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La programmazione delle attività commerciali

LA LIBERALIZZAZIONE DELLE ATTIVITÀ DI SERVIZI

3.3. La programmazione delle attività commerciali

La Direttiva Servizi vieta espressamente le restrizioni all’avvio e all’esercizio di attività di servizi che derivano da meccanismi di programmazione e pianificazione basati su alcuni presupposti specificamente individuati, quali la prova dell’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato, la valutazione degli effetti economici potenziali o effettivi dell’attività o alla valutazione dell’adeguatezza dell’attività rispetto agli obiettivi di programmazione economica stabiliti dall’autorità competente (art. 14, par. 1, n. 5). Restrizioni al numero di aperture sono consentite solo per salvaguardare interessi generali di rango equivalente alla tutela della concorrenza e della libertà di iniziativa economica, con esclusione dell’esigenza di assicurare una quota di mercato agli esercizi già esistenti; il divieto, dunque, non riguarda i requisiti di programmazione dettati da motivi imperativi d’interesse generale che non perseguono obiettivi economici (art. 11, comma 1, lett. e). Di conseguenza, le autorità competenti non possono, nella predisposizione dei provvedimenti di programmazione, utilizzare criteri collegati al rapporto tra domanda e offerta, né limitazioni numeriche che non siano determinate da motivi imperativi di interesse generale, quali, ad esempio, la tutela del patrimonio storico, artistico, architettonico e ambientale, dell’ordine pubblico e della salute pubblica.

La previsione di restrizioni quantitative o territoriali sotto forma, in particolare, di restrizioni fissate in funzione della popolazione o di una distanza geografica minima tra prestatori costituisce un requisito

subordinato alla sussistenza di un motivo imperativo di interesse generale (art. 15, par. 2, lett. a), direttiva 2006/123/CE; art. 12, comma 1, lett. a), d. lgs. n. 59/2010). In proposito, la Corte di giustizia ha ritenuto difficile che disposizioni sulle distanze minime obbligatorie possano essere idonee a tutelare i consumatori o a procurare loro dei vantaggi; una normativa di questo tipo, infatti, “sembra piuttosto favorire la posizione degli operatori

già presenti sul territorio […], senza che i consumatori ne traggano effettivi benefici”198

La disciplina generale sulla programmazione ha trovato puntuale applicazione per le attività di somministrazione di alimenti e bevande e di commercio al dettaglio su aree pubbliche. Per la somministrazione di alimenti e bevande, l’articolo 64, comma 3, d. lgs. n. 59/2010 dispone che, al fine di assicurare un corretto sviluppo del settore, i Comuni, limitatamente alle zone del territorio da sottoporre a tutela, adottano provvedimenti di programmazione delle aperture degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico, ferma restando l’esigenza di garantire sia l’interesse della collettività inteso come fruizione di un servizio adeguato sia quello dell’imprenditore al libero esercizio dell’attività. Tale programmazione può prevedere, sulla base di parametri oggettivi e indici di qualità del servizio, divieti o limitazioni all’apertura di nuove strutture limitatamente ai casi in cui ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi di controllo in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità. In ogni caso, resta ferma la finalità di tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale e sono vietati criteri legati alla verifica di natura economica o fondati sulla prova dell’esistenza di un bisogno economico o sulla prova di

198 Corte di giustizia, sentenza 11 marzo 2010, causa C-384/08, Attanasio Group Srl, in Racc. 2010, I-02055, punto 56.

una domanda di mercato, quali entità delle vendite di alimenti e bevande e presenza di altri esercizi di somministrazione.

Riguardo al commercio al dettaglio sulle aree pubbliche, l’articolo 28, comma 13, d. lgs. n. 114/1998, così come modificato dall’articolo 70, comma 3, d. lgs. n. 59/2010, assegna alle Regioni, al fine di assicurare il servizio più idoneo a soddisfare gli interessi dei consumatori e un adeguato equilibrio con le altre forme di distribuzione, il compito di stabilire i criteri generali ai quali i Comuni si devono attenere per la determinazione delle aree e del numero dei posteggi da destinare allo svolgimento dell’attività, per l’istituzione, la soppressione o lo spostamento dei mercati che si svolgono quotidianamente o a cadenza diversa, nonché per l’istituzione di mercati destinati a merceologie esclusive sulla base delle caratteristiche economiche del territorio, della densità della rete distributiva e della popolazione residente e fluttuante limitatamente ai casi in cui ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale e sociale, di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di acquisto nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi di controllo, in particolare, per il consumo di alcolici e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità. In ogni caso resta ferma la finalità di tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale e sono vietati criteri legati alla verifica di natura economica o fondati sulla prova dell’esistenza di un bisogno economico o sulla prova di una domanda di mercato, quali entità delle vendite di prodotti alimentari e non alimentari e presenza di altri operatori su aree pubbliche. Le Regioni stabiliscono, altresì, le caratteristiche tipologiche delle fiere, nonché le modalità di partecipazione alle medesime prevedendo in ogni caso il criterio della priorità nell'assegnazione dei posteggi fondato sul più alto numero di presenze effettive.

Il quadro normativo sopra descritto ha recentemente subito importanti modifiche. L’articolo 34, comma 3, lett. b), d. l. 6 dicembre 2011, n. 201, ha abrogato l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni

delle sedi deputate all’esercizio di una attività economica; al tempo stesso, l’articolo 31 ha qualificato come principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio “senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura,

esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali”; entro 90 giorni dalla data di

entrata in vigore della legge di conversione del decreto, le Regioni e gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri ordinamenti a tale disposizione.

3.4. Le tariffe

La Direttiva Servizi inserisce le tariffe obbligatorie minime e/o massime che il prestatore deve rispettare tra i requisiti subordinati alla sussistenza di un motivo imperativo di interesse generale, ammissibili solo in presenza di una giustificazione obiettiva, nel rispetto dei principi di proporzionalità e non discriminazione. Questa prescrizione riflette a livello normativo l'orientamento della Corte di giustizia, più volte chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità delle tariffe obbligatorie minime e massime con la libera prestazione dei servizi. In proposito, la Corte ha affermato che il divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari può rendere la prestazione di servizi tra Stati membri più difficile della prestazione di servizi puramente interna ad uno Stato e ostacolare l’accesso dei prestatori in Paese diverso da quello in cui sono stabiliti. In effetti, il divieto in questione priva gli operatori economici stabiliti in un altro Stato membro della possibilità di mettere in atto una concorrenza più efficace, chiedendo onorari inferiori a quelli tariffari, nei confronti di quanti sono stabiliti permanentemente nello Stato dove vengono prestati i servizi, i quali dispongono di una maggiore facilità di crearsi una clientela; al tempo stesso, il divieto limita la scelta dei destinatari, i quali non possono

ricorrere ai servizi di prestatori stabiliti in altri Stati membri che potrebbero offrire i loro servizi a un prezzo inferiore ai minimi tariffari. Per questi motivi, il divieto costituisce una restrizione alla libera prestazione di servizi, che può essere giustificata qualora risponda a ragioni imperative di interesse pubblico, purché sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vada oltre quanto necessario per il suo raggiungimento199. Chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con la libera circolazione dei servizi dell’obbligo di rispettare tariffe massime, la Corte di giustizia ha ritenuto che la Commissione non sia riuscita a dimostrare che una normativa di questo tipo pregiudichi l'accesso dei prestatori al mercato dello Stato membro ospitante, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci200.

Nell’ordinamento italiano, la riforma delle tariffe per i servizi professionali ha avuto un esito divergente da quello europeo. L’articolo 2, comma 1, lett. a), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, aveva disposto l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedono, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti; il comma 2 del medesimo articolo salvaguardava le eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti.

Successivamente, l’articolo 9, d. l. n. 1/2012, ha abrogato le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. Si è, così, giunti all'abolizione totale delle tariffe, non solo di quelle minime, che pure erano state ritenute giustificabili dalla Corte di giustizia, ma anche di quelle massime, considerate dal legislatore nazionale, benché non dalla Corte, anch'esse "restrizioni ingiustificate ai comportamenti di prezzo dei

professionisti e variabili a disposizione del cliente per compiere le proprie

199 Corte di giustizia, sentenza 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e

Macrino, in Racc. 2006, I-11421, punti 57-61.

200 Corte di giustizia, sentenza 29 marzo 2011, causa C-565/08, Commissione c. Italia, in Racc. 2011, pag. I-02101.

decisioni commerciali"201. In attuazione dell’articolo 9, comma 2, d.l. n. 1/2012, per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, la liquidazione dei compensi da parte di un organo giurisdizionale avviene in base ai parametri determinati dal decreto del Ministro della Giustizia 20 luglio 2012, n. 140202.