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La Ragion di Stato e la coscienza individuale

2.2. Il dilemma tragico: il dissidio interiore

2.2.2. La Ragion di Stato e la coscienza individuale

Il personaggio più drammatico nella prima tragedia manzoniana è Marco, in lui si sviluppa un conflitto interiore più forte che in Carmagnola. È un contrasto fra il sentimento di amicizia che lo lega al Conte, e la Ragione di Stato che lo costringe a coinvolgersi agli intrighi dei potenti.

Il senatore Marco viene messo sotto accusa per aver parlato in difesa di Carmagnola che ha liberato i prigionieri di guerra. Marco, avendo fiducia nella lealtà del Conte, non crede possibile che il suo amico sia traditore ed invano cerca di allontanare l’amico da un tranello prima che ci caschi, ma è impotente per salvarlo. Quando il Consiglio dei Dieci lo condanna, Marco è costretto a sottoscrivere un giuramento di tacere e riceve l'ordine di recarsi a Tessalonica in missione.

Durante il colloquio con Marino, Marco esprime l'angosciosa lotta nel suo animo tra il dovere di obbedire agli ordini del senato e il dovere di seguire la

184 F. De CRISTOFARO, Profili di storia letteraria, a cura di Andrea Battistini, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 55.

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coscienza morale. Marco, sopraffatto dalla tensione di interrogazione, dichiarando la propria fedeltà assoluta allo Stato, ha tradito un momento la sua coscienza:

«non posso Dimenticarmi che patrizio io sono,

Né a voi tacer che un dubbio tal m'offende. Sono un di voi: la causa dello Stato

È la mia causa; e il suo segreto importa A me non men che altrui»185.

Ma subito inizia a difendere il suo amico. Egli cerca di tenere uniti i due princìpi, ossia «l'utile ed il giusto»186, mentre il consigliere Marino invece inganna sulla giustizia in nome della Ragion di Stato:

«Quando nascoste

All'ombra della pubblica vendetta, Le nimistà private io disvelai;

Quando chiedea che a provveder s'avesse L'util soltanto dello Stato, e il giusto; Allora ufizio io non facea d'amico, Ma di fedel patrizio»187.

Dall'ottica tortuosa della politica il dovere dell’amicizia viene presentato radicalmente come alternativo alle necessità politiche188. Marco sente colpevole di aver creduto che a Venezia ciò che onora viene prima di tutto189. Manzoni, fondamentalmente, ritiene i due concetti inseparabili. Infatti, per Manzoni, la questione dell'utilità non è la ricerca della maggior somma d’utilità, ma delle istituzioni adattate a produrre la maggior somma d’utilità per tutti:

«Ma altro è il dire che, tra la giustizia e l'utilità, non ci possa essere una vera e definitiva opposizione; altro è il dire che siano una cosa sola, cioè che la giustizia non sia altro che utilità. La prima di queste proposizioni esprime una di quelle verità che, più o meno distintamente e fermamente

185 A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola, cit., Atto IV, Sc. I,vv. 98-104, p. 123. 186 Ivi, Atto IV, Sc. I, v. 185, p. 127.

187 Ivi, Atto IV, Sc. I, vv. 181-187, p. 127. 188

Qui, è presente fortemente il machiavellismo che separa severamente l'utile e il giusto, secondo cui il comportamento politico ha come fine l'utile, l'utile dello stato, mentre per il comportamento morale, il fine è il giusto.

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riconosciute, fanno parte del senso comune; la seconda, è diremo anche qui, un'alterazione, una trasformazione di questa verità che il sistema ha presa dal senso comune: perchè, col mezzo proposto da esso, non si sarebbe trovata in eterno»190.

Marco non vuole compromettersi con le iniquità della politica, ma neanche ha la forza di rifiutarle. La Serenissima repubblica ha chiuso alla coscienza di Marco ogni via d'uscita. Così resta intrappolato nel dilemma: «stornarlo o starne a parte»191, cioè impedire il tradimento o esserne complice. Il senatore, così combattuto fra le forze contrarie, infine cede alla tremenda disciplina della repubblica veneziana, in altre parole, ha tradito la voce della sua coscienza. Marco è vittima e insieme collaboratore del potere ingiusto. Lonardi afferma che egli è «cooperatore "tragico" dell'ingiustizia e del male nei confronti dell'eroe innocente, e anzi, suo consapevole Giuda»192.

Marco poi, meditando dolorosamente sulla propria natura, rivela la sua debolezza morale. Il monologo è considerato dai critici una delle scene più belle della prima tragedia, in cui Marco confessa la propria viltà che l'ha condotto al tradimento ed esprime il suo profondo dolore e il pentimento. Momigliano ritiene questo momento in cui Marco cade in un profondo abbattimento morale la cosa più nobile del Carmagnola:

«Dunque è deciso! ... un vil son io! ... fui posto Al cimento; e che feci?... Io prima d'oggi Non conoscea me stesso! ... Oh che segreto Oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio Un amico io potea! Vedergli al tergo L'assassino venir, veder lo stile Che su lui scende, e non gridar

[...]

O Dio, che tutto scerni Rivelami il mio cor; ch'io veda almeno In quale abisso son caduto, s'io

190 A. MANZONI, Appendice al capitolo terzo delle Osservazioni sulla morale cattorica, in Opere morali e filosofiche, a cura di Fausto Ghisalberti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1963, p. 212.

191 A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola, cit., Atto IV, Sc. I, v. 201, p. 128. 192 G. LONARDI, Ermengarda e il pirata, cit., p. 30.

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Fui più stolto, o codardo, o sventurato»193.

Questo uomo di saggezza, dinanzi alla violenza della logica politica, soffre della sua incapacità di poter scegliere la giustizia e di aver abbandonato l'amico al suo destino di morte non avendo coraggio di avvertirlo segretamente. Si sente più colpevole dei senatori perfidi e preso da un acuto senso di rimorso. Marco è impegnato in una lotta disperata contro la volontà, che gli impone di fare ciò che non vorrebbe:

«Un nobile consiglio

Per me non c'è; qualunque io scelga, è colpa. Oh dubbio atroce! ... Io li ringrazio; ei m'hanno Statuito un destino; ei m'hanno spinto

Per una via; vi corro: almen mi giova Ch'io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto Ch'io faccio è forza e volontà d'altrui»194.

Egli è trascinato lungo una via che non si è scelto ed incapace di trovare un via d'uscita. Qualunque azione nella storia si risolve nel male. Il rifiuto di una qualsiasi scelta si configura come un tentativo estremo. Marco affronta lo stesso dilemma di Adelchi, ma non ha coraggio di sopportare le conseguenze diversamente dal principe longobardo.

Scalvini definì Marco come «un vile, poiché rappresentato come una coscienza dominata dal terrore invece che da un conflitto di doveri, che sarebbe stato ben altrimenti nobile e tragico»195. Marco però è un personaggio autenticamente tragico di Manzoni. La sua tragicità coincide con la sua evidente consapevolezza della propria debolezza.

Infatti, Manzoni l'ha ideato come una semplice figura di vile. L'autore, mettendolo di fronte a se stesso e alla sua condizione di dilemma, offre uno spunto che fa riflettere sulla debolezza umana.

«voler che fosse debolezza ed inganno… ed io l’ho presa!

193

A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola, cit., Atto IV, Sc. II, vv. 270-276, 288-291, pp. 134- 135.

194 Ivi, Atto IV, Sc. II, vv. 336-342, pp. 172-173.

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Io li spregiava; e son da men di loro!»196.

L'esame di coscienza raggiunge una dolorosa consapevolezza. Marco si condanna al rimorso riconoscendo la verità della sua miseria di debole.

Manzoni voleva mettere in luce il fatto che la debolezza può essere vista come complice dell'ingiustizia, cioè l'inerzia di fronte al male. Marco è divenuto l'alleato del male richiamando don Abbondio, il vecchio parroco nei Promessi Sposi. Entrambi i due personaggi sono destinati a partecipare all'ingiustizia. Tuttavia, a differenza di don Abbondio, in Marco c'è una consapevolezza delle proprie azioni e delle conseguenze di esse.

Come sostiene Sant'Agostino l'«ignoranza e debolezza sono i vizi che impediscono alla volontà di determinarsi a fare un'opera buona o ad astenersi da un'opera cattiva»197, ma Manzoni cosidera la conoscenza dell'ignoranza e della debolezza umana come un'occasione di abbracciare la luce del cielo. Perciò Manzoni, fiducioso in un Dio, lascia aperta una prospettiva di salvezza anche a Marco:

«in tra i perigli certo per sua pietade il ciel m’invia»198

.

In tutta la tragedia si nota la tendenza a rilevare la responsabilità morale. Don Abbondio, definito come l'uomo della paura, è una figura esemplare che fugge dalla responsabilità per timore199. Egli non si comporta come si dovrebbe comportare. Troviamo un giudizio morale dell'autore in Fermo e Lucia:

«l’uomo timido, il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male e facendolo spontaneamente mostra almeno di avere una gran forza d’animo, e di sentire le alte passioni, e che potrebbero esser solleciti per quelmeschino, credo di doverli informare che don Abbondio non morì di

196

A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola, cit., Atto IV, Sc. II, vv. 312-314, p. 136.

197 Cfr. SANT'AGOSTINO, Il castigo e il perdono dei peccati ed il battesimo dei bambini, in Natura e Grazia, Roma, Città nuova editrice, 1981, 2, 17, 26, p. 159.

198 A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola, cit., Atto IV, Sc. II, vv. 345-346, p. 138. 199

Cfr. Fra Cristoforo testinomia che il vergognoso comportamente di don Abbondio dipende completamente dalla paura: «Mettere un po' di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura». (A. MANZONI, I Promessi Sposi, cit., cap. V, p. 84)

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quella febbre»200.

Marco non rappresenta una meschinità morale come lo condanna F. Pezzi, anzi è un portavoce di Manzoni, che denuncia il dilemma dell'uomo giusto di fronte al potere ingiusto e della violenza. L'autore, attraverso la figura di Marco, voleva «dimostrare fino a che punto un regime e un costume politico erronei potessero paralizzare di fatto la scelta giusta anche per una coscienza retta, [...]; rilevare insomma la stortura di una società che rendeva estremamente difficile ai buoni fare il bene»201. Infatti, la tragedia si è concentrata più sulla perfidia della repubblica veneziana che sulla caduta di Carmagnola innocente.

«Che importa

Ciò ch'io bramo, allo Stato? A prova ormai Sa che dell'opre mie non è misura

Il desiderio, ma il dover»202.

Nel Conte di Carmagnola si manifesta una netta contrapposizione tra bene e male, incarnati nelle figure del singolo giusto e dell'intera società perversa. Di fronte al male della società, il singolo non trova scampo.