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La saggezza nell'applicazione del giudizio riflettente

Il giudizio riflettente in ambito politico

2.2 La saggezza nell'applicazione del giudizio riflettente

Innanzitutto dobbiamo sempre adottare una certa prudenza nello stabilire delle analogie fra autori, ancor di più se la distanza linguistico-temporale è così ampia come nel caso di Aristotele e Kant. Infatti, Ferrarin ci tiene subito a precisare che:

La nostra ricerca di termini equivalenti a immaginazione e giudizio non va meglio per la capacità di giudicare. Qui ci troviamo addirittura nell'imbarazzo di indovinare un termine corrispondente in greco. Nella misura in cui ci si riferisce ad una capacità di discriminare con il pensiero il vero e il falso, nel De anima si presenta tra le scelte possibili la hupolêpsis, dall'opinione alla scienza; ma non è certo di funzioni così generiche (né tantomeno della scienza) che stavamo parlando […] quando mostravamo la rilevanza del giudizio come istituzione di una relazione intelligente tra particolare e universale. Se ci volgiamo al sesto libro dell'Etica nicomachea però si prospetta una situazione più incoraggiante. Si legge che la considerazione (gnômê), la ragionevolezza (l'essere eugnômôn – qui abbiamo solo il verbo e non il sostantivo), il senno (sunesis), la perspicacia

(eusunesia), la saggezza (phronêsis) e l'intelletto sono virtù dell'intelligenza che tendono alla stessa cosa, cioè il dare giudizi su ciò che pertiene al saggio, e riguardano i casi particolari […], ma in generale su ciò su cui si può essere in dubbio e si deve trarre una conclusione11.

Fatti i dovuti distinguo, possiamo procedere ed addentrarci così nel cuore del discorso intorno alla phronêsis per poter indicare meglio in che misura essa si relazioni alla prospettiva kantiana. Se nella prima parte abbiamo sviluppato e descritto il giudizio riflettente, ora resta comunque un interrogativo non da poco, ovvero: come possiamo decidere i modi e le situazioni per applicarlo con cognizione di causa e senza cadere in errore? Abbiamo già detto che non esiste una regola12 ad

hoc e quindi pare riemergere un dibattito conosciuto con il nome di “problema del criterio di demarcazione”13. Per dirlo in altre parole, si tratta del tentativo di dividere

tutte le asserzioni possibili in due classi: l'insieme delle proposizioni scientifiche da un lato e quelle non scientifiche dall'altro. Inoltre, questi insiemi devono essere tali per cui nessun membro dell'uno appartenga all'altro e viceversa, in modo che l'intersezione fra loro dia un insieme vuoto. Sappiamo bene che gli esiti di questo tentativo neopositivista sono stati nefasti, poiché il criterio di demarcazione è stato innalzato a criterio di senso, con la conseguenza (difficilmente difendibile) che la classe delle asserzioni non scientifiche sia esclusa dal discorso in quanto insensata e, pertanto, non sarà più possibile parlare seriamente di tutto ciò che appartiene alla classe della non-scienza.

Per restare sempre in campo epistemologico, sappiamo anche che un pensatore meno radicale come Thomas Kuhn ha prontamente evitato questo groviglio di aporie relative al criterio di demarcazione, in modo da potersi concentrare sull'analisi dell'andamento generale della ricerca, avendo un occhio di riguardo per le cosiddette “rivoluzioni scientifiche”. Già in altra sede14 facevamo notare come vi siano in ogni

caso dei nodi da sciogliere anche in questa prospettiva, poiché oltre ad essere rilevabile una distinzione sotterranea fra i temi affrontabili o meno dalla scienza15,

11 A. Ferrarin, op. cit., p. 114. 12 Cfr. p. 48-49.

13 Si veda ad esempio K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, cit., p. 70.

14 Cfr. A. Castagnoli, Oltre il riduzionismo medico. L'applicazione del razionalismo critico di Popper alla medicina, cit., par. 1.7 “La “soglia di tolleranza” e il problema del significato delle anomalie”.

15 Si veda la distinzione messa in atto nel cap. 4 “La scienza normale come soluzione di rompicapo” fra: “I rompicapo [come] quella speciale categoria di problemi che possono servire a mettere a prova la ingegnosità o la abilità nel risolverli” e poco oltre leggiamo che: “Non è un criterio per giudicare di un rompicapo il fatto che il risultato sia intrinsecamente interessante o importante. Al contrario, i problemi veramente pressanti, come la cura del cancro o il progetto di una pace duratura, spesso non sono affatto rompicapo, soprattutto perché può darsi che non abbiano

resta comunque aperta la questione sulle anomalie decisive. Infatti, qual è l'anomalia che innesca il processo di messa in discussione del paradigma in voga? Esiste un numero ben preciso? Oppure c'è un'anomalia che è più anomalia delle altre? E se sì, come riconoscerla?

A nostro avviso, sembrano entrare in scena due tematiche troppo spesso relegate in settori di studio separati fra loro e questa scissione non permette un collegamento fra questi argomenti, quando invece sarebbe bene chiamarli in causa anche in una trattazione come la nostra, in cui si affrontano questioni epistemologiche ed estetiche, ma poi anche bioetiche, etiche, giuridiche, politiche e medico- psichiatriche. Stiamo parlando del rapporto fra qualità e quantità da un lato e dei cosiddetti “oggetti vaghi” dall'altro. Ovviamente non è possibile fornire qui un'analisi esaustiva di questi due temi così ampi, ma indicheremo brevemente alcune coordinate principali che li legano fra di loro e con il nostro discorso. Vediamo subito in che senso con le parole di Umberto Galimberti:

U n incremento quantitativo dei mezzi di produzione determina quella

mutazione qualitativa che, capovolgendo il rapporto mezzo-fine, finisce con

il subordinare l'uomo (fine) alla tecnica (mezzo). E come la società industriale aveva capovolto il rapporto uomo-natura, subordinando la natura all'uomo, così la società tecnologica, nata dall'incremento quantitativo della società industriale, produce quella trasformazione qualitativa che è la subordinazione della natura e dell'uomo alla tecnica. La procedura di questo capovolgimento è chiaramente indicata da Hegel nell'Enciclopedia16.

Alcune battute sul tema quantità-qualità erano già state fatte anche in precedenza17, ma vale la pena ritornarci per affrontare la questione da una diversa

prospettiva. Come abbiamo visto, i problemi in merito all'applicazione del giudizio riflettente hanno una certa sintonia con il criterio di demarcazione e, in generale, con il seguire una regola. Tuttavia, come posso decidere se il caso che ho di fronte si presti veramente all'applicazione di tale giudizio piuttosto che a quello determinante? Una possibile risposta potrebbe andare nella direzione dell'esperienza pregressa, ovvero ricercando casi problematici del passato che ci hanno indotto a compiere una

alcuna soluzione”. T.S. Kuhn, op. cit., p. 58. Ergo il criterio di demarcazione potrebbe essere fra problemi che hanno soluzione (rompicapo) e quelli che non ce l'hanno.

16 U. Galimberti, Psiche e techne, (1999), Milano, Feltrinelli, 20086, p. 338.

scelta del genere. In questo modo però si sta semplicemente evitato il nocciolo della domanda, poiché automaticamente scatterebbe l'ulteriore obiezione: come sei riuscito a dirimere la questione la prima volta? Perché hai optato per il giudizio riflettente nel caso singolo che funge da caso primario della serie denominata “esperienza passata”? Anche così insomma non se ne uscirebbe. Infatti, se pure volessimo supporre, assiomaticamente, che il nostro interlocutore sia stato in grado di rispondere alla domanda in merito al primo caso della serie, si potrebbe comunque inciampare nel tema della vaghezza, segnalato da Achille Varzi18, che ad esempio si chiede «se dopo n passi ci troviamo ancora sul Monte Cervino o no?»19. Ma tutto ciò cosa ha a che

fare con il nostro discorso? Vediamo di rispondere rapidamente.

Ci preme evidenziare questi aspetti dal momento che la nostra trattazione va inevitabilmente incontro a molte questioni in cui la tradizione filosofica si è imbattuta diverse volte, pertanto, oltre ad onorare i giganti del passato che ci portano sulle loro spalle (come direbbe Bernardo di Chartres), non possiamo esimerci dal chiamare in causa le problematiche che emergono durante il percorso (aporie, antinomie, contraddizioni, paradossi), visto anche il tipo di giudizio che è al centro del nostro lavoro di ricerca, su cui Kant ci mette in guardia:

Il Giudizio riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data, e quindi in realtà non è se non un principio della riflessione su oggetti, per i quali oggettivamente ci manca affatto una legge, o un concetto dell'oggetto che possa essere principio sufficiente pei casi che si presentano. Ora, poiché nessun uso delle facoltà conoscitive può sussistere senza principii, il Giudizio riflettente in tali casi dovrà fare da principio a se stesso: il quale principio, non essendo oggettivo, e non potendo fondare una conoscenza dell'oggetto sufficiente allo scopo, deve servire soltanto, come principio puramente soggettivo, all'uso finale delle facoltà conoscitive, cioè per riflettere sopra una certa specie di oggetti. Sicché per questi casi il Giudizio riflettente ha le sue massime, e massime necessarie, dirette alla conoscenza delle leggi naturali nell'esperienza, e a raggiungere, per mezzo di tali leggi, dei concetti, che possono essere anche concetti della ragione, quando il Giudizio ne abbia assolutamente bisogno per imparare a conoscere la natura secondo le sue leggi empiriche. – Ora, tra queste massime necessarie del

18 Cfr. il cap. 6. A. Varzi, Parole, oggetti, eventi, (2001), Roma, Carocci. 19 M. Ferraris, Storia dell'ontologia, (2008), Milano, Bompiani, 20092, p. 686.

Giudizio riflettente può esserci una contradizione, e quindi un'antinomia; su cui si fonda una dialettica, che, se ciascuna delle due massime contradittorie ha il suo fondamento nella natura delle facoltà conoscitive, può essere chiamata una dialettica naturale, e un'illusione inevitabile, la quale, perché non inganni, dev'essere scoperta e risoluta dalla critica20.

Rieccoci al cospetto dell'importanza di una critica intelligente, che deve saper mettere in campo colui che opera nei diversi contesti menzionati. Non si può e non si deve quindi ricercare una regola generale, per il semplice fatto che il singolo presenta dei tratti di unicità predominanti, i quali non sempre permettono di compiere quell'operazione di sussunzione vista nel giudizio determinante. Vogliamo sottolineare allora che il nostro intento non è quello di edificare una teoria del giudizio riflettente, ma di innescare un atteggiamento critico nei confronti di quei casi particolari che presentano delle peculiarità rispetto agli altri. È nella differenza e nell'anomalia, infatti, che si può innestare l'applicazione del giudizio riflettente, e per fare ciò è necessario chiarire bene il tipo di condotta che dobbiamo tenere onde evitare di naufragare nelle infinite sfaccettature del singolo, che deve essere inteso pienamente, anche grazie alla proposta di Fabrizio Turoldo:

Possiamo forse tagliare le questioni con l'accetta, possiamo forse far piovere dall'alto principi validi in tutte le situazioni? […] La problematica dell'applicazione della regola non è per nulla minore od insignificante rispetto a quella della giustificazione della regola. Ad un tale erroneo deprezzamento possono condurci solo concezioni astrattamente meccanicistiche dell'applicazione della norma al caso, oppure concezioni vuotamente discrezionali della morale, per le quali una decisione vale l'altra. Noi, al contrario, vorremmo, in questo studio, valorizzare estremamente questa zona mediana tra la norma universale ed il caso particolare, zona che Paul Ricoeur chiama phronetica, richiamando così il tema aristotelico della saggezza pratica, riecheggiato più volte da Heidegger e Gadamer. […] Questa ripresa della problematica aristotelica della phronesis può andare in parallelo con il recupero di una tematica fondamentale kantiana: quella del giudizio riflettente21.

20 I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 451-453.

Per comprendere maggiormente l'incrocio del sentiero aristotelico con quello kantiano, dobbiamo andare a definire meglio questa saggezza pratica, che deve tenere conto sia dell'unicità del caso sia del contesto situazionale in cui si trova, per poter avere i riferimenti universali più adatti a portata di mano. Prima di entrare completamente nelle opere di Arendt e Ricoeur, ci preme menzionare due tratti preliminari del giudizio: la funzione dell'intelletto e la comunicabilità con gli altri soggetti. Per quanto riguarda il primo, possiamo riprendere il brillante testo di Ferrarin, dove si legge che:

L'intelletto in queste funzioni è la capacità di cogliere il significato della situazione pratica in tutti i suoi risvolti e la sua importanza. Ma è ovvio che per poter fare ciò l'intelletto deve poter comprendere il particolare alla luce di un fine o di una considerazione sulla sua portata generale, considerazione che è intrisa di presupposti valutativi e credenze intrecciate in un sapere, e pertanto invoca la prospettiva soggettiva, e con questa la qualità etica, della persona che giudica. Null'altro che questo è il sapere pratico aristotelico: non tanto un commisurare il particolare all'universale, o la sussunzione dell'uno sotto l'altro, quanto un'interpretazione del particolare come il particolare di un certo tipo, di una certa forma, che per l'intelletto pratico significa uno scopo buono da perseguire, e quindi motiva ad un'azione. Specificamente è la phronêsis a mediare tra una percezione intelligente del particolare e un fine che mi propongo come uno scopo. Poiché il ragionamento ha a che fare con inferenze generali, ma qui abbiamo bisogno di una comprensione del singolo22.

In merito a questo passaggio, teniamo ben a mente la correlazione fra giudizio e scopo da perseguire, poiché essa ci sarà utile quando tratteremo l'ambito dell'epistemologia medico-psichiatrica, in particolar modo dal punto di vista bioetico. Mentre per quanto riguarda il tema della comunicabilità, vale la pena riprendere le pagine di Silvia Maron, quando scrive che:

Il giudizio singolare per poter essere pensato non abbisogna della collettività sociale, ma affinché si renda possibile una comunicazione universale di tale giudizio si rende necessario un contesto sociale costituito

da soggetti che siano in grado di recepire e comunicare a loro volta i propri giudizi. C’è bisogno in altre parole, di una comunicazione reciproca. Il confronto con gli altri soggetti si rende un passaggio obbligatorio per qualsiasi uomo appartenente alla comunità sociale, con la grande libertà, tuttavia, di poter considerare la società come “pietra di paragone” e non di inciampo per la formulazione di giudizi rivestiti di portata universale23.

I due contributi che abbiamo appena menzionato, oltre ad essere ricchi di riferimenti, chiamano in causa la socialità e la condotta in vista di un fine buono, quindi abbiamo a che fare con una tematica politica per un verso e prettamente etica dall'altro, ed è proprio su questi temi che spazia l'opera di Hannah Arendt che prendiamo ora in esame.