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La rottura definitiva con la fazione puritana

3. La polemica Perkins-Bruno

3.2 La rottura definitiva con la fazione puritana

Un’analisi puntuale di alcuni nuclei concettuali dello Spaccio può permettere di evidenziare come il crollo definitivo del possibile terreno di incontro con i puritani conduca Bruno ad una violentissima e definitiva frattura con la loro fazione; prima di effettuare tale disamina, però, può essere utile mostrare come l’esperienza delle

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Il gelo calato tra Bruno e Dicson può essere spiegato proprio alla luce di questo: il Nolano, che tante speranze aveva riposto nel discepolo, si sente tradito dalla semplificazione e banalizzazione da lui operata della sua arte della memoria e dalla sua incapacità di rispondere adeguatamente alle critiche di Perkins, lettore ben più acuto. A proposito del rapporto tra i due intellettuali, cfr. G.AQUILECCHIA, Le opere italiane di Giordano Bruno. Critica testuale e oltre, Bibliopolis, Napoli 1991, pp. 87-103; R. STURLESE, Bibliografia, censimento e storia delle

antiche stampe di Giordano Bruno, cit., p. XXIV; EAD.,Un nuovo autografo del Bruno: con una postilla sul De umbra rationis di A. Dicson, cit., pp. 387-391.

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G. BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 638. I puritani, con il loro intransigente

calvinismo, hanno piantato il seme della disgregazione nella società inglese e, attraverso il progetto di riforma presentato nello Spaccio de la bestia trionfante, Bruno vuole indicare ad Elisabetta una strategia per ristabilire l’ordine, consistente in una religione intesa come ‘vincolo’ civile, imperniato sul recupero da un lato della sapienza egizia e dall’altro della romana religio.

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fratricide guerre di religione abbia portato a maturazione l’idea del Nolano della denuncia e della possibile soluzione dei conflitti interni alla società, attraverso un confronto con il grande affresco del Candelaio. Dalla commedia affiora un quadro concreto dei bassifondi napoletani, con i loro luoghi più noti ed i loro tipici abitanti dediti all’imbroglio, dei quali vengono tratteggiate vividamente le fisionomie. I ‘marioli’ Sanguino, Barra, Marca e Corcovizzo – uomini indissolubilmente legati al territorio in cui sono nati, che anche nelle loro ingiurie non possono evitare di fare riferimento ai luoghi che conoscono meglio, assidui avventori di ogni genere di bettola, tra cui l’osteria del Cerriglio, una delle più malfamate della città, e frequentatori dei quartieri noti per la presenza di cortigiane – conoscono personaggi popolari a Napoli come Cola Perillo, soggetto anche di una novella di Matteo Bandello, ed il farsesco Coppino, sono spesso blasfemi ed hanno un’idea di religione che si riduce ad un culto esteriore dei santi legato ai santini tanto in voga a Napoli ed alla loro iconografia popolare, povera e caratterizzata da attributi attraverso i quali il santo diventi immediatamente riconoscibile. Lo stretto legame da loro instaurato tra santo ed attributo caratterizzante conduce all’esito paradossale per cui determinati oggetti, per una loro peculiarità, possono essere scherzosamente personificati e canonizzati: è il caso del san Manganello di Corcovizzo e della santa Scoppettella (scoppettelle erano le guardie delle curie vescovili) di Sanguino. Queste sono le forme di religiosità presenti nel mondo napoletano caotico ed in preda al disordine che si offre alla riflessione del giovane Bruno: ciò lo porta a concludere che angeli e santi non sono altro che un’impostura, come può facilmente arguire un lettore accorto in filigrana alle parole del pittore Gioan Bernardo, portavoce dell’autore, su angeli e santi che «non vogliono esser veduti più di quel che si fan vedere; non

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vogliono esser temuti più di quel che si fan temere; non vogliono esser conosciuti più di quel che si fan conoscere»171. Bruno descrive anche le taverne dove, oltre a cercare di portare a termine ogni genere di imbroglio ai danni dell’oste, i furfanti amano bere e mangiare in grande quantità, fondendo il piacere derivante dal cibo a quello sessuale, per cui frequentemente allusioni oscene si nascondono al di sotto di immagini gastronomiche e complimenti ad una donna assumono come termine di paragone un piatto prelibato: Sanguino avverte Marta, moglie di Bartolomeo, lo pseudoalchimista che trascorre le sue giornate ad attizzare continuamente il fuoco per i suoi esperimenti, dicendole di evitare di «porgerli la lingua, ché la minestra ti saprà di fumo»172, battuta dall'evidente sfondo sessuale, e si rivolge alla cortigiana Vittoria chiamandola «signora Porzia mia dolcissima, saporitissima più che zucchero, cannella e senzeverata»173, laddove l'ultimo termine indica una specie di marmellata contenente molto zenzero. Questi personaggi, così animatamente tratteggiati, rivestono un ruolo fondamentale per lo svolgimento della commedia, in quanto i tre protagonisti concludono le loro disavventure proprio in ostaggio dei ‘marioli’, per l’occasione travestiti da birri. I truffatori umiliano brutalmente Bonifacio, Bartolomeo e Manfurio, rappresentanti delle degenerazioni più mortifere della cultura di fine Cinquecento: all’interno di una società ormai allo sbaraglio, che Bruno ci mostra, con un linguaggio crudo ed il suo consueto realismo, come una vera e propria sentina morale e culturale, l’unica conclusione ‘positiva’ possibile è quella che porti alla mortificazione feroce del petrarchismo, della pedanteria e della pseudoalchimia ad opera degli strati sociali più bassi. Anche questi ultimi sono abitanti del mondo ormai in crisi che attende la riforma che verrà delineata nello

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G.BRUNO, Candelaio, cit., p. 160.

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Ivi, p. 58.

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Spaccio de la bestia trionfante ma, a differenza dei protagonisti, hanno il grande

pregio di non indulgere in ipocrisie intellettualoidi, di guardare maggiormente la realtà in faccia, non ammantandola di latinismi privi di contenuto o richiami superficiali a Petrarca o all’alchimia, rimanendo più vicini alle sue espressioni materiali, alla concretezza della dimensione più carnale della vita umana, legata ai bisogni corporali ed alla loro soddisfazione. Mentre in un personaggio come Bonifacio il richiamo alla fisiologia corporea, contrassegnato dall’uso del lessico escrementizio, affiora soprattutto nei momenti di paura, come quando di fronte ai falsi birri prorompe in un «Oimè, che mi vien voluntà di cacare»174, ma normalmente si perde al di sotto della coltre di petrarchismi con cui cerca di coprire un desiderio, molto meno aulico di quanto vorrebbe far credere, di godere dei favori della cortigiana Vittoria, il mondo dei bassifondi non si vergogna di condire riferimenti gastronomici con allusioni sessuali e/o ad elementi materiali. Lo stesso lessico plebeo utilizzato nella suburra napoletana, con i suoi termini dialettali e le storpiature del latino, si propone come sovversivo del vocabolario morto di una cultura ipocrita. Esemplari in tal senso sono queste parole di Sanguino a Manfurio: «Mastro, con questo diavolo di parlare per grammuffo o catacumbaro o delegante e latrinesco, amorbate il cielo, e tutt’il mondo vi burla»175

. Lo stile espressivo semincomprensibile di Manfurio viene definito dal manigoldo napoletano un modo di parlare per grammatica, fatto di puntigliose attenzioni formali, e da catacomba, ovvero totalmente oscuro per chi ascolti, nonché «delegante e latrinesco». Questa locuzione non chiara è probabilmente una deformazione di «elegante e latinesco» ed è particolarmente interessante in quanto, nell'alterazione del secondo vocabolo, emerge

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Ivi, p. 180.

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un chiaro riferimento alla latrina, al livello base dell’esistenza umana, connesso alla materia, che può minare dalle fondamenta il latinorum di Manfurio. Quando l’attenzione dei magistri, di cui Manfurio è il degno rappresentante, non va mai ai concetti ma solo alle parole, alla loro forma ed alla loro etimologia piuttosto che al contenuto che esprimono, allora la loro vocazione pedagogica ed il loro stesso ruolo di intellettuali sono finiti. Morta la poesia, divenuta ormai vuota ripetizione degli stilemi di Petrarca, senza passione né coinvolgimento, e spentasi la ricerca sia in ambito letterario sia in ambito naturalistico, l’unico punto dal quale è possibile ripartire sono proprio i luoghi abitati dagli strati sociali più miseri ed emarginati, cui Bruno all’interno della commedia accorda la sua simpatia, tanto da presentare il personaggio che spesso è portavoce delle sue idee, il pittore Gioan Bernardo, come loro complice ed acuto ideatore dei piani che porteranno alla rovina i protagonisti. Bruno identifica nella carica eversiva della plebe napoletana nei confronti di un panorama culturale ormai desolante il primo elemento su cui fare leva nella lunga strada che potrà condurre al cambiamento: chi tenta di rovesciare l’ordine naturale deve essere punito, secondo un principio di giustizia che permette alla materialità di prorompere in tutta la sua forza ed inoltre, connettendosi al concetto di vicissitudine universale messo a fuoco fin dalla dedica Alla Signora Morgana B., consente di aspettare una nuova alba dopo le tenebre della pedanteria. Ovviamente il progetto di riforma non si potrà concludere con il successo ottenuto dai popolani, più vicini degli altri alla concretezza dell’esistenza, anche perché l’elogio della materia e della corporeità si situa all’interno di un contesto filosofico – quello ‘materialista’ degli anni di San Domenico Maggiore, gli stessi anni in cui si svolge il Candelaio176 – che

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poi sarà oggetto di profonda revisione, ma indubbiamente l’esito della commedia getta luce sulla necessità di un percorso da compiere per giungere alla riforma. La rappresentazione realistica e brutale della crisi veicolata dal Candelaio bruniano mette a nudo la situazione ormai insostenibile, e dunque da riformare, in cui versa il mondo, immerso «nella feccia delle scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli costumi ed opre»177, per citare un passo dell’ultimo dialogo italiano, gli Eroici furori, utile per evidenziare come la produzione volgare del Nolano si apra con un’opera sotto tutti i rispetti unica, nella quale però vengono enucleati temi che verranno svolti nelle opere successive: è solo dopo aver mostrato la reale faccia del mondo che lo circonda, dopo averla conosciuta per i vicoli di Napoli, che Bruno può apprestarsi – anche alla luce di nuove e fondamentali acquisizioni filosofiche – a tentare di darle un nuovo volto, che rispecchi anche dal punto di vista etico ed estetico le sensazionali conquiste da lui raggiunte in ambito cosmologico ed ontologico.

Il passaggio tra la denuncia contenuta nella commedia ed il progetto di riforma dello

Spaccio risulta evidente in modo particolare dalla trattazione del tema della povertà:

la torsione teorica a proposito di esso, mostra a pieno come Bruno, dopo aver colto gli aspetti negativi del reale, decida di individuare una strategia di cambiamento anche e soprattutto in funzione antiriformata e, nel contesto inglese, antipuritana. Nel

Candelaio la vita associata, dominata dalla corruzione e dal pervertimento dei retti

valori, appare fondata su immutabili rapporti di forza e sull’esercizio di un potere ottenuto grazie al denaro. Il «de quibus»178 è ciò che permette di imporsi e prevalere

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G.BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 877.

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sugli altri ed è l’unico reale fondamento della «riverenza»179

verso i potenti: questi, infatti, «si non arran de quibus, si non farran correre gli de quibus, saran come statue vecchie d’altari sparati»180. L’uomo senza denaro è nudo, inerme «come ucello senza

piume, ché chi lo vuol prendere, sel prende, chi sel vuol mangiar, sel mangia», mentre la ricchezza gli permette di fare qualunque cosa, dato che quanto più un uomo possiede oro ed argento «tanto più vola, e più s’appiglia ad alto»181

. In una società profondamente violenta, in cui la sopravvivenza dipende dalla possibilità di prevaricare gli altri, essere poveri significa essere potenziali vittime di ogni genere di angheria ed abuso e per questo una delle motivazioni che spingono all’azione nel corso della commedia è la ricerca di denaro, di una sicurezza economica che coincida con la possibilità di essere carnefici e non vittime. Una donna come Vittoria, ad esempio, una cortigiana che ha presto appreso come a tutto possa essere dato un prezzo, comprende che il suo valore in una società come questa consiste nella possibilità di vendere la sua bellezza e la sua compagnia sessuale: ella perciò deve premunirsi per quando non sarà più piacente ed attraente ed il piano ai danni di Bonifacio costituisce per lei un valido mezzo per il raggiungimento di questo scopo. La commedia, inoltre, termina con la rapina da parte dei ‘marioli’ di tutti i beni dei tre protagonisti: il rovesciamento – consistente, come abbiamo già rilevato, nel ripristino di una giustizia ‘materiale’, che porti nuovamente alla luce la vita in tutta la sua corposità – prevede anche che essi perdano tutto ciò che possiedono e, conseguentemente, ogni capacità di azione.

La consapevolezza maturata dal Nolano a proposito del fondamentale ruolo sociale svolto dal denaro lo induce ad approfondire questo tema nello Spaccio, nell’ambito

179 Ivi, p. 109. 180 Ivi, pp. 109-10. 181 Ivi, p. 113.

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della sua proposta di riforma della vita associata. Obiettivo della legge è quello di mantenere e facilitare la ‘civile conversazione’ e perciò essa deve favorire quanti contribuiscono a ciò attraverso le buone opere,

«a fine che gli potenti sieno sustenuti da gl’impotenti, gli deboli non sieno oppressi da gli più forti, sieno deposti gli tiranni, ordinati e confirmati gli giusti governatori e regi, sieno faurite le republiche, la violenza non inculche la raggione, l’ignoranza non dispreggie la dottrina, li poveri sieno agiutati da’ ricchi, le virtudi e studii utili e necessarii al commune sieno promossi, avanzati e mantenuti: sieno esaltati e remunerati coloro che profittaranno in quelli; e gli desiosi, avari e proprietarii sieno spreggiati e tenuti a vile»182.

Una vera riabilitazione del consorzio umano deve prevedere anche una più equa distribuzione delle ricchezze e degli onori, premi da conferire agli individui in base al loro merito. In questo contesto Bruno rielabora le tematiche della commedia, mostrando come la riforma debba coinvolgere anche Povertà e Ricchezza. Giove dispone che esse instaurino una dinamica in linea con l’infinito avvicendarsi dei contrari, che produce il divenire: la Ricchezza, cieca perché fa dono di sé agli uomini in modo del tutto casuale, deve continuamente inseguire la Povertà, al contrario oculata perché obbligata a superare sempre gravi difficoltà, e viceversa questa deve scacciare quella:

«“Voglio in prima che tu Povertà sii oculata e sappi ritornar facilmente là d’onde tal volta ti partiste; e discacciar con maggior possa la Ricchezza, che per il contrario tu vegni scacciata da quella, la qual voglio che sia perpetuamente cieca. Appresso voglio che tu Povertà sii alata, destra, et ispedita per lepiume, che son fatte d’aquila o avoltore; ma ne li piedi voglio che sii come un vecchio bove che tira il grave aratro che profonda ne le vene de la terra: e la Ricchezza per il contrario abbi l’ali tarde e gravi, accomodandosi quelle

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d’un’occa o cigno; ma gli piedi sieno di velocissimo corsiero o cervio, a fine che quando lei fugge da qualche parte adoprando gli piedi, tu con il batter de l’ali vi ti facci presente; et onde tu con opra de le ali tue disloggi, quella possa succedere con l’uso di suoi piedi: di maniera che con quella medesima prestezza che da lei sarai fuggita o perseguitata, tu vegni a perseguitarla e fuggirla”»183

.

La Ricchezza è rappresentata con le ali appesantite dal carico dei suoi averi, mentre la Povertà ha ali leggere, ma i suoi piedi, dovendo camminare sempre scalza, sono rovinati come quelli di un animale da soma. Questa vivida raffigurazione è esattamente speculare rispetto a quella del Candelaio: mentre nella commedia la ricchezza veniva presentata come ciò che permette all’uomo di volare, nel dialogo ad essere veloce e sollecita è la Povertà, che stimola l’ingegno umano a trovare tutte le possibili soluzioni per ovviare alle difficoltà. Tale mutamento nella descrizione è indicativo del cambiamento di prospettiva sopravvenuto nell’opera londinese: se nella commedia il Nolano intendeva rappresentare i corrotti meccanismi della società intorno a lui e mettere in evidenza come in una situazione di crisi la ricchezza di un individuo coincida con quella che la fortuna gli ha assegnato, nello Spaccio egli si propone di riformare tali meccanismi ed intende mostrare, in un quadro teorico imperniato, in un’ottica duramente antiriformata, sul primato della praxis umana, come l’operosità possa fare in modo che un principio meritocratico viga anche nella distribuzione delle ricchezze e come, in una realtà dominata dalla provvidenza, possa essere valorizzato il merito individuale anche in campo economico. La dirompente novità rappresentata dal programma di rigenerazione morale e politica dello Spaccio emerge perciò anche dalla caratterizzazione della Povertà, che rovescia l’iconografia tradizionale. Nel Libro degli Emblemi di Andrea Alciato, a proposito dell’emblema

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XV, relativo alla povertà, leggiamo: «L’indigenza impedisce ai più alti ingegni di progredire / La destra tiene una pietra, l’altra mano porta le ali, / come mi innalzano le piume così il grave peso mi fa precipitare. / Con l’ingegno potrei volare sopra le più alte cime / se non mi spingesse giù l’invidiosa indigenza»184

. Evidente risulta il divario tra questa raffigurazione e quella dello Spaccio: il dotto giurista insiste su come un ingegno gravato dalle preoccupazioni quotidiane abbia difficoltà ad elevarsi, utilizzando l’immagine del peso che rende impacciate le ali; Bruno, al contrario, volendo sottolineare il ruolo svolto dall’azione umana, attraverso la quale è possibile superare anche gli ostacoli più ardui, capovolge la descrizione consueta che invece aveva fatto propria nella commedia, opera in cui voleva rappresentare le forme deteriori della realtà sociale, con il loro immobilismo.

L’incontro diretto con la disgregazione interna al corpo dello Stato prodotta dai puritani conduce dunque Bruno a modulare in modo differente molte tematiche, con l’obiettivo di indicare una nuova via da percorrere: una lettura attenta di alcuni passi dello Spaccio permetterà proprio di mettere in evidenza la drasticità della rottura bruniana con i puritani in campo politico.

Pur esibendo sul frontespizio l’indicazione di Parigi come luogo di pubblicazione, lo

Spaccio de la bestia trionfante in realtà è stato stampato a Londra, per i tipi di John

Charlewood, nel 1584. Il titolo, oltre ad esibire una chiara reminiscenza dell’Apocalisse, è evocativo di una vasta letteratura riformata che definisce ‘bestia’ la tirannide papale, suggerendo l’argomento dell’opera – anche se solo parzialmente, dato che la polemica di Bruno è ben più radicale e coinvolge l’intera tradizione ebraico-cristiana – ed indicando un deciso cambiamento tematico rispetto agli

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A.ALCIATO, Il libro degli Emblemi secondo le edizioni del 1531 e del 1534, introduzione, traduzione e commento di M. Gabriele, Adelphi, Milano 2009, pp. 103-4.

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argomenti onto-cosmologici dei tre dialoghi precedenti. Con questo testo il Nolano intende, come precedentemente accennato, scendere sul terreno dello scontro politico tra anglicani e puritani, indicando alla regina Elisabetta ed all’élite inglese – si noti a tal proposito che esso è dedicato, come gli Eroici furori, ad un personaggio di spicco della corte elisabettiana, Philip Sidney185 – la strategia da seguire per riportare ordine e coesione nel ‘convitto civile’ dopo le divisioni in esso create dai puritani, la cui predicazione è causa della «vecchiaia et il disordine e la irreligione del mondo»186. E’ in quest’ottica che Bruno recupera la polemica tra Erasmo e Lutero a proposito del libero arbitrio, risalente a quasi sessant’anni prima: in essa egli vede dipanarsi snodi teorici di fondamentale importanza ed attualità, in relazione ai quali si giocano

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Sir Philip Sidney – nato nel 1554 a Penshurst, nel Kent, e morto nel 1586 nei Paesi Bassi, durante la guerra di indipendenza contro gli Spagnoli – è una delle figure di maggior spicco dell’età elisabettiana ed uno dei massimi rappresentanti della voga italianizzante che la contraddistinse. Prima per la sua istruzione e poi con incarichi di carattere diplomatico, fece molti viaggi in Europa e nel biennio 1573-1574 soggiornò in Italia, dove si dedicò allo studio della musica e dell’astronomia e conobbe il Tintoretto ed il Veronese. Nipote di Robert Dudley, rappresentante della fazione puritana, egli fu fautore di un calvinismo moderato, come d’altronde lo zio che, seppur portavoce dei puritani, ne contenne gli estremismi e fu patrono e protettore

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