• Non ci sono risultati.

Giordano Bruno e i ramisti cantabrigensi: un'ipotesi di lavoro.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Giordano Bruno e i ramisti cantabrigensi: un'ipotesi di lavoro."

Copied!
122
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

TESI DI LAUREA:

Giordano Bruno e i ramisti cantabrigensi: un’ipotesi di

lavoro

Candidata: Laura Carotti

Relatori:

Chiar.ma Prof.ssa Simonetta Bassi Chiar.mo Prof. Michele Ciliberto

(2)

Sommario

Introduzione………p. 1

1 Tra Oxford e Cambridge

1.1 L’esperienza oxoniense di Bruno….………...p. 4

1.2 La formazione di William Perkins………p. 23

1.3 Dicson e Perkins: un dialogo tra ramisti?...p. 27

2 Gabriel Harvey: un ramista eclettico

2.1 Hopperus e Bruno nei marginalia di Harvey………p. 36

2.2 Le sezioni dei Sigilli dedicate all’inventio: il possibile pubblico cantabrigense del Nolano……….……p. 49 2.3 Exposition of the Lords prayer…..………p. 68

3 La polemica Perkins-Bruno

3.1 Perkins lettore di Bruno……….p. 71

3.2 La rottura definitiva con la fazione puritana……….………p. 84

Conclusione………..…p. 110

(3)

- 1 -

Introduzione

Il periodo trascorso da Giordano Bruno in Inghilterra, a Londra e a Oxford, tra la primavera del 1583 e l’agosto del 1585, segnò una svolta decisiva nella sua riflessione filosofica: furono anni febbrilmente fecondi, durante i quali il Nolano pubblicò due opere di carattere mnemotecnico e gnoseologico – l’Explicatio triginta

sigillorum ed il Sigillus sigillorum – ed i suoi sei dialoghi in volgare. Nonostante le

numerose ed approfondite ricerche in merito1, sono ancora molti i nodi da sciogliere, in particolar modo per quanto concerne il pubblico cui Bruno intendeva rivolgersi con le sue opere: obiettivo di questo lavoro è quello di indicare una pista, carsicamente operante tra il 1583 ed il 1584, che potrebbe gettare nuova luce su due nuclei problematici, ovvero il momento della composizione dell’Explicatio triginta

sigillorum e la decisione di Bruno di scendere sul terreno politico, schierandosi a

fianco della regina Elisabetta e dunque in netta opposizione ai puritani, nel 1584 con lo Spaccio de la bestia trionfante, dopo aver pubblicato tre dialoghi di argomento onto-cosmologico.

La presente ricerca nasce da un interrogativo di carattere storico-filosofico: perché il ramista puritano William Perkins decise di intrattenere un violento scambio di libelli sull’arte della memoria con Alexander Dicson? Per cercare di trovare una risposta a

1

Cfr. almeno G. AQUILECCHIA, Giordano Bruno in Inghilterra (1583-1585): documenti e

testimonianze, «Bruniana & Campanelliana», A. 1, n. 1-2, 1995, pp. 21-42; S.BASSI, L’arte di

Giordano Bruno. Memoria, furore, magia, Olschki, Firenze 2004; R. CAMERLINGO, Teatro e

teologia. Marlowe, Bruno e i puritani, Liguori, Napoli 1999; M.CILIBERTO, Umbra profunda.

Studi su Giordano Bruno, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1999; ID.,Giordano Bruno: il teatro della vita, Mondadori, Milano 2007; Giordano Bruno Philosopher of the Renaissance,

edited by H. Gatti, Ashgate, Aldershot 2002; Giordano Bruno, 1583-1585: the English

Experience / L’esperienza inglese: atti del convegno (Londra, 3-4 giugno 1994), a cura di M.

Ciliberto e N. Mann, Olschki, Firenze 1997; G.SACERDOTI, Sacrificio e sovranità. Teologia e

(4)

- 2 -

questa domanda, in primo luogo abbiamo effettuato una ricerca di carattere biografico su Perkins, dalla quale è emerso il suo legame con Gabriel Harvey, l’autore della nota postilla nella quale viene rilevato che l’avversario di Bruno nella disputa oxoniense che il Nolano narra nella Cena de le Ceneri, il primo dialogo da lui pubblicato a Londra nel 1584, era John Underhill. Da questa connessione oggettiva, derivante dalla presenza a Cambridge nello stesso periodo, gli anni 1574-1576, di Gabriel Harvey, allora lettore di retorica, e del più giovane William Perkins, ancora studente, nonché dalla stretta relazione di entrambi con Laurence Chaderton, si sono prese le mosse per cercare di individuare, sia contestualizzando la nota a margine di Harvey a proposito di Bruno, sia analizzando i testi scritti da Perkins nel corso della diatriba, una serie di elementi teorici tali da motivare l’interesse per la mnemotecnica di matrice bruniana da parte di due ramisti. La presenza dello stesso genere di elementi all’interno dell’Explicatio triginta sigillorum del 1583 ha poi permesso di ampliare ulteriormente quest’ipotesi di lavoro, rilevando come il rapporto tra i ramisti cantabrigensi ed il Nolano non fosse univoco: se da un lato Harvey e Perkins si ponevano domande sulle possibili applicazioni del ramismo2 che li spingevano a guardare con un certo interesse al Nolano, dall’altro Bruno, dopo il fallimento rovinoso della sua esperienza oxoniense, guardava verso Cambridge, ateneo noto per lo studio retorico-dialettico, come ad un’università che, a differenza di Oxford, avrebbe potuto apprezzare la sua riflessione teorica. Una seconda domanda è sorta, spontaneamente, a questo punto dello studio: perché questa sinergia

2

A proposito di Ramo e del ramismo, cfr. almeno G. OLDRINI, La disputa del metodo nel Rinascimento: indagini su Ramo e sul ramismo, Le lettere, Firenze 1997; W. ONG, Ramus, method, and the decay of dialogue: from the art of discourse to the art of reason, Harvard

University Press, Cambridge (Mass.), 1958; C. VASOLI, La dialettica e la retorica dell'umanesimo. Invenzione e metodo nella cultura del XV e XVI secolo, La città del sole, Napoli

(5)

- 3 -

di interessi e di intenti non ha mai dato vita ad un’effettiva collaborazione? La risposta è stata ricercata nell’esito, sfavorevole per Bruno, della disputa tra Dicson e Perkins. Lo scontro tra i due intellettuali, svoltosi nel 1584, ha definitivamente impedito al Nolano un contatto con Cambridge; dato, questo, che potrebbe aiutare a spiegare perché Bruno abbia deciso di scendere in campo contro i puritani con lo

Spaccio de la bestia trionfante nel 1584 inoltrato, dopo aver pubblicato tre dialoghi

concernenti la sua ontologia e la sua cosmologia.

L’interrogativo dal quale è scaturita questa indagine, dunque, è stato utilizzato come chiave con la quale tentare di aprire una finestra su un lasso di tempo particolarmente intricato della permanenza inglese del Nolano ed ha permesso di rivolgere ad esso uno sguardo che tenesse insieme la scansione storica degli eventi biobibliografici degli autori ed i contenuti teorici dei loro scritti, facendo leva in particolar modo su un ‘grimaldello’ concettuale caro a Bruno che è quello, per utilizzare un termine a noi vicino, della ricezione delle opere. Il filosofo di Nola tende a modulare i temi di fondo della sua filosofia a seconda del pubblico cui ha intenzione di rivolgersi: scrivendo, egli immagina il suo futuro lettore e ricama le pagine con una serie di richiami e di lemmi che possano stimolare la sua curiosità intellettuale. I diversi stili di scrittura divengono in Bruno strategie attraverso le quali creare un lettore avvertito, valutandone il possibile ‘orizzonte di attesa’3.

3

Si è volutamente utilizzato questo termine, afferente alla sociologia della letteratura, per indicare quel complesso di valori, interessi culturali ed anche pregiudizi e precomprensioni che è determinato da vari fattori, quali la formazione personale ed il milieu. A questo proposito cfr. H. R.JAUSS, Perché la storia della letteratura?, Guida, Napoli 1969, p. 61: «L’orizzonte di attesa di un’opera, che in tal modo si ricostruisce, rende possibile la determinazione del suo carattere artistico in base al modo e al grado della sua efficacia su un determinato pubblico. Se si designa come distanza estetica il divario fra l’orizzonte di attesa dato e l’apparizione di una nuova opera, la cui ricezione può avere come conseguenza un ‘cambio di orizzonte’ a causa della negazione di esperienze consuete o della presa di coscienza di esperienze mai espresse, allora tale distanza estetica può essere oggettivabile storicamente in base allo spettro delle reazioni del pubblico e del

(6)

- 4 -

1. Tra Oxford e Cambridge

1.1 L’esperienza oxoniense di Bruno

Il soggiorno inglese di Bruno costituisce un momento particolarmente incandescente nei rapporti tra gli anglicani ed i puritani, rappresentanti dell’ala più intransigente del protestantesimo inglese. I puritani auspicavano una riorganizzazione della Chiesa inglese sul modello calvinista svizzero ed un suo affrancamento dal controllo della Corona, mediato dall’episcopato anglicano, la cui gerarchia ai loro occhi rappresentava un intollerabile residuo di cattolicesimo. Per questo essi si opposero nettamente alla politica della regina Elisabetta, che ribadì la supremazia regale in materia di fede e riorganizzò la Chiesa d’Inghilterra, con i Trentanove articoli del 1571, accogliendo princìpi calvinisti ma conservando la gerarchia ecclesiastica ed alcuni aspetti della liturgia cattolica. Il calvinismo moderato elisabettiano, volto al mantenimento dell’ordine statale, era veementemente osteggiato dall’estremismo puritano e proprio nel 1584 il conflitto tra le due fazioni si inasprì, a seguito dell’assassinio per mano cattolica dello statolder delle Province Unite dei Paesi Bassi, Guglielmo d’Orange, che nel 1573 si era convertito al calvinismo, cui fecero seguito episodi violentemente antipapisti in terra inglese, compreso un breve assedio dell’ambasciata francese dove risiedeva Bruno. Un’analisi del percorso, personale ma anche filosofico, compiuto da Bruno in Inghilterra può essere dunque effettuata anche esaminando la posizione assunta dal Nolano in questo contesto.

giudizio della critica (successo immediato, rifiuto ad hoc; consenso isolato, comprensione lenta o ritardata)».

(7)

- 5 -

Nel giugno del 1583 Bruno si recò ad Oxford a seguito del voivoda polacco Alberto Laski e, dopo un’aspra disputa con John Underhill4, riuscì ad ottenere una ‘lettura’,

che si concluse violentemente nel mese di agosto dello stesso anno quando, accusato di plagio, il Nolano fu costretto a lasciare l’ateneo dai suoi oppositori, forti anche della partenza del voivoda, attanagliato dai debiti. La presenza di un personaggio come Bruno, che aveva ottenuto la possibilità di insegnare grazie alla regina e ad un ‘papista’ come Laski e che per di più teneva lezioni su temi scottanti come il copernicanesimo, declinato peraltro non in chiave matematico/calcolatoria, ma all’interno di un quadro filosofico che pericolosamente spezzava i vincoli tra filosofia e teologia5, non poteva infatti essere gradita ai puritani oxoniensi, tra i quali spicca il dotto studioso di Aristotele, commentatore della Retorica, John Rainolds (o Reynolds). Questi è un personaggio di primissimo piano dell’Athenae Oxonienses ed una disamina delle sue posizioni può aiutare a gettare luce sull’insanabilità del conflitto che opponeva il Nolano ai puritani di Oxford. Se, come emerge dalla sua

Oratio in laudem artis poeticae [circa 1572], Rainolds riconosceva il valore, anche

pedagogico, della poesia, egli al contrario si fece promotore di un violentissimo attacco alle rappresentazioni teatrali, considerate corruttrici della religione e della morale in quanto costruite su diabolici travestimenti. A tal proposito è di grande rilevanza la querelle che vide contrapposto il puritano al drammaturgo William Gager, a favore del quale intervenne anche Alberigo Gentili: nel 1591 il vicecancelliere di Oxford invitò Rainolds ad assistere all’Ippolito di Gager, ma

4

Teologo inglese vissuto tra il 1544-45 ed il 1592, Underhill condusse una brillante carriera all’interno dell’ateneo oxonienese, del quale divenne vicecancelliere nel 1584. Con l’appoggio di Francis Walsingham, ebbe poi, nel 1589, la carica di vescovo di Oxford. Cfr. J.LOCK,Underhill, John (1544/5-1592), Oxford Dictionary of National Biography, online edition 2008, URL:

http://www.oxforddnb.com/view/article/27998.

5

Per una chiave di lettura illuminante in proposito, cfr. M.CILIBERTO,Tra filosofia e teologia. Bruno e i «puritani», «Rivista di storia della filosofia», A. 53, n. 1, 1998, pp. 5-44.

(8)

- 6 -

Rainolds declinò recisamente e Gager, per farsi beffe di lui e del suo ottuso rifiuto del teatro, al contrario portatore, nella sua ottica umanistica, di un messaggio educativo, introdusse nell’opera il personaggio di Momo, il censore; a ciò seguì una lettera al vetriolo di Rainolds a Gager, per difendere il quale scese in campo, come testimonia il testo di Rainolds Th’overthrow of Stage-Playes, Alberigo Gentili, che insegnava ad Oxford diritto civile. Questa dura polemica è di notevole importanza anche perché Gager è l’autore di Dido e Rivales6

, due opere rappresentate ad Oxford in occasione della visita di Laski: anche allora deve essere affiorato l’astio di Rainolds per il teatro e anche per questo motivo il puritano non doveva vedere di buon occhio Bruno, che aveva dato inizio alla sua produzione filosofica in volgare proprio con una commedia, Il Candelaio, eversiva nei contenuti e ‘sperimentale’ nella forma, in quanto costruita secondo un disegno anticanonico e fondamentalmente dissolutivo di se stesso, condotto ad un’implosione definitiva nel raffinatissimo gioco di specchi che ne costituisce il paratesto, con una rifrazione in ben quattro parti (Argumento et ordine della comedia, Antiprologo, Proprologo e

Bidello) di un mai scritto prologo, del quale costantemente viene lamentata l’assenza,

ma del quale continuamente vengono dissacrate le componenti fondamentali, nonostante esse si ritrovino sparse nei quattro riflessi deformati del prologo classico7. Le divergenze di base tra Bruno e Rainolds, avverso alla cultura italiana, da lui identificata in larga misura con l’immagine vulgata del Paese sanguinario e fraudolento del machiavellismo e dell’ateismo che circolava allora in ambiente inglese, sono però più profonde e pervasive: dalla lettura delle Orationes di Rainolds

6

Rivales, testo al momento perduto, è, tra l’altro, l’unica commedia di Gager, la cui rimanente produzione è costituita da tragedie di impronta senecana.

7

Per la fortuna della commedia bruniana in Inghilterra, cfr. H. GATTI, Giordano Bruno’s Candelaio and Possible Echoes in Shakespeare and Ben Jonson, «Viator», vol. 43, n. 2, 2012, pp. 357-76.

(9)

- 7 -

risulta evidente come la distinzione netta tra il campo di pertinenza della filosofia e quello della teologia, sostenuta veementemente dal Nolano nella Lettera al vicecancelliere dell’Università di Oxford, sia esattamente speculare rispetto alla concezione del professore puritano, secondo il quale la speculazione procede a tentoni senza la guida del lume della rivelazione e perciò sono da condannare i pensatori che si dedicano ai ‘cavilli’ filosofici dimentichi della vera fede, come Duns Scoto, che al contrario per Bruno, come egli afferma nel dialogo primo del De la

causa, principio et uno, il secondo dialogo pubblicato dal Nolano a Londra nel 1584,

è uno di quei «principi de la metafisica» che, «quantumque barbari di lingua e cucullati di professione»8, rappresentano gli elementi realmente positivi della cultura inglese. I monaci medievali scrivevano in uno stile rozzo, lontano dalla purezza e dalla concinnitas del latino umanistico, ma, a differenza dei pedanti contemporanei di Bruno, attenti solo all’ornatus e dimentichi delle res, si dedicavano ad una speculazione filosofica profonda9. Essi hanno posto al centro della loro riflessione un nodo teoretico cruciale quale il rapporto tra materia e forma, tentando di esprimere, seppur spesso in un latino più approssimativo e grezzo di quello umanista, concetti carichi di significati, a differenza di quanti cercano di nascondere la vacuità dei loro contenuti con uno stile ciceroniano. Nel prosieguo del dialogo, Bruno costruisce la sua rivoluzionaria ontologia della Vita-materia infinita anche a partire da una dura ed incessante critica della teoria scotista delle forme, argomentando contro la consistenza autonoma delle forme individuali che costituiscono il modello

8

G.BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, note a cura di N. Tirinnanzi, Mondadori, Milano 2000, p. 195.

9

Vibra nella posizione bruniana l’eco della lettera del 1485 di Giovanni Pico della Mirandola ad Ermolao Barbaro, nella quale dei testi dei filosofi ‘barbari’ medievali, scabri ed ineleganti, viene sottolineata la fecondità contenutistica. Cfr. G.PICO DELLA MIRANDOLA, De hominis dignitate,

Lettera a Ermolao Barbaro, seguito da La filosofia di Pico della Mirandola di G. Semprini,

(10)

- 8 -

configurante i singoli enti, considerandole soltanto accidentali: l’esaltazione dei ‘cucullati’ come Scoto risulta dunque tanto più rilevante in quanto non rivolta verso singoli contenuti da loro espressi, ma operante a livello metodologico. Mentre i puritani oxoniensi intendevano allontanare la filosofia scolastica dai curricula, considerandola ‘papista’ e colpevole dell’arroganza di voler cercare e spiegare ciò che l’uomo deve solo credere, Bruno recupera lo scotismo in quanto portatore di una reale ricerca teorica.

Anche dal punto di vista linguistico la distanza tra Bruno e gli intellettuali oxoniensi è massima: il latino del Nolano è infatti frutto di una profonda sperimentazione, che culmina nei poemi francofortesi. «Del tutto anticlassico, ma anche antimedievale e antiumanistico»10, il latino di Bruno si caratterizza effettivamente prima di tutto per ciò che non è, come distruzione totale dei canoni linguistici precedenti, ma deve essere sottolineato che ha anche una forte connotazione positiva, una pars

construens. L’obiettivo di Bruno è quello di creare un nuovo lessico filosofico, una

nuova lingua con cui parlare della sua filosofia, e questa deve essere prima di tutto, al di là di ogni ulteriore caratterizzazione, creativa. Un latino come quello pedantesco è rigido, inerte, privo di capacità di adattamento e di sviluppo, esangue: non è idoneo a rappresentare il cosmo bruniano perché ha un vocabolario chiuso, ben definito ed incapace di aprirsi alle innovazioni. Al contrario Bruno non teme di far uso di un «cacocephaton»11 se necessario e modella la lingua in base ai concetti che vuole esprimere, sia nel caso delle opere volgari che in quello delle opere latine, in uno sforzo continuo di trovare parole che riescano a descrivere adeguatamente la sua visione del mondo. La ricerca di una strettissima correlazione tra parole e concetti fa

10

G.BÀRBERI SQUAROTTI, Parodia e pensiero: Giordano Bruno, Greco & Greco, Milano 1997, p. 19.

11

(11)

- 9 -

sì che non esistano modelli prestabiliti o canoni da seguire e che il linguaggio si configuri innanzitutto come uno sterminato laboratorio cui attingere, senza alcuna limitazione, addirittura creando neoformazioni a partire da radici di lemmi tradizionali. Fondamentale a tal proposito è questa dichiarazione programmatica di Bruno in apertura al De minimo:

«Saremo moda e principio allorquando sradicheremo dal fondo delle tenebre insieme con le vecchie parole le più famose sentenze degli antichi sapienti, saremo inventori, se necessario, di nuove parole, qualsiasi ne sia la fonte, in armonia con la novità della dottrina. I grammatici asservono il contenuto alle parole, noi invece asserviamo le parole al contenuto; quelli seguono l’uso corrente, noi lo determiniamo»12

.

E’ però nell’ultimo dei poemi francofortesi, il De immenso, che gli aspetti fecondi ed inventivi del latino bruniano emergono in massimo grado. La conclusione dell’opera, oltre ad essere la dichiarazione di una poetica «che rifiuta la dolcezza umanistica del verso latino per la grandiosità delle immagini e la forza dei ritmi poetici, dettate dalla verità filosofica che il poeta si è assunto il compito di cantare»13, offre un punto di vista privilegiato per l’analisi del latino bruniano, che appare al lettore esattamente speculare rispetto a quello pedantesco. Anche in Bruno, ansioso di mettere il linguaggio in uno stato di tensione tale da avvicinarlo al punto di rottura per esaurirne le infinite sfumature, troviamo enumerazioni sinonimiche, ma esse, a differenza di quelle dei pedanti, non sono vuote. Bruno si definisce «durus, villosus, rusticus, asper, / Callosus, rigidus»14, ma questo elenco di aggettivi non è fine a se stesso, mera ripetizione di un concetto contenuto già completamente nel primo

12

G.BRUNO,Opere latine, a cura di C. Monti, UTET, Torino 1980, pp. 92-3.

13

G.BÀRBERI SQUAROTTI, Parodia e pensiero: Giordano Bruno, cit., p. 20.

14

JORDANI BRUNI NOLANI Opera latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebat F.

Fiorentino [F. Tocco, H. Vitelli, V. Imbriani. C. M. Tallarigo], Neapoli[-Florentiae], apud Domenico Morano deinde Typis Successorum Le Monnier, 1886, vol. 2, p. 523.

(12)

- 10 -

termine e poi solo reiterato. I vari lemmi servono a lumeggiare da differenti punti di vista lo stile di Bruno, e dunque meritano di essere esaminati singolarmente. Con il primo termine Bruno indica la difficoltà di accesso al suo stile e di comprensione del suo lessico, che necessita di una sedimentazione per essere apprezzato, ed inoltre la robustezza del suo vocabolario che, in un universo linguistico come quello bruniano, strettamente connesso alla concretezza delle cose, si configura come vera e propria durezza al tatto; il secondo lemma evidenzia come il linguaggio di Bruno sia irsuto, concreto, pieno di asperità da decodificare; l’aggettivo «rusticus» mette in rilievo la sua rusticità e selvatichezza, difficilmente imbrigliabili in griglie precostituite; il successivo «asper» affianca alle difficoltà connesse alla comprensione dei lemmi quelle legate al loro gradimento, dato che mette in luce il loro essere ruvidi, ineguali, non necessariamente ordinati secondo il criterio della concinnitas, la loro asprezza anche frequentemente cacofonica, volta a privilegiare la descrizione vivida di ogni aspetto del reale piuttosto che la piacevolezza; «callosus» poi merita un’attenzione particolare, dato che le inutili ricerche etimologiche dei pedanti lasciano il posto ad uno studio terminologico interessato a mettere in primo piano le radici delle parole: la scelta di un aggettivo derivante da un sostantivo («callosus» deriva da callum con l'aggiunta del suffisso -osus) è volta a metterne il luce la corposità, a mostrare come la durezza dello stile bruniano sia indissolubilmente correlata alla sua materialità; infine «rigidus» sottolinea l'inflessibilità dello stile del Nolano, la sua intrattabilità, il suo non piegarsi di fronte alle regole ed i canoni comunemente accettati. Citazioni di autori antichi unite a parole non classiche, un vocabolario attento a rendere sempre a livello espressivo i contenuti, una prosa incurante dell’armonia degli elementi e della dolcezza dei suoni rendono il latino di Bruno un’inesauribile fonte di comprensione

(13)

- 11 -

del rapporto del Nolano con la lingua, aspetto fondamentale del rapporto con la sua missione filosofica e le nuove scoperte cosmologiche ed ontologiche: è necessario creare un nuovo lessico e comunicare le scoperte filosofiche attraverso uno stile innovativo che le rifletta, dando voce con la sua concretezza ed il suo perpetuo mutare e mai sclerotizzarsi all’incessante vicissitudine della Vita-materia infinita. Il riferimento agli aspetti linguistici della riflessione bruniana, inestricabilmente legati alla sua filosofia, permette di porre l’attenzione su un ultimo dato a proposito del quale emerge con chiarezza la mutua incomprensione tra il Nolano e l’ambiente oxoniense: l’importanza delle traduzioni15. Su questo tema, infatti, Bruno si è soffermato proprio nell’estate del 1583 a Oxford, stando alla testimonianza del non identificato N. W., contenuta nella premessa alla traduzione delle Imprese di Paolo Giovio apparsa nel 1585 ad opera di Samuel Daniel, ed a quella di John Florio nell’avvertenza al lettore della sua traduzione in inglese dei Saggi di Montaigne del 1603, entrambe a proposito dell’insistenza del Nolano sul valore delle traduzioni per lo sviluppo delle scienze. Un punto di partenza privilegiato per inquadrare l’atteggiamento del Nolano nei confronti dell’attività del tradurre può essere l’affermazione di Teofilo, contenuta nel dialogo quarto del De la causa, secondo cui Averroè «quantumque arabo et ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto»16. Nonostante Averroè non potesse leggere Aristotele in lingua originale, egli ha nondimeno compreso il suo

15

Cfr. G.AQUILECCHIA, Appunti su Bruno e le traduzioni, in Giordano Bruno: testi e traduzioni: atti della giornata di studio «Giordano Bruno: testi e traduzioni» del 3 ottobre, 1994 presso il Harvard Center for Italian Renaissance Studies alla Villa I Tatti in Firenze organizzata da H. Gatti, Università degli Studi di Roma «La Sapienza», in collaborazione con B. Copenhaver, University of California at Los Angeles, Albigraf, Roma 1996; M.CILIBERTO, Umbra profunda.

Studi su Giordano Bruno, cit.; F. TOCCO, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e

confrontate con le italiane, Le Monnier, Firenze 1889.

16

(14)

- 12 -

pensiero meglio di quanti lo hanno letto in greco. Allo stesso modo, come rileva nel dialogo terzo della stessa opera Gervasio, in frontale opposizione al pedante Polihimnio, «uno che non sa né di greco, né di arabico, e forse né di latino, come il Paracelso, può aver meglio conosciuta la natura di medicamenti e medicina, che Galeno, Avicenna e tutti che si fanno udir con la lingua romana. Le filosofie e le leggi non vanno in perdizione per penuria d’interpreti di paroli, ma di que’ che profondano ne’ sentimenti»17

. Non è la conoscenza pedissequa delle lingue antiche, l'attenzione per i verba, a dare impulso al filosofare ed all’accrescersi della conoscenza, bensì il valore riconosciuto alle res, ai concetti piuttosto che alla vacua forma. Ciò che Bruno tiene a sottolineare, riecheggiando le posizioni di Pietro Pomponazzi nel Dialogo delle lingue di Sperone Speroni, pubblicato a Venezia nel 1542, è che non conta tanto l’aver letto un autore in lingua originale o in traduzione, quanto l’esser riusciti a penetrare fino in fondo all’interno del suo universo concettuale. Tradurre un testo significa renderlo maggiormente fruibile, permettere di comprendere più facilmente ciò che l’autore ha voluto esprimere e dunque anche agevolare una riflessione personale sui contenuti, per arricchirli ma anche eventualmente per contestarli. Le considerazioni bruniane a proposito dell’attività traduttoria gettano anche luce sul «problema del rapporto fra opere latine e opere volgari, dischiudendo la strada a una considerazione complessiva di tutta l’esperienza linguistica bruniana che, in quanto tale, è, essa stessa, filosoficamente significativa»18. Il passaggio dal volgare al latino infatti non è mai meccanico, bensì profondamente segnato dalla concezione bruniana della lingua come di una materia plastica, infinitamente plasmabile per restituire le infinite trasformazioni della

17

Ivi, p. 230.

18

(15)

- 13 -

materia infinita. A tal proposito è particolarmente indicativo il capitolo secondo del primo libro del De immenso, che «si può considerare come una libera traduzione dell’esordio del dialogo italiano De la Causa»19

. Oggetto dei due passi è la critica serrata ai pedanti, ai filosofi volgari che sono ciechi di fronte alla verità e rifiutano ostinatamente la luce della «Nolana filosofia». «Onde vedransi questi, che qual appannata talpa, non sì tosto sentiranno l’aria discoperto, che di bel nuovo, risfossicando la terra, tentaranno a gli nativi oscuri penetrali»20, scrive Bruno nel De

la causa, e così traduce nel De immenso: «Non aliter talpas hinc contemplabere,

dium / Sicubi in aethereum aspectum adventasse licebit, / Horrentes iterum telluris fodere dorsum / Matris, tentabunt veterem adremeare cavernam»21. Di particolare interesse è la resa latina del termine «risfossicando», che mette in evidenza come in Bruno le scelte lessicali non siano mai casuali e come anzi egli utilizzi i vocaboli a

19

F.TOCCO, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, cit., p. 212.

20

G.BRUNO,Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 181. La talpa, per la peculiarità di avere occhi

sempre molto minuti ed in alcuni casi anche ricoperti da una membrana, era ed è tuttora assunta come termine di paragone per indicare una capacità visiva molto ridotta o nulla ed inoltre, dato che il suo habitat permanente sono le gallerie sotterranee che scava, all’interno delle quali si procaccia anche il cibo, con il termine talpa, in senso figurato, si suole indicare una persona chiusa e dagli orizzonti limitati. Bruno utilizza l’immagine di questo mammifero sia in modo più convenzionale, sottolineandone la cecità – ad esempio negli Eroici furori, dove il primo cieco, privo della vista fin dalla nascita, viene paragonato ad una talpa –, sia come rappresentazione metaforica, tenendo presenti tutte le caratteristiche che abbiamo enucleato, come emerge in forma particolarmente incisiva sia nella Cena de le Ceneri sia nell’incipit del De la causa e nella libera traduzione di esso che occupa il capitolo secondo del primo libro del De immenso. Nel primo dialogo londinese ad essere definito una talpa è il pedante Prudenzio, in quanto egli è tra coloro che non intendono capire in alcun modo le questioni sollevate dalla nuova cosmologia. Il pedante è l'uomo-talpa per eccellenza, che si rifiuta di alzare gli occhi verso l’infinito per continuare a scavare i cunicoli sotterranei del suo sapere posticcio, fatto di frasi latine vuote di contenuti, ed evita di guardare alla nuova luce della filosofia del Nolano per rimanere ancorato al mondo di cui è l’espressione più perfetta, il mondo della crisi che attende una riforma. L’immagine della talpa torna anche nell’esordio del De la causa e non viene eliminata o sostituita, a differenza di altre, nella traduzione di esso che si trova nel De immenso, a testimonianza della pregnanza comunicativa che Bruno le riconosce. Le talpe sono ancora una volta coloro che sanno soltanto seguire pedissequamente le auctoritates e sono incapaci, in quanto privi della vista che rappresenta la forza dell’intelletto, di guardare al sole della verità, di fronte al quale si affrettano a scavare freneticamente nuove gallerie, per potersi nascondere in esse e non vedere. Le loro abitudini di vita fossorie, ipogee, si contrappongono dunque nettamente all’impresa del Nolano.

21

(16)

- 14 -

sua disposizione come un materiale malleabile attraverso il quale esprimere l’inesauribile vitalità dell’universo infinito. Il verbo «fodere», con il quale viene tradotto «risfossicando», significa scavare ma è attestato anche con il significato di seppellire: il passaggio dal volgare al latino è stato attuato dal Nolano con una precisa scelta del termine, atta a mantenere anche in traduzione l’idea della morte intellettuale che si accompagna alla pedanteria, della fossa (il tema del supino di

fodere è foss-) che i filosofi volgari scavano per gettarvisi dentro e non guardare la

luce. Le infedeltà bruniane al testo di partenza non sono senza significato: ad esempio l’incipit del dialogo in volgare, «Qual rei nelle tenebre avezzi, che liberati dal fondo di qualche oscura torre escono alla luce»22, diviene «Ut reus in tenebris assuetus, quando profunda / Exerit e cavea ad solem attonita ora»23 e dunque si passa dalla torre del dialogo italiano alla caverna del poema francofortese. L’attenzione costante di Bruno per il pubblico cui si rivolge e per il genere letterario a cui affida la trasmissione della sua filosofia lo inducono a rendere all’interno del poema filosofico ancora più evidente il riferimento al mito della caverna del settimo libro della

Repubblica platonica. Oltre alle scelte terminologiche operate dal Nolano nel

passaggio dal volgare al latino, è di notevole rilevanza l’attività di Bruno come traduttore in volgare di autori classici, in perfetta consonanza con le sue affermazioni teoriche a proposito della traduzione. Nello Spaccio de la bestia trionfante, ad esempio, Bruno così traduce liberamente l’inizio del De rerum natura di Lucrezio:

«La bella madre del gemino amore, / la diva potestà d’uomini e dèi, / quella per cui ogn’animante al mondo / vien conceputo, e nato vede il sole; / per cui fuggono i venti e le tempeste, / quando spunta dal lucid’oriente: / gli arride il mar tranquillo, e di bel manto / la terra si

22

G.BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 181.

23

(17)

- 15 -

rinveste, e gli presenta / per belle man di Naiade gentili / di copia di fronde, fiori e frutti / colmo il smaltato corno d’Acheloo,»24

.

«Ogn’animante» è la traduzione di «genus omne animantum»25

, al verso 4 del primo libro del poema lucreziano. Il termine latino animans è la sostantivazione del participio presente del verbo animo, che significa animare, vivificare. La scelta di non tradurre né con vivente né con animale, ma di mantenere un lemma vicino all’originale latino rispecchia la volontà di Bruno di evidenziare l’infinita vitalità da cui è pervasa la realtà, andando al cuore dei concetti e non limitandosi ad una comprensione superficiale. L’espressione «la diva potestà d’uomini e dèi» per riferirsi a Venere rende quella «hominum divumque voluptas»26 del verso 1 del primo libro, con un evidente slittamento concettuale tra «voluptas» e «potestà»: ancora una volta Bruno mostra di guardare al livello contenutistico e non a quello formale ed inserisce in questo punto il riferimento al potere di Venere per non tralasciare all’interno della traduzione di questi primi versi un concetto che Lucrezio esprime solo successivamente, a distanza di venti versi, ovvero che Venere «rerum naturam sola gubernas»27. La fedeltà al testo lucreziano soccombe di fronte all’esigenza di includere un ulteriore concetto che altrimenti andrebbe perduto, a conferma del fatto che per Bruno la traduzione non è una trasposizione automatica di una serie di lemmi da una lingua ad un’altra. Traducendo si devono fare i conti con l’articolazione, la stratificazione e la complessità della lingua e del messaggio che l’opera vuole veicolare ed una traduzione letteralmente infedele può essere molto più vicina allo spirito dell’opera di un esercizio tecnicamente perfetto.

24

G.BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., pp. 490-1.

25

LUCREZIO, La natura delle cose, a cura di G. Milanese, introduzione di E. Narducci, Mondadori, Milano 1992, p. 2.

26

Ibid.

27

(18)

- 16 -

Non stupisce dunque che uomini influenti come Rainolds ed il suo allievo Richard Hooker – che in una lettera al maestro, parlando di Hugh Broughton, teologo e studioso del rabbinismo da lui considerato ‘stravagante’, lo definisce, certo di instaurare un paragone chiaro per il suo destinatario, un Nolano inglese – abbiano contribuito, dopo aver con ogni probabilità assistito alle lezioni oxoniensi di Bruno, al suo allontanamento.

Abbandonata l’Università di Oxford, Bruno fece ritorno a Londra, dove era ospite presso l’ambasciatore francese Michel de Castelnau. E’ a questo punto che, ritengo, egli pubblicò l’Explicatio triginta sigillorum; come è stato illustrato28

, la stampa nel 1583 dell’Explicatio e del Sigillus sigillorum fu successiva a quella dei Sigilli e, sulla base di considerazioni interne all’Explicatio, è a mio parere plausibile ritenere che Bruno pubblicò l’opera dopo il fallimento oxoniense, con l’obiettivo di rivolgersi ad un pubblico diverso da quello di Oxford: i ramisti ‘eclettici’ di Cambridge. Per ricostruire questa traccia è necessario tornare alla disputa di Bruno con John Underhill, grazie al buon esito della quale il Nolano ottenne la possibilità di insegnare. Nella Cena de le Ceneri il filosofo così descrive per bocca di Frulla – personaggio che svolge una funzione molto simile a quella del fool shakespeariano, autorizzato a rivelare, in mezzo ai suoi nonsense, profonde e crude verità – lo scontro verbale con il dottore di Oxford:

«andate in Oxonia e fatevi raccontar le cose intravenute al Nolano, quando publicamente disputò con que’ dottori in teologia in presenza del prencipe Alasco polacco, et altri della nobiltà inglesa; fatevi dire come si sapea rispondere a gli argomenti: come restò per quindeci sillogismi, quindeci volte qual pulcino entro la stoppa quel povero dottor, che come il corifeo dell’Academia ne puosero avanti in questa grave

28

(19)

- 17 -

occasione; fatevi dire con quanta inciviltà e discortesia procedea quel porco, e con quanta pazienza et umanità quell’altro che in fatto mostrava essere napolitano nato et allevato sotto più benigno cielo. Informatevi come gli han fatte finire le sue publiche letture, e quelle de

immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera»29.

Bruno – rievocando le sue lezioni, in cui si intrecciavano temi neoplatonici e stoici, alla luce del De vita coelitus comparanda di Ficino, e l’esaltazione del nuovo cosmo copernicano30 – chiama sprezzantemente il suo avversario «quel povero dottor», «il corifeo dell’Academia» e «quel porco» e lo paragona ad un «pulcino entro la stoppa», ma non ne rivela l’identità. Soffermiamoci un momento sulla caratterizzazione dei due protagonisti dello scontro verbale che emerge da questo passo. Degna di nota è la comparazione di Underhill ad un porco: questi, non solo incapace di rispondere alle argomentazioni del Nolano, ma anche scortese e villano nell’atteggiamento e nei modi, vero e proprio Sileno a rovescio che nasconde sotto il suo abito lungo da accademico un animo suino, racchiude infatti in sé l’ignoranza, unita all’ottusità ed alla rozzezza, che il maiale simboleggia all’interno dell’intero

corpus bruniano. Nel componimento Giordano al libro in apertura al Cantus Circaeus, Bruno invita il libro a stare molto attento agli animali domestici vicini alla

casa di Circe, perché, come emergerà nel corso dell’opera, la frattura esistente tra essere ed apparire, segno tangibile della crisi in cui versa l’umanità, non permette di valutare dall’esterno la ferocia degli animali: «Allora infatti proprio di fronte alle porte ed all’ingresso dell’atrio / Facendosi avanti tutto fangoso / Ti verrà incontro il porco, e se per caso gli andrai troppo accosto, / Col fango, con le zanne e con gli

29

G.BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 101.

30

Cfr. R.STURLESE, Le fonti del Sigillus sigillorum del Bruno, ossia il confronto con Ficino a

Oxford sull’anima umana, «Giornale critico della filosofia italiana», A. 73, s. 6, vol. 14, n. 1,

(20)

- 18 -

zoccoli / Ti morderà, ti sporcherà, ti calpesterà / E col suo grugnito t’importunerà»31. Il porco pronto ad accanirsi contro il libro, e dunque contro l’autore, fa pensare al «Candelaio di carne ed ossa»32 della dedica della commedia Alla signora Morgana

B., ricordato anch’egli come un porco buono solo per «ricovrare il lardo»33 una volta morto, molto probabilmente il frate responsabile del processo intentato a Bruno nel 1575, ma assurge ad immagine emblematica dell’ottusità dei gruppi più retrivi dell’ambiente culturale europeo, incapaci di comprendere la «Nolana filosofia», tanto che questa raffigurazione verrà riproposta anche nell’incipit del De la causa, con la descrizione dei «sannuti ciacchi» che infastidiscono con il loro «importun gruito»34. Il porco, tra tutte le bestie che si presentano allo sguardo di Circe e Meri una volta avvenuta la disumanizzazione e restaurato il giusto rapporto di rispecchiamento tra

esse e videri, è quello che concentra in sé quasi tutti i vizi ed in particolar modo

quelli più nocivi, mostrando la sua natura di sentina morale, vero e proprio «porcus

porcorum in gloria Ciacchi»35, per riprendere un’espressione dello Spaccio de la bestia trionfante che, con l’evidente riferimento all’Inferno dantesco, aggiunge

corposa bruttezza alla critica dell’ingluvie. Per questo, anche se indubbiamente le vere intenzioni del Nolano al momento della composizione dell’opera non si riducevano a ciò, non è da escludere che per Bruno fosse fondata l’equivalenza tra il porco del Cantus ed il pontefice, di cui parla Mocenigo nel supplemento di denuncia presentato all’Inquisizione romana nel 1594:

«Havendomi ricordato, ch’egli mi disse, ch’in certo suo libretto intitolato Cantus circeus, il quale io presentai

31

G.BRUNO,Opere mnemotecniche, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, R.

Sturlese, N. Tirinnanzi, vol. 1, Adelphi, Milano 2004, pp. 595-7.

32

G.BRUNO,Candelaio, cit., p. 6.

33

Ivi, p. 7.

34

G.BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 182.

35

(21)

- 19 -

all’hora all’Inquisitore et haveva le coperte rosse, haveva havuta intentione di parlare di tutte le dignità ecclesiastiche, e che per la figura del porco haveva voluto intendere il pontefice, e che per questo l’haveva in termine di honore rappresentata con un cerchio pieno di epitetti, come si può vedere in detta figura, e così di mano in mano applicando altre figure all’altre dignità de’ sacerdoti, come in legendo il libro con avvertenza s’intende facilmente con questo lume, ch’egli diede, e me lo disse mentre stanzava in casa mia»36.

Il porco, d’altronde, essendo una vera e propria epitome dei vizi dei tempi, racchiude in sé una serie di connotati negativi del ciclo giudaico-cristiano ed in particolare del frutto più terribile che tale ciclo ha prodotto, ovvero la Riforma. Paradigmatico il passo dello Spaccio in cui Saturno propone per i riformati, dediti all’ozio a causa della loro mortifera credenza nella justitia sola fide, la reincarnazione in porci, in quanto animali massimamente pigri37: anche se il suggerimento non verrà seguito e si opterà per una reincarnazione in asini, il riferimento al maiale non perde il suo valore, anche perché, come si evince dalla dedica del Candelaio, il porco napoletano tanto inviso a Bruno è assai simile agli asini incapaci di comprendere la sua filosofia38. Nella Proemiale epistola della Cena de le Ceneri, Bruno delinea una poetica del dialogo come genere letterario della varietas:

36

L.FIRPO, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Salerno editrice, Roma 1993, p. 289.

37

Cfr. G.BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 519: «“E’ ben degno premio” disse Saturno, “la corona per colui che le toglierà via; ma a questi perversi è picciola et improporzionata pena che sieno solamente spenti dalla conversazion de gli uomini: però mi par oltre giusto che lasciato ch’aranno quel corpo, appresso per molti lustri e per più centinaia d’anni, da corpo in corpo trasmigrando per diverse vice e volte, se ne vadano ad abitar in porci, che sono gli più poltroni animali del mondo, o vero sieno ostreche marine attaccate a i scogli”. “La giustizia” disse Mercurio, “vuole il contrario: mi par giusto che per pena de l’ocio sia data la fatica; però sarà meglio che vadano in asini, dove ritegnano la ignoranza e si dispogliano de l’ocio: et in quel supposito, in mercé di continuo lavore, abbiano poco fieno e paglia per cibo, e molte bastonate per guidardone”. – Questo parere approvaro tutti gli Dei insieme».

38

Cfr. G.BRUNO,Candelaio, cit., pp. 6-7: «Salutate da parte mia quell’altro Candelaio di carne

ed ossa, delle quali è detto che “Regnum Dei non possidebunt”; e ditegli che non goda tanto che costì si dica la mia memoria esser stata strapazzata a forza di piè di porci e calci d’asini: perché a quest’ora a gli asini son mozze l’orecchie, ed i porci qualche decembre me la pagarranno».

(22)

- 20 -

«Et in ciò fa giusto com’un pittore; al qual non basta far il semplice ritratto de l’istoria: ma anco, per empir il quadro, e conformarsi con l’arte a la natura, vi depinge de le pietre, di monti, de gli arbori, di fonti, di fiumi, di colline; e vi fa veder qua un regio palaggio, ivi una selva, là un straccio di cielo, in quel canto un mezo sol che nasce, e da passo in passo un ucello, un porco, un cervio, un asino, un cavallo: mentre basta di questo far vedere una testa, di quello un corno, de l'altro un quarto di dietro, di costui l’orecchie, di colui l’intiera descrizzione»39.

Il dialogo deve compendiare il mondo, con tutti i suoi diversi elementi rappresentati in primo piano o di scorcio, deve insomma descrivere plasticamente il reale in tutte le sue sfumature, in netta opposizione a certi pedanti che tendono a tratteggiarne determinati aspetti a discapito di altri, offrendo un quadro parziale. Proprio in apertura all’opera nella quale vengono descritti i porci oxoniensi in tutta la loro ignoranza, grossolanità e rozzezza, questa dichiarazione programmatica richiama l'immagine del porco, rilevando come anch’essa debba essere raffigurata. Dal trattato mnemotecnico in latino, alla commedia, ai dialoghi filosofici italiani, il porco deve essere rappresentato da tutti i punti di vista: solo dopo aver smascherato tutte le forme di ‘porcinità’ – che siano a Napoli, a Parigi o, come nel caso di Underhill che ha richiamato la nostra attenzione in questa sede, a Oxford – sarà possibile risanare la discrasia tra apparenza e realtà e riformare la società.

Il termine con il quale il Nolano si autodefinisce, «napolitano», rappresenta un hapax

legomenon nel corpus bruniano. Frulla rileva con lucido disincanto ciò che l’autore

ha messo in scena nell’arco dell’intero dialogo, ovvero come siano volgari, grossolani e pedanti «i frutti d’Inghilterra»40, di cui un degno rappresentante è John Underhill, incapace e rozzo, al contrario di Bruno, «che in fatto mostrava essere

39

Ivi, p. 11.

40

(23)

- 21 -

napolitano nato et allevato sotto più benigno cielo»41. Di fronte a Sileni a rovescio come questi, incapaci addirittura di bere e di mangiare in modo decoroso, Bruno ribadisce la sua superiorità di membro di una cultura che, malgrado la crisi in cui è caduta, ha molto da insegnare a uomini del genere, che pensano di coprire le loro carenze con la veste lunga da professore. Mentre, ad esempio, la specifica commistione linguistica che si era venuta a creare nel vicereame di Napoli aveva permesso a Bruno di esercitarsi fin dai suoi esordi su tre livelli, quello del latino, quello del volgare italiano e quello del dialetto napoletano, addirittura sovente fondendoli o costituendo a partire da radici di lemmi appartenenti ad uno di questi tre patrimoni lessicali delle neoformazioni atte ad esprimere le nuove acquisizioni della sua filosofia, i gentiluomini inglesi non hanno una ricchezza linguistica paragonabile a loro disposizione ed addirittura «sapendo che la lingua inglesa non viene in uso se non dentro quest’isola, se stimarebbono selvatici, non sapendo altra lingua che la propria naturale»42. In tal modo dimostrano di voler tentare di dissimulare la viltà della loro patria, secondo un atteggiamento umano da Bruno analizzato nel De rerum

principiis a proposito della virtù del luogo. Esso è una ‘conferma’ dal punto di vista

antropologico dell’influsso degli astri sui diversi luoghi geografici e sulle loro popolazioni: «le varie patrie producono negli uomini costumi vari»43 a causa delle virtù diverse che il «sinodo celeste»44 trasmette alle regioni del globo e perciò coloro che sanno di appartenere ad un popolo che non gode di buona fama per i costumi che la terra gli trasmette tentano di celare quale sia il loro paese natio. «Un cielo aspro e

41 Ibid. 42 Ivi, p. 62. 43

G.BRUNO, Opere magiche, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2000, p. 687.

44

(24)

- 22 -

crudele genera uomini aspri e crudeli»45 e anche se l’educazione, le leggi, gli ordinamenti politici o le religioni possono addolcire l’indole, l’influsso naturale connesso al luogo non può essere completamente estirpato dall’animo umano, eccezion fatta per ristretti gruppi di individui – e significativamente a tal proposito Bruno richiama la Germania, già celebrata nell’Oratio valedictoria come dimora attuale della Sapienza – che riescono a far prevalere il loro ingegno sull’ottusità del luogo. Ciò costituisce un’ulteriore prova del fatto che, per quanto cerchino di occultare la loro turpitudine, i dottori di Oxford non possono in alcun modo nascondere all’occhio attento del filosofo di essere stati cresciuti e formati sotto un cielo ben diverso da quello del Nolano: alla loro origine corrisponde infatti una grossolanità dei modi che si riflette in una concezione del mondo altrettanto rozza, ineluttabilmente destinata a produrre la decadenza sia delle scienze e delle lettere sia della religione. Bruno, al contrario, mostra la sua eccellenza rispetto al loro mondo, incapace di comprendere il valore della sua filosofia, ottuso, pedante e portatore di una barbarie colpevole, che deriva non dal primigenio contatto diretto con la realtà, ma da una civilizzazione solo esteriore cui non è corrisposto alcun approfondimento culturale.

Il Nolano dunque è teatralmente chiaro e robusto nella sua descrizione, ma non rivela il nome del dottore oxoniense: a fornircelo è l’umanista Gabriel Harvey e sarà proprio battendo il sentiero aperto da questo intellettuale che cercheremo, nel prossimo capitolo, di gettare luce sul rapporto di Bruno con i ramisti di Cambridge. Prima, però, sarà utile rivolgere la nostra attenzione alla situazione cantabrigense.

45

(25)

- 23 - 1.2 La formazione di William Perkins

William Perkins nacque nel 1558 nel villaggio di Marston Jabbett, nel Warwickshire, e si addottorò a Cambridge, dove morì nel 1602, divenuto ormai un famosissimo predicatore. A Cambridge egli ebbe come tutor Laurence Chaderton, fervente fautore del ramismo legato ad un giovane ‘lettore’ dell’ateneo, anch’egli ramista: proprio Gabriel Harvey. I contatti di Perkins con Harvey aiutano a gettare luce sull’interesse per il ramismo da un lato e per Bruno – anche se, come vedremo, in forma estremamente critica – dall’altro. Harvey tenne, nella primavera del 1575 ed in quella del 1576, tre orazioni latine sulla retorica di impronta ramista, che furono poi pubblicate dal noto stampatore londinese Henry Bynneman con i titoli di

Ciceronianus e Rhetor. La prima opera, stampata nel giugno del 1577, contiene la

lettura dell’anno precedente, mentre le due orazioni che compongono il Rhetor, comprendenti la lettura del 1575, videro la luce nel novembre del 1577. I due testi, rielaborazioni delle dissertazioni originarie, sono strettamente legati alla didattica di Harvey a Cambridge tra il 1574 ed il 1576, alle sue lezioni per gli studenti del primo anno, per i quali il corso era obbligatorio, e anche per gli studenti di classi superiori, qualora interessati. Harvey mostra di voler sostituire alle raccolte di luoghi comuni ed apoftegmi di stampo aristotelico, in voga in ambito scolastico, il metodo ramista. La riforma dialettica di Ramo prevedeva che all’astrattezza e al disordine della logica aristotelica venisse contrapposta una logica inventiva, sinergicamente basata su natura ed esercizio tecnico umano, che insegnasse a discutere e, più in generale, a fare un uso retto della ragione. La dialettica, considerata in primo luogo come modalità di organizzazione del pensiero, si doveva porre come obiettivo quello di individuare i princìpi a fondamento dell’intero edificio del sapere e di creare,

(26)

- 24 -

attraverso essi, un quadro chiaro e nitido all’interno del quale fosse possibile disegnare mentalmente un reticolo che abbracciasse idee e cose. L’individuazione di un metodo in grado di ordinare le singole nozioni è dunque il motivo-chiave della logica ramista, valorizzato ampiamente da Harvey, tra i primi sostenitori del ramismo nell’ateneo che ne diverrà la roccaforte inglese. La fortuna della corrente ramista si nutrì presto dell’unione di umanesimo e protestantesimo, in particolar modo attraverso il rifiuto delle immagini, considerate inutili e pericolose, sia dal punto di vista dottrinale, in quanto connesse all’idolatria della liturgia cattolica, con le sue immagini che distolgono dalla ricerca di Dio nell’interiorità, sia da un punto di vista etico, in quanto coinvolgenti le passioni, inevitabilmente legate a tutto ciò che è sensibile, nel processo conoscitivo.

Questa tematica, in particolare, rinvia a Perkins, che in una sua opera religiosa, A

Warning against the Idolatry of the Last Times46, si scaglia veementemente contro le immagini, da lui considerate un residuo di ‘papismo’ da sradicare ad ogni costo, in quanto generatore di culti idolatrici. A suscitare il nostro interesse è soprattutto che il furore iconoclasta del pastore sia rivolto non soltanto contro le immagini cultuali, oggetti realmente esistenti, ma anche contro la formazione di immagini mentali: egli sostiene che anche la semplice elaborazione nella mente di un’immagine di Dio, in quanto tentativo umano di focalizzare un ente che è al di sopra della sensibilità, è un atto idolatra.

A Perkins, perfettamente inserito nell’ambiente ramista cantabrigense, stava a cuore soprattutto l’applicazione pratica del ramismo al metodo della predicazione: la sua

46

The works of that famous and worthie minister of Christ, in the Universitie of Cambridge, Mr.

W.PERKINS: gathered into one volume, and newly corrected according to his owne copies. With distinct chapters, and contents of every book, and a generall table of the whole, printed by

(27)

- 25 -

opera Prophetica, sive de sacra et unica ratione concionandi tractatus, pubblicata nel 1592, è un’applicazione rigorosa della dialettica ramista alla predicazione ed in essa l’autore stabilisce come, per ricordare le prediche, sia necessario ricorrere alla strategia ramista e non alla mnemotecnica basata su luoghi ed immagini47. Così si esprime in merito il puritano cantabrigense:

«La memoria artificiale, che consiste in luoghi e immagini, pretende di insegnare a trattenere i concetti nella memoria agevolmente e senza fatica. Ma essa non deve essere approvata [per le ragioni seguenti]: 1) L’animazione delle immagini, che è la chiave della memoria, è empia: perché evoca pensieri assurdi, insolenti, fantastici e simili, che stimolano e accendono depravate passioni carnali. 2) Appesantisce mente e memoria, perché impone, invece di uno, tre compiti alla memoria: primo il ricordo dei luoghi, poi quello delle immagini, e infine quello della cosa di cui si deve parlare»48.

Perkins sostiene che è maggiormente giovevole per la rammemorazione di una predica cercare di imprimere nella mente in modo attento e ponderato le varie prove ed applicazioni dei passi dottrinali, le chiarificazioni a proposito delle applicazioni e l’ordine nel quale l’oratore progetta di esporle. Ciò deve essere fatto attraverso una

forma mentis metodica, basata su assiomi e sillogismi. Non è necessario essere

ansiosi riguardo l’ordine preciso delle parole: memorizzare un sermone parola per parola ha infatti numerosi svantaggi. In primo luogo richiede un lavoro mnemonico enorme ed in secondo luogo genera confusione, dato che è sufficiente non ricordare un unico vocabolo per perdere un anello fondamentale della concatenazione e non

47

Cfr. W.S.HOWELL,Logic and Rhetoric in England, 1500-1700, Princeton University Press,

Princeton 1956, pp. 206-7.

48

F.YATES,L’arte della memoria, con uno scritto di E. H. Gombrich, traduzione di A. Biondi e A. Serafini, Einaudi, Torino 1972, p. 257 (ed. or. The Art of Memory, University of Chicago Press, Chicago 1966); si tratta della traduzione italiana di W.PERKINS,Prophetica sive de sacra et unica ratione concionandi tractatus, Cambridge, Ex officina Iohannis Legate, celeberrimae

(28)

- 26 -

riuscire a proseguire. Infine deve sempre rimanere, secondo il pastore, un margine di libertà nell’actio retorica e nello scorrere delle parole, cosicché la spiritualità possa fluire, in un continuum maggiormente creativo di quello presente in una mente ossessionata dalla quantità di elementi che si è cercato di inserirvi.

Dalla precedente citazione risulta però evidente come, nonostante l’ortodosso ramismo del pastore, egli si dedicasse anche ad approfondite letture di trattati di arte delle memoria: la prima critica rivolta alla memoria artificiale, infatti, è chiaramente mossa contro la Phoenix, sive artificiosa memoria di Pietro Tomai da Ravenna49, della quale Perkins poteva anche leggere una traduzione inglese del 1548 circa circolante a Cambridge – The art of memory, that otherwyse is called the Phenix, etc.

translated out of French into Englyshe, a cura di Robert Copland50 – sotto le mentite spoglie di traduzione di un anonimo scritto francese51.

Giurista nato a Ravenna nel 1450 circa e morto a Wittenberg, in Sassonia, all’inizio del XVI secolo, Pietro Tomai è noto per la sua trattazione dell’arte della memoria fondata, sulla scorta di quella classica, sui luoghi e sulle immagini. La sua breve opera è divisa in dodici conclusioni, precetti pratici aventi precise finalità, e si pone come obiettivo quello di indicare una tecnica sia per ricordare oggetti (la cosiddetta

memoria rerum) sia per ricordare parole (la cosiddetta memoria verborum),

attraverso l’unione di immagini e luoghi. Questi ultimi sono paragonabili ad una

49

La Phoenix è uno dei manuali mnemotecnici più influenti del Rinascimento: pubblicata a Venezia nel 1491 per i tipi di Bernardino Cori, fu ristampata ben due volte durante la vita dell’autore, nel 1500 a Erfurt e nel 1508 a Colonia.

50

Il testo è stato stampato a Londra presso William Middleton o Myddylton. Per alcune valide informazioni sulla vita e l’attività di Copland, cfr. F. C. FRANCIS, Robert Copland: Sixteenth

Century Printer and Translator, Jackson, Glasgow 1961; su William Middleton cfr. R. E. GRAVES e A. MCCONNELL, Middleton, William (d. 1547), Oxford Dictionary of National

Biography, online edition 2008, URL: http://www.oxforddnb.com/index/101018684/William-Middleton.

51

(29)

- 27 -

tabula rasa sulla quale incidere le immagini: ciascuno dei luoghi deve avere una

determinata grandezza ed un posizionamento particolare, volto a migliorarne la rievocazione; le immagini, poi, possono essere costituite da figure singole o gruppi di figure, anche in movimento. La caratteristica peculiare della mnemotecnica del Ravennate52 – che è quella contro la quale Perkins si scaglia, definendola empia – è il valore assegnato alla forza affettiva dei ricordi per una loro migliore rimembranza: egli caldeggia il ricorso ad immagini che colpiscano profondamente dal punto di vista emotivo, anche erotiche, perché una violenta caratterizzazione patetica dei ricordi conferisce loro una maggiore saldezza nella memoria.

Seppur in forma aspramente polemica, dunque, il pastore puritano fa riferimento ad un testo eversivo come quello di Pietro da Ravenna, conferma delle sue vaste letture in ambito mnemotecnico.

1.3 Dicson e Perkins: un dialogo tra ramisti?

Alexander Dicson53 visse tra il 1558, anno in cui nacque ad Errol, in Scozia, ed il 1603-1604. Egli studiò all’Università di Saint Andrews, presso la quale si addottorò nel 1577, ed in seguito si trasferì, probabilmente, a Parigi, in qualità di scholar di Maria Stuart, e poi a Londra, dove tentò di avvicinarsi alla cerchia di intellettuali della corte elisabettiana, come testimonia la dedica della sua opera più nota, il manuale di arte della memoria di impianto bruniano De umbra rationis et judicii,

sive de memoriae virtute Prosopopoeia, pubblicato a Londra nel 1583, a Robert

52

Cfr. L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Einaudi, Torino 1995; P. ROSSI, Clavis universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, R. Ricciardi, Milano-Napoli 1960;F.YATES,Op. cit..

53

Cfr. P.BEAL, Dicsone [Dickson] Alexander (1558-1603/4), Oxford Dictionary of National Biography, online edition 2008, URL: http://www.oxforddnb.com/index/101073792/Alexander-Dicsone.

(30)

- 28 -

Dudley, conte di Leicester, personaggio di primo piano della corte, a capo della fazione puritana.

Il rapporto tra Bruno e Dicson fu, almeno in un primo tempo, assai stretto, come confermano un dato documentario molto importante – la dedica manoscritta del Nolano, contenuta nell’esemplare del De umbris idearum di proprietà di Dicson, che recita «Domino Alexandro Dicsonum Bonarum literarum optime merito. Iordanus Brunus Nolanus in sui memoriam et amicitiae prototypon dono dedit manu propria»54 – e la presenza dell’intellettuale scozzese tra i personaggi del De la causa: dalla caratterizzazione del personaggio di Dicsono, che «il Nolano ama quanto gli occhi suoi»55, affiora infatti come questi, a differenza di Gervasio e Polihimnio, lo sciocco e il pedante, sia autorizzato ad affiancare nel corso del dialogo Teofilo, portavoce del Nolano, nell’elaborazione della sua rivoluzionaria ontologia. Una lettera di Robert Bowles, rappresentante scozzese alla corte di Elisabetta, in cui Dicson viene presentato come segretario di Philip Sidney, ha poi indotto a pensare che, proprio tramite Dicson, sia avvenuto il fondamentale incontro tra Bruno e Sidney56. I rapporti tra il Nolano ed il suo discepolo, però, presto peggiorarono, come emerge dal commento «Il vostro malignar non giova a nulla»57 apposto da Dicson nel margine di una pagina della sua copia del De l’infinito, universo e mondi, ora conservata alla University Library di Glasgow. Tale postilla, scritta accanto ad un passo in cui il Nolano polemizza contro i suoi avversari, è di difficile decifrazione in quanto potrebbe contemporaneamente dimostrare insofferenza verso le affermazioni

54

R.STURLESE,Un nuovo autografo del Bruno: con una postilla sul De umbra rationis di A. Dicson, «Rinascimento», A. 38, s. 2, vol. 27, 1987, p. 388.

55

G.BRUNO,Dialoghi filosofici italiani, cit., p. 198.

56

F.YATES,Op. cit., p. 262. Sul rapporto tra Bruno e Sidney ci soffermeremo nel corso del terzo

capitolo di questo lavoro.

57

R. STURLESE, Bibliografia, censimento e storia delle antiche stampe di Giordano Bruno, Olschki, Firenze 1987, p. XXIV.

(31)

- 29 -

del Nolano e verso le posizioni dei suoi avversari ma, come avremo modo di constatare nel seguito di questo lavoro, molti sono gli indizi che conducono a supporre una violenta rottura tra Dicson e Bruno.

Il manuale di mnemotecnica di Dicson è strutturato in tre sezioni: nella prima l’autore definisce i luoghi, nella seconda espone ed argomenta il valore delle immagini e nella terza fornisce una serie di consigli pratici per la gestione di entrambi. Queste tre parti tecniche sono precedute da un’introduzione, costituita da due dialoghi: il primo è uno scambio di battute tra Thamus, Theut e Mercurio, mentre il secondo è tra Socrate e Thamus. A partire da quest’ultimo, si struttura poi tutta la parte strettamente mnemotecnica, presentata attraverso un lungo monologo di Thamus. Nei dialoghi introduttivi la discussione sul valore dell’arte della memoria viene inserita all’interno di una fitta trama di spunti ermetici e neoplatonizzanti, che saranno oggetto di durissime critiche da parte di Perkins, sostenitore di un rigoroso razionalismo, alla luce delle quali Dicson pubblicò una nuova edizione dell’opera, priva di questi elementi, declassati a semplice strategia retorica: si tratta del Thamus,

sive de memoriae virtute, consideratio prima. Iniziano a farsi strada le dissonanze tra

l’opera del Nolano e quella del suo discepolo: il dialogo introduttivo del De umbris

idearum, infatti, a differenza di quelli del De umbra rationis, non è pensato per

interessare il lettore con una veste retorica accattivante, intessuta di riferimenti che, più che teorici, sembrano seguire la ‘moda’ italianizzante per inserirsi negli ambienti di corte, ma contiene una serie di concetti centrali nella visione filosofica bruniana, connessi all’idea di una nuova forma di sapere. Dal punto di vista tecnico, ad ogni modo, l’arte della memoria dicsoniana presenta una forte affinità con quella bruniana del De umbris e del Cantus Circaeus: Dicson distingue tra subiecta absoluta ed

Riferimenti

Documenti correlati

È senza dubbio vero, e Lanuzza lo sottolinea, che Savinio, in quanto intellettuale «stravagante» (ma anche schivo e apparentemente svagato), fatichi ad essere inserito

Use of all other works requires consent of the right holder (author or publisher) if not exempted from copyright protection by the

L’educazione alla cittadinanza si caratterizza come un obiettivo della formazione scolastica in generale, che coinvolge l’apprendimento di conoscenze e lo sviluppo di competenze, ma

Il problema di fondo nella filosofia di Bruno è quello dei rapporti tra materia e vita, e tra corpi e anime; e, come ci si può aspettare, la soluzione adottata reagisce

Lins RL, Elseviers MM, Van der Niepen P, et al: Intermittent versus continuous renal re- placement therapy for acute kidney injury patients admitted to the intensive care unit:.

La presenza sempre più significativa di alunni stranieri nella scuola e delle loro famiglie sul territorio ci spinge non solo ad interrogarci e a ripensare

L’elettrodo della semicella in cui avviene l’ossidazione di una lamina di zinco, immersa in una soluzione di solfato di zinco, è detto anodo e costituisce il polo negativo

Infatti egli dubitava della Trinità, della divinità di Cristo, della Transustanziazione, andando così contro l’ortodossia di una Chiesa che, di fronte a ciò, non poteva