.000 lire per abitante, contro le 384.000 della Lombardia e le 172.000 del sistema Italia). Le risorse di ricerca industriale e di proiezione internazionale sono vitali per il destino di un'area

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avanzata: esse risultano però, in questa regione, fortemente concentrate, e legate alle sue specializzazioni storiche. Nel 1986 12 espostatori coprivano il 46% del fatturato estero, mentre sotto il profilo settoriale (dove sono disponibili dati più recenti, relativi al 1992) il 59% del totale va riferito al settore meccanica + mezzi di trasporto. 1 fattori di qualità del sistema Piemonte potranno ancora giocare un ruolo positivo, se le attività tradizionali si troveranno strette fra modesti tassi di crescita dei mercati e radicali processi di delocalizzazione produttiva? Ancora una volta, si viene gettati di fronte ad una svolta e ad una sfida.

Gli indicatori di performance degli anni ottanta non possono essere valutati come una garanzia di ripresa, entro condizioni evolutive destinate a cambiare strutturalmente. Essi possono però costituire affidabile indizio di una forte fibra della regione, ed attestare la presenza di un potenziale di reazione che, per quanto scarsamente espresso nelle recenti vicende congiunturali, potrebbe essere riattivato nella configurazione di una nuova stagione di sviluppo economico e sociale. Si pone a questo punto l'interrogativo relativo all'altro grande fattore di valutazione di un sistema regionale, il grado dì qualificazione del suo capitale umano. Anch'esso in Piemonte presenta caratteri squilibrati: è ricco, ma in aree ristrette. Ai due estremi, si trovano la esigua produzione di ingegneri che un prestigioso Politecnico riesce a garantire, e un numero di interruzioni del ciclo formativo prima del completamento della scuola media superiore che colloca il Piemonte in una posizione inaccettabilmente arretrata nella classifica delle regioni europee europee relativa alla

scolarizzazione preuniversitaria. P i e m o n t e : ¡ f u t u r i possibili Declino R i s t r u t t u r a z i o n e su basi tradizionali

Balzo tecnologico Enucleazione selettiva

polarizzato di un tessuto imprenditoriale di punta Svi], terziario-direzionale

Riqualificazione Promozione dei livelli

diversificata medi del sistema Piemonte Crescita diffusa del reddito disponibile Svil. terziario sociale pubbl. -privato (sanità istruzione}

5

Se valutate in un raffronto internazionale, le problematiche del

Piemonte si inquadrano bene nella casistica delle aree a tradizione industriale, che hanno visto, o vedono, erodere le loro tipiche specializzazioni manifatturiere. Entrano allora in una situazione evolutiva non interpretabile immediatamente come un processo di declino, ma come la sofferenza di una transizione, un faticoso rimescolamento strutturale volto ad aggiornare e riconvertire le competenze, alleggerire o ridislocare le componenti obsolete, annodare nuove filiere produttive, riclassificare le proprie relazioni con l'esterno. Di tale travaglio, il declino può essere uno degli sbocchi possibili; non necessariamente il più probabile. In sintesi: — si tratta di aree in cui l'antica vocazione

manifatturiera ha sedimentato un potenziale tecnologico (dai centri di ricerca al capitale umano) ricco, ma

temporaneamente «spiazzato» per l'obsolescenza delle tradizionali finalizzazioni; — queste dotazioni sono comunque deboli, se confrontate con le nuove aree tecnologiche dominanti, e rischiano di inaridire la loro potenzialità creativa in un'eccessiva concentrazione sulle innovazioni di processo e sulla competizione di prezzo; — esse non sono comunque da sottovalutare, e potrebbero consentire di cogliere alcune opportunità offerte dall'attuale onda innovativa (nuovi materiali, biotecnologie, telecomunicazioni, energia e ambiente, ecc.), mediante lo sviluppo di know-how già marginalmente posseduti e non adeguatamente valorizzati; — la transizione si muove prevalentemente lungo linee di continuità/filiazione, ed è più impegnativa — più dolorosa e di esito incerto — nelle aree a

specializzazione

monoindustriale e in quelle a prevalenza di grande impresa; — nella transizione si profila concretamente un rischio di erosione delle risorse essenziali (trasferimento centri

tecnologici, emorragia di personale qualificato); — il rilancio può essere perseguito attraverso ben articolate strategia locali, che includano la gestione consapevole del rapporto tecnologia/produzione, la riqualificazione dell'ambiente fisico e sociale e l'intensificazione della cooperazione internazionale. ^ r In questo orizzonte è a • realistico collocare la prospettiva evolutiva del Piemonte, individuando le vie percorribili sia in un'ottica di riattivazione spontanea delle sue componenti vitali, sia nell'auspicabile eventualità che la comunità regionale subalpina riesca a dotarsi di una consapevole, e condivisa, strategia di ripresa. Occorre dunque riconoscere con chiarezza che la regione si trova di fronte ad un ventaglio di sentieri evolutivi.

Si è tentato di schematizzare le possibili alternative di evoluzione regionale in quattro scenari-tipo, ì cui parametri sono sintetizzati nel prospetto riportato a fondo pagina. Un primo scenario è definito dal prevalere del carico di difficoltà che oggi si registrano a livello sociale, economico,

amministrativo; esse potrebbero determinare una sostanziale paralisi delle capacità reattive del sistema regionale. In questo caso si procederebbe verso un «aggiustamento passivo», per cui attraverso un lungo processo di declino e di emorragia di risorse

demografiche ed economiche il sistema piemontese si ridimensionerebbe ad un livello inferiore, salvo (eventualmente) riscoprire, a distanza di anni o

Strategia Effetti sociodemografici

Requisiti politico- Requisiti economico-istituzionali finanziari Generale perdita

di competitività

Guerra dei prezzi o disinvestimento programmato

Disoccupazione e degrato Emorragia di qualificati Utilizz. manodopera immigrati a basso costo Guerra fra poveri

Nessuno

Ripresa economica intemazionale Specializz. nei settori abbandonati dalle altre economie avanzate

Svalutaz. competitive Riduzione dei salari Innovazioni di processo Delocalizzazioni frenale Riproposiz. Italian style

Impoverimento del tessuto urbano e sociale E m o n a g i a di qualificati Espulsione di sacche di manodopera anziana Politiche protezionistiche Ferrea politica dei redditi Ripresa Intemazionale

"Regional champions" "Dual city" e conflittualità Privatizzazioni sistem. Elevalo dinamismo Politiche per l'eccellenza Oneri per ammortizzazione Riduz. intervento imprenditoriale tecnologica dell'impatto sociale pubblico (anche in aree Filtcring-down Lotta all'immigrazione Promozione R & D ristrette) Attivazione investimenti Più equilibrata distribuzione Elevatissima capacità Mobilitazione in nuovi ceppi produttivi delle opportunità di strategia e di massiccia e diffusa (infrastrutture, turismo, ecc.) Miglior rapporto immigrati / regolazione pubblica di capitale di rischio Polii di diffusione tecnologica popolazione locale Autonomia regionale Diffusa creatività Politiche di sistema Mobilità socio-professionale "forte" imprenditoriale Forte investimento formativo

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Jean Monfort.

di generazioni, antichi e non valorizzati fattori di crescita. Naturalmente questa prospettiva è la meno desiderabile: e il senso di questo articolo è tutto compreso nella raccomandazione di un moto di reazione positiva da parte della comunità piemontese. Questo potrebbe però essere indotto a ripercorrere le vie del passato, tornando a scommettere sulle vocazioni tradizionali del Piemonte, come previsto dal secondo degli scenari ipotizzati. Gli sforzi del sistema regionale sarebbero assorbiti dal tentativo di contrastare con un'affannosa concorrenza di prezzo (attraverso la riduzione delle retribuzioni, la selezione delle attività, la richiesta di protezione soffice dell'industria italiana mediante svalutazioni competitive) la crescente aggressività delle economie emergenti sui mercati a loro più accessibili: è difficile negare che si tratti di una via caratterizzata da risultati decrescenti e sempre più precari.

Una reazione forte di fronte alle difficoltà presenti richiede dunque un salto di qualità nelle strategie e nei comportamenti. Si possono immaginare due differenti declinazioni possibili di tale slancio innovativo. Il terzo scenario prevede una stagione di ripresa di dinamismo che abbia per protagonista la componente più

vitale del sistema imprenditoriale regionale; grazie alle proprie risorse in termini di tecnologia e di relazioni internazionali essa potrebbe essere in grado di svincolarsi dal tessuto socioeconomico locale e immettersi in modo selettivo nelle correnti più tumultuose del business mondiale: è facile riconoscere in questa prospettiva il quadro della dual city fondata sull'economia dell'informazione descritta da Manuel Castells. Non è una prospettiva improbabile, perché ipotizza l'attivazione degli attori che in questa regione hanno sempre ricoperto un ruolo decisivo: essa potrebbe essere favorita da un'eventuale modificazione in senso liberistico delle modalità di azione pubblica a livello locale e nazionale. Il limite di questa prospettiva è il carattere occasionale — e alla fine modesto — del riverbero che lo sviluppo del settore dominante dell'economia può esercitare sull'ambiente sociale e la realtà locale in genere, abbandonati ad una progressiva emarginazione. La quarta prospettiva si definisce invece proprio in funzione della reciproca interdipendenza tra sviluppo economico e sistema locale, proponendosi una ricucitura tra le grandi opportunità di riposizionamento competitivo dell'economia regionale e il

reticolo di risorse complementari offerte dalla società regionale, da valorizzarsi sistematicamente attraverso politiche diffusive, circuiti di informazione e di reddito, gestione concertata della progettualità e delle trasformazioni

socioeconomiche e urbanistiche. E ovvio che questa linea evolutiva presenta caratteri più apprezzabili della precedente sia sotto il profilo sociale che dal punto di vista strettamente economico. Appare però come la più «improbabile», per il grado di creatività diffusa di cui abbisogna, sia a livello sociale (disponibilità delle persone alla flessibilità dei ruoli, alla formazione, all'assunzione di responsabilità) che a livello imprenditoriale (generale orientamento verso la competizione di qualità, il rischio, le innovazioni di prodotto) e nell'ambito dei sistemi di regolazione (politiche locali lungimiranti e flessibili, professionalizzazione e sburocratizzazione delle strutture amministrative, interventi a larga concertazione, verifiche sistematiche dei risultati). Da questo punto di vista, si potrebbe concludere che la vera ragione di pessimismo circa il futuro del Piemonte non risieda nella gravità oggettiva dei problemi, quanto nella persistente inadeguatezza delle soluzioni adottate o previste. Che dire in conclusione? Può accadere che la fissità delle sue sposte rappresentazioni ideali venga positivamente sconvolta dal flusso degli eventi e degli aggiustamenti molecolari, cosicché da uno spontaneo e parziale consolidamento del tessuto esistente e da una ripresa puntuale della grande iniziativa imprenditoriale venga indotta, di riflesso, una ripresa di funzionalità

dell'amministrazione pubblica in forme innovative. Ma allo stato dei fatti sembra difficile sfuggire all'impressione che il sistema manchi di

intenzionalità definite sia a livello oggettivo che soggettivo, e che i trend abituali lo allontanino di giorno in giorno dalle prospettive evolutive più favorevoli1.

1 Nel m o m e n t o di andare in stampa, g i u n g e la n o t i z i a di p r o g r a m m i p u b b l i c i di rilancio degli investi-menti in P i e m o n t e (intervento Ue per le regioni a declino industriale, 2200 miliardi: accordo di program-m a tra Regione e Governo, 12000 m i l i a r d i ) , che, se d e b i t a m e n t e at-tuati, potrebbero correggere sensi-bilmente i trend evolutivi della re-gione e smentire il pessimismo che traspare da questo articolo: ciò cor-risponderebbe ovviamente in pieno agli auspici dell'autore.

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Cl SERVE PROPRIO

GARGANTUA?

APPUNTI

SULLA CITTÀ

METROPOLITANA

DI TORINO

di S t e f a n o Piperrio Questo articolo trae spunto dalla ricerca dell'1RES Piemonte «Uscire dal labirinto: studi per l'attuazione

della riforma delle autonomie in Piemonte», Rosemberg & Sellier, Torino, 1993.

J

La riforma metropolitana Negli ultimi anni l'ordinamento locale italiano è stato sottoposto a radicali cambiamenti. Nell'ordine, si sono succedute la L. 142/90, «Nuovo ordinamento delle autonomie locali», il decreto legislativo n. 504/92 sulla finanza territoriale, in attuazione della legge delega n, 421/92, ed, infine, la L. n. 81/93, «Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale». Si tratta di innovazioni profonde che avvicinano il nostro sistema autonomistico a quello degli altri paesi europei, da tempo interessati da processi di riforma. Una delle più rilevanti novità contenute nella L. 142/90 era rappresentata dalla istituzione delle Città metropolitane, ovverosia di un ordinamento differenziato delle aree maggiormente urbanizzate del paese, definibile attraverso la legislazione regionale. Mentre scriviamo lo stato di attuazione della riforma è desolante: solo la Regione Liguria e la Regione Veneto hanno istituito con legge

regionale la Città metropolitana, regolandone in via generale le funzioni. Per le altre Regioni siamo a livello di proposte più o meno formalizzate, a volte in forma alternativa, sopratutto per quanto concerne la

delimitazione territoriale. Non solo, ma la recente L. 436/93 ha reso facoltativa per le Regioni l'istituzione della Città metropolitana, entro il termine massimo di un anno, sancendo di fatto l'inapplicabilità di un ordinamento metropolitano nel nostro paese.

Per l'area torinese esiste un disegno di legge regionale, presentato nel 1991, che delimita un'area con 33 comuni (ftg. 1), ed una proposta di legge dei Verdi che propone una delimitazione dell'area metropolitana che coincide con quella della provincia dì Torino, sui quali si è dibattuto nella commissione competente del Consiglio regionale, anche con consultazioni, nel corso del

1992, ma che successivamente paiono essere finiti nel «dimenticatoio».

In questa nota ci proponiamo di svolgere alcune riflessioni per cercare di individuare i motivi del fallimento, almeno sino ad

Figura 1. L 'area metropolitana torinese

1 Lei ni 17 Rosta 2 Volpiano 18 Rivoli 3 Caselle Torinese 19 Grugliasco 4 Brandizzo 20 Villarbasse 5 D r u e n t o 21 Rivalta di T o r i n o 6 Venaria 22 O r b a s s a n o

7 Borgaro Torinese 23 Beinasco 8 Settimo Torinese 24 Bruino 9 Gassino Torinese 25 Piossasco 10 S. Raffaele Cimena 26 Volvera 11 S. Gillio 27 C a n d i d o 12 Pianezza 28 Nichelino

13 Collegno 29 Moncalieri

14 S. M a u r o Torinese 30 Vinovo 15 Castiglione Torinese 31 La Loggia 16 Alpignano 32 Trofarello

i .

(8)

oggi, di questa riforma, e di suggerire qualche approccio alternativo che consenta di utilizzare al meglio questo strumento istituzionale per il rilancio e la riqualificazione dell'area torinese. Ma prima di affrontare nel merito la questione è bene richiamare brevemente quello che è contenuto nel capo VI della legge 142 sul regime amministrativo delle aree metropolitane. Esso prevede (art. 17) che i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli insieme ai comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali ed alle caratteristiche territoriali, facciano parte di aree

metropolitane la cui precisa delimitazione e rimandata alla Regione. Nelle aree

metropolitane così individuate, l'amministrazione si articola in due livelli: la Città

metropolitana ed i comuni (art. 18). La Città metropolitana oltre ad esercitare le funzioni amministrative previste per le Province, può anche esercitare le funzioni normalmente affidate ai Comuni quando hanno precipuo carattere sovracomunale o debbono per ragioni di economicità ed efficienza essere svolte in forma coordinata nell'area

metropolitana nell'ambito delle seguenti materie (art. 19): a) pianificazione territoriale dell'area metropolitana; b) viabilità, traffico e trasporti; c) tutela e valorizzazione dei beni culturali e dell'ambiente; c) difesa del suolo, tutela idrogeologica, tutela e valorizzazione delle risorse idriche, smaltimento dei rifiliti; e) raccolta e distribuzione delle acque e delle fonti energetiche; f) servizi per lo sviluppo economico e grande distribuzione commerciale; g) servizi di area vasta nei settori della sanità, della scuola e della formazione professionale e degli altri servizi urbani di livello metropolitano. La ripartizione di queste funzioni tra Comuni e Città metropolitana, che può assumere un regime

differenziato rispetto al normale ordinamento provinciale è stabilita dalla legge regionale. Si tratta, come vedremo, di uno degli aspetti più delicati di questa innovazione istituzionale.

II dibattito ^ ^ J p sull'istituzione della

Città metropolitana In genere il dibattito iniziale si è concentrato proprio sulla delimitazione territoriale di questi nuovi enti, che doveva essere il primo compito delle

Regioni al quale far seguire la ripartizione delle funzioni tra i Comuni ed il nuovo ente. Le alternative dimensionali che si ponevano per la delimitazione dei confini — valide in linea dì massima in tutti i contesti regionali — erano riconducibili a due prevalenti: un'area relativamente piccola (in sostanza il continuum urbanizzato) ed un'area relativamente grande, che poteva arrivare a coprire il territorio provinciale. La scelta dipendeva dalle categorie analitiche di riferimento che si utilizzavano per la definizione del concetto di area metropolitana. Una efficace classificazione elaborata da Bruno Dente (Dente, 1989), che è stata largamente utilizzata nel dibattito di questi ultimi anni, ne individuava tre principali: «grande città», regione funzionale, Città capitale. Le richiamiamo brevemente, rinviando al saggio di tale autore ed all'ormai amplissima letteratura in materia chi sentisse la necessità di approfondimenti1. La prima

identifica la metropoli come una «grande città», ovvero con «un insediamento urbano di dimensione eccezionale», caratterizzato da un rilevante addensamento di popolazione, attività extra agricole, edifici ed infrastrutture attorno ad un polo urbano principale. Il problema principale del governo metropolitano diventa quello dì una efficiente produzione di servizi pubblici, capace di catturare le economie di scala urbane e di tener conto degli effetti di traboccamento dei servizi.

La seconda identifica l'area metropolitana come un insieme complesso ed integrato di più centri interdipendenti, ciascuno dei quali è caratterizzato da una specializzazione funzionale per quanto concerne le vocazioni residenziali, produttive, ed in genere «ambientali». In tale caso si parla anche di regione funzionale o urbana. Questo insieme di interrelazioni rendono necessario un governo delle interdipendenze a livello sovracomunale attraverso la pianificazione territoriale di un'area più vasta di quella legata al mero continuum urbanizzato.

La terza, infine, identifica le metropoli come quelle località caratterizzate da una presenza di funzioni avanzate, connesse ad attività decisionali di tipo strategico ed a processi tecnologici ad alto contenuto di innovazione che richiedono uno specifico ambiente socio-culturale ed infrastrutture urbane qualificate. In questo caso la metropoli ha un raggio di influenza che travalica la dimensione regionale ed anche nazionale, sviluppando una rete di relazioni con le metropoli di rango analogo.

Un percorso logico per il legislatore regionale avrebbe allora dovuto individuare una o più concettualizzazioni del problema metropolitano

adeguate alla specificità torinese a e ad esse adeguare il disegno

istituzionale. Relativamente a quest'ultimo la letteratura ha

individuato due grandi tipologie : di soluzioni, strutturali e

funzionali. La soluzione strutturale si basa sulla creazione di un nuovo livello di governo per lo svolgimento di una pluralità di funzioni a livello metropolitano; quella funzionale identifica invece diversi assetti procedurali ed amministrativi per i principali problemi metropolitani: ad esempio associazioni di tipo generale tra enti locali, un'autorità per i trasporti, accordi vari tra enti locali per politiche specifiche, contratti di programma ecc.

E evidente in questo contesto il legame tra ampiezza dell'area e ruolo prevalente della Città metropolitana

(indipendentemente dall'assetto istituzionale): area vasta se si privilegia il ruolo di pianificazione territoriale, area piccola nel caso si privilegi quello di gestione ottimale dei servizi legata alle c.d. economie di scala urbane; incertezza, nel caso della visione della «città capitale», anche se in prevalenza questa veniva associata ad un'area piccola. Curiosamente, però, al di là di questa notazione di carattere generale non sono emerse ipotesi precise sulle conseguenze che potevano avere tali delimitazioni su una scelta «razionale» delle funzioni i amministrative da assegnare alla i Città metropolitana. In tutti i

provvedimenti regionali si fa riferimento genericamente alle funzioni previste dall'art. 19 della L. 142/90, oltre, ovviamente, a quelle provinciali, rinviando a successivi provvedimenti una concreta ripartizione di tali funzioni tra Città metropolitana e Comuni. L'assenza di queste disposizioni, unitamente al vuoto assoluto di ipotesi per quanto concerne l'assetto finanziario della Città metropolitana, ha creato l'effetto di rendere in una certa qual misura «irrealistico» il disegno della riforma, fino a farla scomparire sinanco dal dibattito istituzionale. Ora, il problema delle funzioni della Città metropolitana non costituisce che una specie del più vasto — e sottovalutato — problema della distribuzione di funzioni tra amministrazioni centrali e locali, in parte basato su discipline generali, che

individuano i principi ed i criteri i di base, ed in parte da discipline speciali che in genere non ne tengono conto. Il recente «Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni» è

(9)

illuminante a proposilo»

«La legge n. 382 del 1975 e la legge n. 142 del 1990 hanno definito, rispettivamente per le regioni e per i comuni e le province, le modalità per l'individuazione e l'attribuzione delle funzioni per l'universo dei rapporti fra livelli dì governo. Le discipline di settore, nell'un caso come nell'altro, hanno disegnato, però, tanti diversi «sub-universi», ciascuno retto da criteri e convenienze diverse, spesso confliggentì fra loro. La ripartizione delle funzioni all'interno di ciascuna materia non è basata su distinzioni tipologiche (ad esempio: la funzione di indirizzo al centro, le funzioni gestionali alle autonomie locali), ma suddividendo all'infinito partì e brani di funzioni fra diversi soggetti, nessuno dei quali è. quindi, pienamente padrone di un'area o di un settore. Molte risorse ed energìe vengono impegnate, di conseguenza, in attività di regolamento dei confini, invece che in attività amministrativa vera e propria».

Per ovviare a queste incongruenze occorrerebbe un lungo e coerente lavoro di revisione della legislazione settoriale statale e regionale, che a causa delle note vischiosità che si incontrano nelle riforme amministrative nel nostro paese, è rimasto però ancora tutto da fare.

Per concludere: il mancato decollo di una forma di governo metropolitano è in buona pane dovuta all'assenza di un adeguato progetto in merito all'assetto delle funzioni amministrative e del regime finanziario3. Purtroppo il

dibattito politico in materia è rimasto spesso condizionato da esigenze di ritagli territoriali legati alla geografia elettorale dell'area più che a quella funzionale. Il mutato quadro politico-istituzionale del paese può aprire però degli spiragli per affrontare la questione in modo più adeguato.

J

Una proposta

per le funzioni e la finanza

Se quanto appena sostenuto è vero diventa indispensabile pensare ad un progetto di governo metropolitano che si basi su un'ipotesi precisa in termini di funzioni amministrative e di regime finanziario. La riflessione sviluppata nell'ambito delle scienze sociali, intese in senso lato, è assai ricca. Limitiamoci ad alcuni suggerimenti desumibili dall'economia pubblica e dall'economia regionale. I servizi pubblici, sulla base della teoria dei beni pubblici locai, possono essere distinti nelle due grandi categorie dei servizi personali e di quelli concernenti l'ambiente fisico ed il territorio, a loro volta articolabili in servizi di tipo puntuale ed a rete. I criteri delle economie di scala e della «internalizzazione degli effetti

esterni», ovverosia del controllo delle estemalità nella

produzione e nel consumo, fenomeni particolarmente rilevanti nelle aree maggiormente urbanizzate, conducono alla proposta di attribuire alla Città metropolitana sopratutto le funzioni connesse ai servizi connessi al territorio, in genere a rete, nonché di quelle relative ai servizi personali «pregiati», con un ampio bacino spaziale di influenza. Ugualmente, va tenuto presente che per tali servizi sono previsti nuovi modelli di regolamentazione — è in discussione al Parlamento un importante provvedimento legislativo per l'istituzione di agenzie per i servizi pubblici esercitati in condizioni di monopolio, quasi monopolio od oligopolio —, che potrebbero avere effetti rilevanti anche per l'assetto futuro della Città metropolitana. La privatizzazione attraverso concessioni a società private o miste di questi servizi potrebbe configurare un modello di Città metropolitana molto diverso da quello tradizionale degli enti locali, basato su apparati assai qualificati per il controllo del rispetto dei contratti sottoscritti dai privati. Bisogna però fare una importante precisazione. Buona parte di questi servizi, ai quali va aggiunta l'attività di pianificazione urbanìstica tradizionale, può essere attribuita in maniera completa alla Città metropolitana nel caso di un'ipotesi di configurazione «piccola», in quanto i fenomeni di economie di scala urbane e di estemalità sono in gran parte limitati alla conurbazione. Nel caso di area «larga» i compiti della Città diverrebbero maggiormente di tipo programmatorio, in quanto al suo interno potrebbero costituirsi più di una area ottimale di gestione da attribuire ai vari soggetti specializzati previsti dalla L. 142/90: aziende, consorzi, società miste. Dato che in Piemonte il disegno di legge regionale ha

individuato un'area «piccola» prendiamo questa ipotesi per buona. E allora possibile valutare l'entità di un ipotetico bilancio della Città

metropolitana, sulla base di un insieme di ipotesi di

trasferimento di funzioni (tabb. 1-2 v. pag. seguente), che non risulta certo trascurabile: circa 1423 miliardi di spese correnti e 882 miliardi dì spese di investimento nel 1991. Questo è quindi l'ordine di grandezza delle risorse che dovrebbero essere gestite in maniera unitaria o coordinata (non necessariamente con il bilancio di un unico ente) a livello metropolitano, e che concernono essenzialmente le politiche per la mobilità e l'ambiente — intese in senso lato —, oltre che quelle

territoriali di tipo strategico, connesse alla localizzazione delle grandi funzioni urbane. Trasformazioni di questo tipo implicano un delicato processo di devoluzione di funzioni dal basso verso l'alto, sulla cui praticabilità istituzionale solo attraverso interventi legislativi ed amministrativi è lecito esprimere dei dubbi (e non è un caso che la riforma

metropolitana sia in una situazione di stallo), considerati gli attuali livelli di

frammentazione e conflittualità interistituzionale. Si pensi solo alla diffidenza, se non aperta ostilità dei Comuni satelliti timorosi di perdere competenze in favore dì un nuovo ente, a volte identificato nel Comune centrale, o allo stesso indebolimento istituzionale che si potrebbe prospettare per la Regione nei confronti di una Città metropolitana «forte», dominante rispetto al resto del territorio regionale. Da questo punto di vista l'esperienza internazionale suggerisce che i modelli di tipo federativo-associativo, più che quelli di tipo strutturale «puro» basato su un doppio livello di governo, risultano più adatti per garantire il consenso tra le istituzioni interessate, nonché per gestire una pluralità di funzioni che presentano riferimenti areali diversi. All'interno di questi modelli, che rappresentano una via di mezzo tra le soluzioni di tipo strutturale-istituzionale e quelle contrattuali pure, si possono infatti trovare numerose varianti capaci di venire incontro alle specificità politico istituzionali locali, e, sopratutto, di ridurre al minimo i rìschi di rallentamenti, se non di blocchi basati su veti reciproci, dei processi decisionali dei governi metropolitani-1. Tali modelli

rispondono poi meglio all'esigenza di soluzioni sperimentali, che consentano facili adeguamenti a situazioni di contesto continuamente cangevoli, quali quelle proprie — per definizione, data che la metropoli è considerata la «madre» del cambiamento e dell'innovazione — delle aree metropolitane: non è un caso che si possano ormai contare almeno una dozzina di soluzioni diverse nell'assetto istituzionale delle aree metropolitane in Europa ed in America. Un suggerimento che deriva dalle esperienze internazionali è quindi quello di cercare di apportare dei correttivi funzionali, attraverso la legislazione regionale, alla soluzione strutturale prevista dalla Le. 142/90.

In generale la conclusione alla quale si arriva è quella che le grandi aree urbane presentano connotati talmente specifici ed in evoluzione, da rappresentare un fenomeno non facilmente riconducibile alle tradizionali

(10)

Tabella 1

Schema riassuntivo della ripartizione di funzione tra Città metropolitana e Comuni.

Sezioni e rubriche attribuzione a: -Sezioni e rubriche attribuzione a: Città metr. C o m u n i Città metr. Comuni

Amm. gener. Az. interv. in campo sociale

Org. istituzionali • Assetto terr. ambiente 5 0 % 5 0 %

Serv. generali ripartite pro-quota Serv. igien. sanitari Ufficio tecnico ripartite pro-quota Ass. sanitaria A n a g r a f e • Gestione farmacie Servizio statistico Vigil. profilassi Gest. cons. patrimonio • Serv. necroscopico

Tributi Serv. idrico •

Altri ripartite pro-quota F o g n e coli, depurativi • Giustizia Nettezza urbana

Carcere ! B agn i

Altri • Ass. inf. asili nido

Sicurezza pubblica difesa Parchi e giardini

Polizia locale • Centri sportivi Polizia amm. • Gestione ex IP A B

Difesa • Assistenza beneficenza

Altri • Altri

Istruzione cultura Trasporti comunicazioni

Se. materna • Viabilità e illuminazione •

Istr. primaria sp. c. capit. sp. con. Trasporti pubblici

Istr. secondaria sp. c. capit. sp. corr. Altri •

Ass. scolastica sp. c. capit. sp. corr. Az. interv. c a m p o economico

Serv. vigil. igiene sp. c. capit. sp. corr. Mercati • Altri istruzione sp c. capit. sp. corr. Mattatoio • Musei, biblioteche sp c. capit. sp. corr. Affissioni pubblicità

Z o o • Interv. turismo

Serv. cult, diversi Interv. agricoltura •

A", interv. abitazioni sp c. capit. sp. corr. Altri

Oneri n. ripetibili non attributi

N . B . • = a t t r i b u z i o n e totale Fonte: IRES

Tabella 2

La ripartizione consolidata delle spese correnti ed in conto capitale tra C o m u n i e Città metropolitana (valori in .000 di lire)

C o m u n i Città metropolitana* s. corrente s.c. capitale s. corrente s.c. capitale

Amm. gener. 300.465.691 64.555.525 107.977.275 27.087.648 Servìzi gener. 101.527.396 61.442.065 44.136.013 26.710.109 Ufficio tecnico 46.430.459 20.184.260 Altri s. gener. 54.296.489 23.603.782 Altro 98.211.347 3.113.459 377.539 Giustizia 11.835.118 1.861.531 Sicurezza 108.407.942 4.353.494 Istruz. e cultura 506.894.290 57.795.621 65.298.728 Istr. secondaria 39.717.591 56.494.535 5.330.168 Serv. culturali 49.413.479 1.301.085 22.231.050 Altro 417.763.220 37.737.510 Abitazioni 39.676.050 134.687.808 Sociale 526.859.114 45.797.319 276.425.814 81.074.987 Territorio 9.392.525 29.219.043 9.676.426 29.219.043 S. idrico e fontane 103.135.982 1 1.575.175 Fogne e depuratori 52.271.845 23.258.702 Nettezza urbana 70.693.000 95.619.804 15.858.943 Assit. sociale 102.798.264 15.721.757 1.163.124 Altro 343.975.325 16.578.276 Trasporti e comunic. 23.350.000 955.419.555 556.056.111 40.000.000

Viabil.. illuni, pubbli. 363.011.925 94.253.489

Trasp. pubblico 3.100.000 438.118.849 136.088.000 0 Altri trasporti 154.288.781 325.714.622 Campo economico 14.354.463 7.025.194 26.170.174 17.932.230 Turismo 4.838.302 0 Attiv. produtt. 9.002.502 17.932.230 Altri interventi 12.329.370 Altro 14.354.463 7.025.194 SPESA SOCIALE 1.531.842.668 123.593.062 1.423.788.439 882.137.513

* C o m p r e n d e le risorse c h e richiedono u n a g e s t i o n e c o o r d i n a t a a livello m e t r o p o l i t a n o

(11)

categorie di analisi economica ed istituzionale del sistema dei poteri locali. Come delimitare istituzionalmente un'area che per definizione non ha confini, derivando la sua specificità proprio dalla sua capacità di interrelarsi ad altri sistemi metropolitani a livello nazionale ed internazionale? Un discorso di questo tipo ci porterebbe lontano, e non può quindi essere affrontato con la dovuta profondità di questa nota'. Ma la specificità metropolitana ci consente di qualificare ulteriormente la proposta di attribuzione di un blocco di funzioni legato in gran parte ai servizi a rete o di area vasta, oltre a quelle attinenti la pianificazione territoriale. In effetti dal punto di vista di quella particolare branca dell'economia pubblica che va sotto il nome di teoria del federalismo fiscale i criteri di attribuzione di questi servizi ad un livello di governo superiore a quello comunale non presentano sostanziali differenze da quelli che si possono seguire per livelli intermedi di governo normali, come le Province. Quello che muta è la

complessità di gestione di questi servizi in aree caratterizzate da alta densità abitativa, conseguenti rilevanti fenomeni di estemalità, domanda elevata, e condizioni ambientali di produzione che causano generalmente un aumento significativo dei costi unitari di produzione (sì pensi ai trasporti ed alla salvaguardia

dell'ambiente), e la necessità di una loro ripartizione equa tra le diverse collettività. Tra l'altro, con il notevole incremento di autonomia tributaria previsto dalla recente riforma della finanza locale (anche se in questa non si parla di finanza metropolitana) vi sarà sicuramente un maggior incentivo per le amministrazioni locali ad identificare meglio l'area dei costì e quella dei benefici per ciascun servizio, e quindi a forme di aggregazione, rispetto a quanto avveniva con il precedente sistema di

finanziamento basato in gran parte sui trasferimenti statali. Ma quello che muta è anche il fatto che tali servizi devono essere considerati non solo come prodotti finali, ma anche come prodotti intermedi funzionali alla permanenza ed alla crescita di rango della città tra le metropoli mondiali. Sì può quindi sostenere che tutte le competenze previste per la Città metropolitana presentano la particolarità di essere legate allo sviluppo di gruppi di attività o funzioni metropolitane (ad es. nei settori del

management, finanza, commercio internazionale, cultura e tecnologia, istituzioni governative, ed il c.d. settore metropolitano locale), nonché l'ambiente complessivo più

adatto a sostenere interazioni e processi dì sviluppo dì tipo metropolitano».

In tale quadro emerge una ulteriore rilevante funzione di questo soggetto. La Città metropolitana potrebbe essere individuata come l'ente titolato a garantire una programmazione degli investimenti

infrastnitturali locali a più rilevante ed esteso impatto spaziale, all'interno di politiche territoriali dì area vasta alla quale riconoscere forme differenziate dì finanziamento. Essa dovrebbe anche

configurarsi come un centro di promozione e coordinamento degli investimenti

infrastnitturali pubblici dì rilievo sovracomunale, anche di competenza di amministrazioni centrali, maggiormente legati all'esercizio di funzioni metropolitane. L'obiettivo dovrebbe essere quello di delineare la collocazione dell'area metropolitana nel contesto regionale, nazionale ed internazionale, individuandone ì fattori di competitività specìfica, ed i fabbisogni ìnfrastrutturali strategici. In questa maniera si dovrebbe venire incontro ai limiti delle politiche

infrastnitturali sìnora seguiti, in termini di integrazione orizzontale, tra il Comune centrale e quelli satelliti, nonché verticale, tra i vari settori di intervento. Relativamente al primo aspetto sono ben noti ì conflitti interistituzionali — non solo per motivi ambientali — che si sono sviluppati nelle scelte di localizzazione delle

infrastrutture, spesso proprio ai confini tra più comuni, con conseguenti gravi ritardi nelle realizzazioni.Ne è derivata anche una limitata integrazione verticale, nonostante che il «timing» delle realizzazioni infrastnitturali complementari coslituisca un fattore cruciale per aumentare l'attrattività e la competitività di una zona, pena il sorgere di strozzature come quella — per fare un esempio banale — di un'area industriale che non offra adeguate possibilità di smaltimento dei rifiuti.

La pianificazione territoriale dell'area metropolitana, nell'ambito del sistema complessivo di pianificazione territoriale regionale sarebbe ovviamente strettamente complementare a tale attività. L'interazione tra politica metropolitana dei trasporti, dell'ambiente e della localizzazione delle principali funzioni urbane, dovrebbe infatti basarsi su un flusso consistente di investimenti infrastnitturali, aggiuntivi, sostitutivi e di manutenzione, la cui necessità è particolarmente pressante proprio nelle aree metropolitane. Lo schema della figura 2 (v. pag. seguente) cerca di rappresentare graficamente il modello che abbiamo prefigurato. Apposta, nel caso della localizzazione di grandi funzioni urbane abbiamo individuato come esempi una scelta avvenuta (la Fondazione per la formazione dei managers dell'Europa centrale ed orientale), una di cui si è

(12)

F i g u r a 2 - I p o t e s i di g r a n d i f u n z i o n i m e t r o p o l i t a n e

| P i a n i f i c a z i o n e strategica d e l l ' a r e a J

- localizzazione attività / funzioni metropolitane {management, finanza, commercio intemazionale, cultura e tecnologia, istituzioni governative, ecc.)

Mobilità | - trasporti su gomma - trasporti su rotaia - viabilità - regolamentazione traffico E s e m p i : | A r e a " v a s t a " • prevalentemente piantficalorio

- servizi ambientali "tradizionali" (ciclo acqua, ciclo rifiuti, energia) - servizi innovativi (cultura, «amenities», ecc.)

A g e n z i a p e r la f o r m a z i o n e m a n a g e r s L

A g e n z i a per la r e g o l a m e n t a z i o n e servizi di p u b b l i c a utilità •

cominciato a discutere (l'Aviation Park a Caselle), e due «futuribili»; la sede di Telecom Italia e delle Agenzie di regolamentazioni dei servizi pubblici esercitati in condizioni di monopolio, quasi monopolio ed oligopolio (tra i quali vi sono proprio i servizi a rete).

Si può fare a meno di Gargantua: W un approccio diverso. Il dibattito sui problemi metropolitani nel dopoguerra è stato assai ampio, ed ha tagliato traversalmente numerose discipline. L'Italia arriva ultima tra i paesi avanzati

nell'introduzione di una forma speciale di ordinamento metropolitano, e può quindi far tesoro di esperienze diverse, e di valutazioni sull'efficacia relativa di modelli alternativi. Ma di fronte alla stasi della riforma come rilanciare la questione metropolitana? Ci pare che l'essenziale sia evitare un errore denunciato già agli inizi degli anni settanta: «Il legame tra i problemi di sostanza e la struttura del governo metropolitano non è adeguatamente compreso»7. La

nostra proposta è quella di partire da un approccio diverso chiedendosi quali sono i principali problemi delle aree maggiormente urbanizzate e verificando in che misura gli strumenti istituzionali previsti dalla legge possono essere di aiuto. Se guardiamo a Torino ci sembra di poter identificare due grandi ordini di problemi tra di loro strettamente interrelati: a) la specificazione del ruolo che può svolgere il governo locale per favorire lo sviluppo delle funzioni metropolitane;

b) la pianificazione degli investimenti infrastnitturali pubblici e l'individuazione delle risorse finanziarie mobilitabili. Il governo locale può sicuramente intervenire in tre ambiti di intervento strategico: la localizzazione delle principali funzioni urbane (finanza, direzionalità, distribuzione, tecnologia ecc.), le politiche per la mobilità, e le politiche ambientali. La progettazione della Città metropolitana può e deve servire alla soluzione di questi problemi. Se leggiamo l'elenco delle competenze previste dall'art. 19 della L. 142/90 le potenzialità di una riorganizzazione istituzionale emergono in maniera immediata. Tali strumenti dovrebbero ovviamente essere indirizzati ad un

riposizionamento competitivo dell'area torinese rispetto alle altre aree metropolitane italiane ed europee. Su questo tema non ci dilunghiamo dato che molto è già stato detto attraverso numerose ricerche sulla competitività tra le grandi aree urbane europee in termini di dotazione di infrastrutture e servizi. Lo sviluppo economico è sempre più legato alla presenza di aree-sistema in grado di attarre investimenti innovativi, le c.d.

«localizzazioni pregiate». E evidente che politiche di questo tipo non possono essere efficacemente affrontate nell'ambito del solo Comune di Torino e, da questo punto di vista, anche le scelte del Piano regolatore generale (senza per questo necessariamente rinviarne l'attuazione) dovrebbero essere adeguate ad un quadro di riferimento più ampio».

Ugualmente, lo sviluppo metropolitano, richiede investimenti rilevanti, dovendo ricuperare un lag

infrasttrutturale notevole originato da un lungo periodo dì assenza di grandi interventi strategici, perlomeno relativamente ad altre aree europee. E impensabile che questi possano derivare solo dall'intervento pubblico e tanto più da quello locale. Credo che non sia peccato di lesa autonomia sostenere che tutte le problematiche collegate al fenomeno metropolitano non possono essere circoscritte al governo locale, assumendo una valenza nazionale per tutto quello che concerne le complementarietà e le connessioni con le altre aree metropolitane del paese: pensiamo solo al ruolo ad al peso finanziario dell'Ente ferrovie dello stato, o della SIP, che risultano attualmente tra ì più grossi investitori nell'area torinese. Ugualmente su 46 grandi progetti infrastnitturali, pubblici e misti, censiti dalla Fondazione Agnelli e dalla Associazione per Tecnocity', insistenti sull'area torinese, solo 3 avevano un'area di influenza solo urbana. La dimensione degli interessi in gioco nelle aree metropolitane, ovvero in termini economici, le esternalità positive (o negative) che derivano dai processi di sviluppo metropolitano, travalicano infatti la dimensione locale e regionale, richiedendo polìtiche urbane a livello nazionale (dalla dotazione di risorse aggiuntive all'intervento diretto). Se si vuole considerare Torino un caso nazionale, bisogna anche trarne tutte le conseguenze. Si tratta

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