4.1. La serenità della morte
4.1.4. Provvida Sventura
Nelle sue tragedie Manzoni introduce il concetto di "Provvida sventura". I due giovani principi nell'Adelchi subiscono una sorte diversa da quella della loro origine presentata come una stirpe di oppressori violenti e sanguinari. Essi, al momento della morte, si trovano nel piano della divina Provvidenza.
Manzoni vede nella sofferenza un segno della presenza di Dio. Secondo l'autore la sventura è un disegno invisibile di Dio che agisce nella storia. La sventura è un privilegio di grazia divina che tocca soltanto ad alcuni personaggi come afferma Carmagnola:
«Allor che Dio sui boni
Fa cader la sventura, ei dona ancora Il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro Alla sventura or sia»370.
Adelchi stesso dice che egli muore per volere della Provvidenza e bisogna accettarla:
«io vengo Senza aspettar che tu mi chiami; il posto
368 A. MANZONI, Adelchi, cit., Atto IV, Coro, vv. 89-92, p. 165.
369 G. CAVALLINI, Lettura dell’Adelchi e altre note manzoniane, cit., p. 64. 370 A. MANZONI, Il Conte di Carmagnola, cit., Atto V, vv. 259-262, p. 133.
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Che m'assegnasti, era difficil troppo; E l'ho deserto!»371.
La morte, annullando il dissidio interiore di Adelchi, gli conceda la pace che era negata sulla terra. La "provvida sventura" redime il principe dalla macchia della sua stirpe violenta.
«Accanto ad Adelchi a condividerne in una dimensione di privata inquietudine d'affetti, la sorte d'inevitabile oppressione, è presente la sorella Ermengarda, l'altra vittima incolpevole»372. Ermengarda vive la sofferenza del suo trapasso come un dolore provvidenziale. Il nucleo concettuale del coro di Ermengarda sta proprio nell'attribuire un valore al suo destino immutabile predefinito dalla provvida sventura. Ermengarda, discesa dalla rea progenie degli oppressori e colpita dalla sventura, muore tra gli oppressi «d'un volgo disperso che nome non ha»:
«Te collocò la provida Sventura in fra gli oppressi: Muori compianta e placida; Scendi a dormir con essi: Alle incolpate ceneri Nessuno insulterà»373.
Pur non avendo personalmente nessuna colpa Ermengarda condivide le loro colpe con la propria sofferenza. La sventura mandata dalla provvidenza la purificherà dalla colpa e riscatterà il suo destino accomunando alle «incolpate ceneri» che non potranno mai essere insultate, ma solo essere compiante. Il destino abbatte Ermengarda e, allo stesso tempo, la eleva. La sua morte sembra contradditoria, ma per quel destino essa è la logica conseguenza:
«Tal della mesta, immobile era quaggiuso il fato:
[...]
al Dio de’ santi ascendere, santa del tuo patir».
La morte, secondo il concetto manzoniano della provvida sventura, permette ai
371 A. MANZONI, Adelchi, cit., Atto V, Sc. II, vv. 81-84.
372 Gino TELLINI, Alessandro Manzoni, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 57. 373 A. MANZONI, Adelchi, cit., Atto IV, Coro vv. 103-108, p. 166.
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due principi longobardi di sfuggire al destino che spetta al popolo di oppressori a cui essi appartengono. Dunque, la provvida sventura salva gli oppressori e i vinti in virtù delle sofferenze e delle ingiustizie subite in terra. Il dolore è visto come provvida sventura, che induce alla morte serena. Questa morte purifica l'amina dell'innocente da ogni colpa, in vista di un premio di salvezza, proiettato nella dimensione ultraterrena.Basti pensare all'ultima strofa del coro dedicato ad Ermengarda, che si chiude con l’immagine del sole al tramonto che annuncia un giorno più sereno. Questa immagine del tramonto allude alla morte e, allo stesso tempo, alla resurrezione:
«Così dalle squarciate nuvole si svolge il sol cadente, e,dietro il monte, imporpora il trepido occidente:
al pio colono augurio di più sereno dì»374.
Qui, si sovrappongono il volto dell'innocente Ermengarda ignara dell'avvenire destino avverso e lo sguardo del contadino che al tramonto vedendo il sole squarciare le nuvole, spera in un giorno più sereno. Il finale del coro è la convinzione che «Fuor della vita e il termine / Del lungo tuo martir»375. La creatura innocente ora è sulla soglia della salvezza divina. Con la morte si è liberata dalla sua dolorosa sorte terrena purificandosi dal male.
Anche nell'ode civile il Cinque Maggio, Manzoni esprime compiutamente il concetto di "Provvida Sventura". Come già illustrato precedentemente, questa ode è rivolta alla vita di Napoleone, che passò dalla gloria alla sconfitta. La vicenda napoleonica viene vista alla luce di valori eterni. La sua caduta è conseguenza di un imperscrutabile progetto divino come quella di Adelchi e Ermengarda che passano dalla stirpe degli oppressori alla schiera degli oppressi. Ermengarda e Napoleone muoiono distanti dal luogo dove hanno condotto la loro vita: Napoleone in esilio a Sant’Elena, Ermengarda nel monastero. Lì entrambi sono assaliti dal ricordo del passato, il generale francese «dei dì che furono» pieni di passione e ambizione, e la principessa longobarda
374 Ivi, Atto IV, Coro, vv. 114-120, p. 166. 375 Ivi, Atto IV, Coro, vv. 17-18, p. 163.
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de«gl’irrevocati dì» passati con Carlo Magno. Nell’ultimo istante della vita tutto il passato compare nella nostra memoria. Entrambi i personaggi sono presi dalla disperazione davanti al contrasto straziante tra il passato splendido e il presente così inerte. Essi però trovano il conforto e la speranza della redenzione in virtù della misericordia di Dio. Così anche Napoleone, caduto nella disperazione, trova rifugio e conforto nella mano di Dio:
«Ahi! forse a tanto strazio Cadde lo spirto anelo, E disperò; ma valida Venne una man dal cielo, E in più spirabil aere Pietosa il trasportò; E l'avviò, pei floridi Sentier della speranza, Ai campi eterni, al premio Che i desideri avanza, Dov'è silenzio e tenebre La gloria che passò»376.
«Nell'Ermengarda si va più oltre, c'è una più delicata esplorazione nelle regioni della verità morale e del sentimento, cioè che anche gli umili - e i potenti scesi al livello degli umili- e gli oppressi, diventano grandi portati sulla scala di Dio»377.
Vale la pena soffermarsi sul concetto del dolore. Il dolore è, per gli antichi greci come per i cristiani, un fondamento della vita. Per i primi il soffrire apparteneva alla natura dell'uomo, è stato poi il Cristianesimo a fornire un valore ad esso. Fuori dalla cultura cristiana, quindi la sofferenza è semplicemente un destino al pari della gioia. Perciò i Greci la accoglievano con pietà senza però saper dare ad essa ragione adeguata, invece nel Cristianesimo la sofferenza acquista un senso misterioso da ricercare nella passione di Cristo. Per quanto riguarda la morte, gli antichi greci la intendevano come qualcosa di terribile, mentre i cristiani non vedono la morte come qualcosa di definitivo e negativo, essi infatti credono che dopo la vita terrena, inizia seplicemente
376 A. MANZONI, Il Cinque Maggio, in Tutte le poesie, cit., vv. 85-96, pp. 436-437. 377 C. ANGELINI, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi, cit., pp. 49-50.
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quella spirituale. Quindi, per questi ultimi la morte assume un senso di speranza e di consolazione. Invece, per i greci non esiste dopo la morte alcun premio o alcuna condanna. Nell'ottica della mitologia e della cultura antica greca, sopportare il dolore e la morte è un gesto di superiorità nei confronti della fragilità e della vulnerabilità dell'esistenza.
«Il grande tema della necessità e fecondità del dolore, esaltato dai romantici come intrinseco della condizione umana e sentito come un assoluto, acquista così un nuovo e più ampio significato: diventa strumento di redenzione e di pace, merito al cospetto di Dio, premessa di beatitudine celeste, cosicché ogni angoscia passata trapassa in consolazione e prepara una serenità destinata a durare oltre il tempo»378.
Come si è già detto, nelle tragedie manzoniane la sofferenza è providenziale. Quando l'uomo cade nella sofferenza la provvidenza soccorre per redimerlo. «La sofferenza ha un preciso significato morale e religioso: tra la realtà dolorosa in cui cadono e la forza necessaria per affrontarla, tra l'esperienza amara che fanno e il guadagno spirituale che ne ricavano, tra la pena che li affligge e la colpa per cui l'hanno meritata c'è sempre una corrispondenza armonica, un ben dosato equilibrio»379.
Negli eroi manzoniani il dolore costituisce il carattere stesso della loro personalità. La sofferenza è una prova del loro valore e segna la distanza che li separa dalle persone comuni. Questa prova precede un intervento salvifico e comunque tende a garantire ai fedeli una benedizione come risposta alla fedeltà provata e verificata. Qui si rivela che non ogni sofferenza è sempre un male. Alla fine del capitolo ottavo dei Promessi Sposi, Manzoni chiarisce esplicitamente la pedagogia del dolore tramite il sentimento di Lucia: «Dio non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande»380. Come si è detto qui preannunciando il lieto fine del romanzo, la sofferenza permessa da Dio è una preparazione per una maggior felicità. La visione dell’innocente ingiustamente colpito dalla sofferenza postula una retribuzione che non è visibile quaggiù, ma che deve essere certa quanto meno
378 G. CAVALLINI, Lettura dell’Adelchi e altre note manzoniane, cit., p. 62. 379 P. MAZZAMUTO, op. cit., pp. 122-123.
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nell’altra vita. In quest’ottica, la vita terrena può essere interpretata come un periodo di formazione per la vita eterna. Il poeta, appunto, chiama Ermengarda innocente «pellegrina»381. Ella è straniera nel mondo in cui vive e soffre. È il tema dominante dell'inno La Passione. La sofferenza dell'innocente non è altro che la sofferenza di Cristo. Il Cristo subisce la sofferenza e la morte per le conseguenze della colpa, non la sua. Egli scende dalla natura divina alla condizione umana per condividere con i «fratelli tapini» il loro «funesto retaggio»:
«Quei che siede sui cerchi divini, E d'Adamo si fece figliolo; Né sdegnò coi fratelli tapini Il funesto retaggio partir:
Volle l'onte, e nell'anima il duolo, E l'angosce di morte sentire, E il terror che seconda il fallire, Ei che mai non conobbe il fallir»382.
La provvida sventura «ci svela inoltre il vero senso delle tragedie manzoniane, senso che, al di là del tessuto storico che dà loro corpo, va cercato nel superamento delle passioni, nell'armonizzare ogni vicenda nel quadro della economia divina, nel vedere cioè nella storia non una logica vicenda umana, ma un misterioso intrecciarsi di particolari momenti della logica divina»383. È il più importante insegnamento delle tragedie manzoniane. Più tardi nel romanzo il concetto di provvida sventura attribuita ai personaggi tragici si svilupperà allontanandosi dal triste pessimismo delle tragedie.
La «provida sventura» che consola il destino infelice di Ermengarda e di Adelchi, si manifesta nella forma della grazia. Manzoni, nella Pentecoste, chiarisce il concetto di grazia nella similitudine del fiore:
«I doni tuoi benefica Nutra la tua virtude; Siccome il sol che schiude Dal pigro germe il fior;
381 A. MANZONI, Adelchi, cit., Atto IV, Sc. I, v. 91, p. 156.
382 A. MANZONI, La Passione, in Tutte le poesie, cit., vv. 33-40, p. 352. 383 D. C. PARRA, op. cit., pp. 38-39.
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Che lento poi sull’umili Erbe morrà non colto, Né sorgerà coi fulgidi Color del lembo sciolto, Se fuso a lui nell’etere Non tornerà quel mite Lume, dator di vite, E infaticato altor»384.
La grazia è la luce del sole che fa dischiudere il fiore dal seme inerte, ma il fiore poi appassirà se quella luce non tornerà di continuo a sostenerlo, poiché è essa che gli dà la vita e infaticabilmente l'alimenta. Per l'uomo è impossibile la salvezza senza l'imperscrutabile Grazia divina.
Nell'Adelchi Manzoni si riferisce alla grazia «che si concede non a tutti, ma solo ad alcuni privilegiati»385. È come la luce del sole, che si irradia per tutti ma sarà accolta soltanto da alcuni eletti predestinati alla salvezza. Per questa parzialità della grazia nell'Adelchi esistono due mondi paralleli: da una parte quello toccato dalla grazia divina, dall'altra negata. Invece, nei Promessi sposi la grazia divina non sarà più un privilegio per un piccolo numero di eletti, essa non fa eccezione dal nobile e dal fervido credente al criminale, dal colto alla contadina semplice. Dunque è una certezza che si riceve nell’esercizio della virtù. C'è possibilità per tutti quelli che la desiderano ardentemente come ci mostra la conversione dell'Innominato.
Manzoni lo afferma nelle Osservazioni sulla morale cattolica: la grazia divina, «che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia»386. Con la fiducia di Dio l'uomo sarà capace di superare ogni ostacolo come afferma Lucia: «Paura di che? [...] abbiamo passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso»387.
384 A. MANZONI, La Pentecoste, in Tutte le poesie, cit., vv. 101-112, p. 375. 385
L. RUSSO, L'Adelchi, tragedia della grazia, in La critica letteraria, Foscolo, Manzoni, Leopardi, a cura di Emilio Piccolo, Napoli, Loffredo & Dedalus, 2000, p. 163.
Si veda la nota di Russo in Liriche e Tragedie, cit., p. 64: «In questo rigorismo selettivo, caro al Manzoni, di ispirazione agostiniana, gli studiosi leggono, e non a torto, l'influenza della religiosità giansenistica». I Giansenisti dicevano la Grazia frutto della misericordia di Dio ed è per questo appunto che non è data a tutti.
386 A. MANZONI, Osservazioni sulla morale cattorica, Opere morali e filosofiche, cit., cap. III, p. 40
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Come osserva Manzoni, il dolore può avere degli effetti positivi, «nelle avversità, le consolazioni sono per l'animo umile, che si riconosce degno di soffrire, e prova il senso di gioia che nasce dal consentire alla giustizia. Riandando i suoi falli, le avversità gli appariscono come correzioni d'un Dio che perdonerà, e non come colpi d'una cieca potenza; e cresce in dignità e in purezza, perchè, a ogni dolore sofferto con rassegnazione, sente cancellarsi alcuna delle macchie che lo deformavano»388. Se i protagonisti riescono a riconoscere la dignità di sofferenza ed accoglierla con rassegnazione cristiana, la sofferenza aprirà la porta verso la speranza di riscattarsi. Essi potranno conquistare qualcosa di molto alto e prezioso, cioè la salvezza dell'anima. La morte non sarà mai sventura, per quanto provvida. Gli eroi sofferenti proprio «in cospetto della morte scoprono il segreto della vita, il segreto di chi vince e di chi perde veramente; di che opprime e di chi è oppresso, definitivamente; di chi tradisce e di chi perdona proficuamente; proprio in cospetto della morte, può confortare la tristezza di tutto il male patito con la certezza di tutto il bene che lo aspetta sicuro»389.