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La situazione politica alla fine del XX secolo

Tra il 1980 ed il 1989 il mondo delle relazioni internazionali venne stravolto da avvenimenti che, solo pochi anni prima, sarebbero stati difficilmente prevedibili.441 La caduta del regime comunista, l’unificazione della Germania, l’allargamento della Nato e “l’ulteriore liberalizzazione dei mercati”442, rappresentarono gli eventi più ricchi di conseguenze di quegli anni.

Nel 1989 il crollo del muro di Berlino pose formalmente fine alla Guerra Fredda e diede l’avvio al processo di dissoluzione della superpotenza sovietica. La fine del cosiddetto “impero del male”443 venne vissuto diversamente sulle due sponde dell’Oceano Atlantico, dagli Stati Uniti e dall’Europa.

La Casa Bianca ed il popolo americano avevano affrontato la Guerra Fredda come “una crociata”444, mentre gli Stati europei avevano imparato a convivere con l’impero sovietico, anche grazie ai partiti comunisti che si erano affermati nelle singole Nazioni. Il confronto, secondo gli europei, era stato più di carattere politico che militare.445 Con la fine della Guerra Fredda iniziarono a cambiare i valori e la società europea si diversificò sempre più da quella americana. In America prevalse l’individualismo e, con l’avvento del neoconservatorismo, si avvantaggiarono solo alcune classi sociali. Prevalse anche una visione pessimistica del futuro, sostenuta da teorie come quella proposta da Huntington446: “lo scontro delle civiltà”.447 Gli Stati Uniti riscoprirono l’unilateralismo politico e svilupparono quella che Mammarella definisce la

441 Giuseppe Mammarella, Destini incrociati…, op. citata, pg. 237 442 Ivi, pg. 238

443

Ronal Reagan citato in Giuseppe Mammarella, Europa e Stati Uniti…, op. citata, pg. 9 444 Giuseppe Mammarella, Europa e Stati Uniti…, op. citata, pg. 9

445 Ivi, pg. 9

446 Samuel Huntington, politologo statunitense e professore ad Harvard, fondatore di Foreign Policy 447

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“visione imperiale”448, dovuta alla consapevolezza di essere l’unica superpotenza rimasta, e per

di più dotata di un apparato militare ineguagliabile. Sul bipolarismo erano stati costruiti i rapporti di potenza di tutti gli Stati nelle varie aree del mondo e su di esso era stata fondata la capacità di prevenzione dei conflitti regionali.449 La minaccia sovietica era stata uno degli elementi che avevano indotto gli Stati europei ed asiatici ad accettare l’egemonia americana ed il grado di protezione e di sicurezza che gli USA avevano offerto. Con la fine della Guerra Fredda avvenne un vero e proprio cambiamento strutturale delle relazioni internazionali: terminò l’epoca del confronto bipolare e si aprì un’epoca unipolare dominata dagli Stati Uniti. Molti ritenevano che, venendo meno la minaccia, si sarebbero allentati i rapporti fra gli Stati Uniti ed i partner europei ed asiatici.450 Delle due grandi strategie del Ventesimo secolo, una, il contenimento di stampo realista, attuata attraverso i principi della deterrenza e dell’equilibrio di potenza,451 per effetto della dissoluzione dell’Unione Sovietica, si era semplicemente svuotata del significato originario, pur continuando a dare “stabilità nelle relazioni fra Russia, Cina e l’Occidente”.452

L’altra “grand strategy”453 di ispirazione liberale, elaborata negli anni Quaranta da Roosevelt e da Truman per ricostruire il sistema economico mondiale ed evitare le crisi degli anni Trenta, doveva ancora essere sperimentata in condizioni diverse dal bipolarismo classico.454 L’Europa, invece, proseguì il percorso di sviluppo di un programma di welfare e si aprì agli ex-paesi comunisti, compresa la Russia, con la quale stipulò accordi di collaborazione. Nell’ultimo scorcio del Ventesimo secolo, i grandi Stati europei, come anche la superpotenza statunitense e i paesi emergenti, quali la Cina ed il Giappone, non furono in grado di ridefinire le priorità della politica internazionale, né di individuare le strategie necessarie per affrontare la

448 Ivi, pg. 12

449 Mario del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pg. 398 450

G.John Ikenberry, America senza rivali?, Bologna, Ed. Il Mulino Contemporanea, 2004, pg. 19 451 Ivi, pg. 108

452 Ivi, pg. 109 453 Ivi, pg. 110 454

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nuova fase post-bipolare. L’Europa non riuscì a presentarsi sulla scena internazionale unita e dotata di un’unica voce, mentre paesi che avrebbero potuto fare la differenza, come la Cina, si limitarono al ruolo di osservatori, a causa dei grandi cambiamenti interni che stavano affrontando.

Nei circoli politici e sui media si aprì un dibattito sul destino dell’America e del mondo nel dopo-Guerra Fredda. I “declinisti”455 ritenevano che anche gli Stati Uniti stessero soffrendo di un declino egemonico, a causa della loro scarsa crescita economica e della mancanza di competitività dei loro prodotti high-tech, della delocalizzazione di molti settori industriali e della crisi del manifatturiero, dell’incremento del loro tasso di indebitamento e degli alti costi della “sovra-estensione imperiale”.456

Il crollo dell’Unione Sovietica sembrava quindi preludere ad un destino analogo dell’America. Lo scenario internazionale post-Guerra Fredda avrebbe certamente mutato gli equilibri di potenza fra gli Stati più forti e quelli minori457 e i sostenitori dell’ipotesi declinista ritenevano che le potenze emergenti sarebbero state principalmente il Giappone e la Repubblica Federale Tedesca.458 Le modalità con le quali venne gestita la riunificazione dei due Stati tedeschi innescò un lungo periodo di crisi economica in Germania, che sembrò smentire nei fatti l’ipotesi di un’affermazione dell’egemonia tedesca nel breve periodo.459 Alla corrente di pensiero declinista, si contrapponeva quella “realista”,460 che, nella fine del bipolarismo, leggeva il ritorno alla normale evoluzione storica di tipo anarchico,461 fatta di pluralismi, di alleanze mutevoli e di equilibri di potenza instabili e cangianti. Fra i realisti, alcune correnti di pensiero “inizialmente minoritarie”462

ritenevano che il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda indicassero la conclusione della storia e l’affermazione

455 Mario del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pg. 398 456 Ivi, pg. 399

457 G.John Ikenberry, America senza rivali?,op. citata, pg. 41 458

Mario del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pg. 398 459 Ivi, pg. 402

460 Ivi, pg. 399

461 G.John Ikenberry, America senza rivali?, op. citata, pg. 5 462

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univoca ed irreversibile del liberalismo e del capitalismo di stampo americano, come modello economico e sociale sul quale organizzare le società del futuro. L’Occidente e la leadership americana non avrebbero più avuto competitor, le guerre sarebbero andate via via scemando e la pace avrebbe ovunque regnato sovrana.463 “Da più parti”464 giungevano apprezzamenti sul modello americano, fondato sul multilateralismo e sul consenso, che aveva prodotto un’egemonia “soft”465

ed “efficace”.466 Ma giungevano anche critiche sui costi prodotti dalla Guerra Fredda: la militarizzazione della società, la corsa agli armamenti e l’inasprimento dei “conflitti regionali”.467

In risposta al dibattito in corso, nei primi anni Novanta, il Presidente George H. Bush, “proclamò prossimo l’avvento di un nuovo ordine internazionale … in cui sarebbe prevalso il principio di legalità e non la legge della giungla , […] in cui le Nazioni Unite, finalmente libere dai vincoli della Guerra Fredda, avrebbero potuto usare il proprio ruolo pacificatore ,

per realizzare la visione e la promessa dei loro fondatori ”.468

Nonostante il discorso facesse aperto riferimento alle categorie neo-wilsoniane classiche, Bush senior non riteneva terminata la storia, e prossima o auspicabile una radicale trasformazione degli equilibri internazionali. La sua formazione politica risaliva all’epoca della Guerra Fredda e non gli consentiva di abbandonare molti dei topoi del bipolarismo.469 La prima crisi che il Presidente repubblicano dovette affrontare riguardò il destino dei paesi dell’Europa dell’Est, dopo la dissoluzione dell’impero sovietico e la volontà espressa dalla Repubblica Federale Tedesca di riunirsi alla Germania dell’Est. La nascita di una Germania più grande e potente avrebbe potuto alterare gli equilibri di forza intra-europei, indebolire eccessivamente l’URSS e produrre recrudescenze

463 Ivi, pg. 399 e 400 464 Ivi, pg. 400 465 Ibidem 466 Ibidem 467 Ibidem 468 Ivi, pg. 401 469 Ibidem

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nazionalistiche in Germania. Pertanto Bush richiese una revisione strategica della NATO e l’impegno a non trasferire truppe militari verso l’Est europeo, per non inasprire i rapporti con l’Unione Sovietica. Washington concesse aiuti economici all’ex URSS, ma non in quantità sufficiente per cogliere la grande opportunità di trasformare “quella parte del mondo in una società aperta”470 . Il 12 settembre 1990, fra Germania, USA, URSS e Gran Bretagna, a cui si aggiunse la Francia, fu stipulato un Accordo, mediante il quale i vincitori della Seconda guerra mondiale rinunciavano ai loro diritti e alla Germania riunita era riconosciuta la piena sovranità.471 La “nuova architettura”472 dell’Europa, descritta dall’allora segretario di Stato James Baker, mostrò la propria debolezza quando, a seguito della dissoluzione dell’URSS, si assistette al riemergere di tensioni nazionalistiche e religiose nella regione dei Balcani. Nel 1991, la Slovenia e la Croazia, ex-Federazione jugoslava, proclamarono l’indipendenza e la Serbia mosse loro guerra. Bush fu cauto e conservatore nel gestire il nuovo teatro di crisi, perché pressato da altre priorità, perché Washington non intendeva inasprire i rapporti con Mosca e perché, per la prima volta, si ritenne che la Dottrina Nixon potesse essere applicata anche nel teatro europeo. Alla decisione di considerare l’Europa l’interlocutore naturale per la risoluzione del conflitto473 concorse anche l’atteggiamento dell’opinione pubblica americana, più preoccupata per la crisi economica in atto in Patria, che per le questioni di politica internazionale.474

Contemporaneamente alla crisi dei Balcani, si aprì un teatro di crisi nel Golfo Persico. Nell’agosto del 1990, l’Iraq invase il Kuwait. Saddam Hussein intendeva assumere la leadership del mondo arabo ed appropriarsi delle risorse petrolifere kuwaitiane, così da acquisire gli introiti necessari per ripianare il pesante indebitamento conseguente alla lunga

470

George Soroso, economista, citato in Giuseppe Mammarella, Europa e Stati Uniti…, op. citata, pg. 39 471 Mario del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pg. 402

472 James Baker citato in ivi, pg. 403 473 Ibidem

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guerra contro l’Iran. Bush definì le azioni di Saddam come un attacco all’American way of life e strutturò le azioni necessarie per impedire che il dittatore potesse impadronirsi delle risorse petrolifere del Kuwait. Definire il nemico una minaccia ai valori americani fu, un decennio più tardi, un clichè spesso utilizzato, soprattutto da Bush jr, per giustificare determinate azioni americane.475

Per risolvere la crisi del Golfo Persico l’amministrazione Bush senior, nel rispetto delle dichiarazioni del Presidente circa il nuovo ordine mondiale ed il ritorno ad un multilateralismo univoco, si appellò alle Nazioni Unite e promosse la costituzione di una vasta coalizione militare. Ciò, di fronte alla comunità internazionale, avrebbe conferito legalità e legittimità all’intervento armato e natura multilaterale e consensuale all’azione contro, venne dichiarato, Saddam Hussein, non contro il popolo iracheno. Le Nazioni Unite approvarono svariate risoluzioni che condannavano l’operato del dittatore iracheno e trenta paesi aderirono alla coalizione a netta preponderanza e a guida statunitense. “Il 16 gennaio 1991, l’operazione Tempesta nel deserto prese il via”,476 liberò il Kuwait e, dopo un mese e mezzo di combattimenti, alla fine di febbraio, Bush poté annunciare la fine della guerra, che era stata lampo e tele-trasmessa. Il rapido ed efficiente trasferimento delle truppe e degli indispensabili supporti logistici, la conduzione dei bombardamenti contro obiettivi esclusivamente militari , che vennero, dalla stampa internazionale, definiti chirurgici e pressoché privi di indesiderati effetti collaterali, mostrarono al mondo la straordinaria potenza militare e tecnologica dell’America. A buon diritto, Paul Kennedy, nel 2002, poté scrivere: “[…] non è mai esistito nulla come questa disparità di potenza; nulla. Ho rivisto tutte le statistiche degli ultimi 500 anni sulle spese della difesa comparate e sul personale militare […] nessun altra nazione nella storia si avvicina”.477 In America, vennero entusiasticamente celebrati la vittoria ed il

475 Giuseppe Mammarella, Europa e Stati Uniti…, op. citata, pg. 18 476 Mario del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pg. 405

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superamento “della sindrome del Vietnam”,478 sindrome che aveva condizionato e limitato la leadership statunitense e provocato il rigetto della guerra.479 L’amministrazione Bush non reputò opportuno il proseguimento delle operazioni militari in territorio iracheno fino all’occupazione di Baghdad e all’abbattimento del regime di Saddam Hussein, per non andare unilateralmente oltre il mandato conferito dalle Nazioni Unite, per non destabilizzare l’area del Golfo Persico, perché gli Stati Uniti non fossero costretti a diventare una “potenza occupante in un territorio fortemente ostile”,480 e perché la Casa Bianca sperava che Saddam, dopo la schiacciante sconfitta, venisse destituito. La Dottrina Powell, applicata alla Prima guerra irachena, fu il nuovo modello di guerra che l’America elaborò nel dopo-Guerra Fredda. Essa prevedeva il ricorso alla guerra solo contro “un nemico ben definito, con regole d’ingaggio tempi d’azione e strategie d’uscita precisati in anticipo, evitando di impegnarsi in vaghe operazioni di peacekeeping dalla durata imprevedibile”.481

Nel frattempo, nei Balcani si assistette ad un’escalation di violenze ed al coinvolgimento della Bosnia nella guerra civile. Per difendere le aree protette istituite dall’ONU e per prevenire i massacri di civili, le Nazioni Unite affidarono a truppe europee una missione peacekeeping, che si dimostrò drammaticamente inefficace.482 Fino alla prima metà degli anni Novanta, le amministrazioni Bush e Clinton non accettarono responsabilità dirette nei Balcani e non adottarono in quell’area una politica estera univoca. Nella gestione della crisi, non solo la Comunità europea, ma anche l’ONU, contrariamente alle aspettative wilsoniane riproposte da Bush senior, si dimostrarono incapaci di adempiere alle proprie funzione.483 Favorita dalla crescita economica e dall’appoggio di alcuni leader europei, fra cui il primo ministro britannico Tony Blair, nel 1994 l’amministrazione Clinton si assunse l’onere di risolvere il conflitto nei

478 Ivi, pg. 405 479 Ibidem 480 Ivi, pg. 406 481 Ivi, pg. 404 482 Ivi, pg. 412 483 Ivi, pg. 416

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Balcani. Il rinnovato interventismo americano si avvaleva di un minore consenso internazionale, dell’appoggio di singoli Stati da conseguirsi tramite rapporti diplomatici bilaterali e si fondava su una minore legalità, che, riducendo il ruolo universalista ad esso affidato, faceva dell’ONU un semplice luogo di ratifica delle decisioni americane,484

come già era avvenuto ai tempi della guerra di Corea. Sull’esempio di Carter, la tutela dei diritti umani fu nuovamente iscritta nell’agenda del Presidente democratico Clinton, quale priorità degli Stati Uniti; e anche l’amministrazione Clinton, come già quella Carter, perseguì l’obiettivo di tutelare i diritti umani in forma selettiva e con esiti spesso ambigui. Il nuovo interventismo americano nei Balcani trovò occasione di imporsi e fu ritenuto auspicabile dopo il massacro di civili, avvenuto nella città di Srebrenica.485 Il riferimento all’appeasement degli anni Trenta, tema che da sempre ha condizionato le scelte in politica estera degli Stati Uniti, fu esplicitato e Clinton dichiarò che “l’acquiescenza non era più un opzione”.486

“Fu tolto l’embargo sulla vendita di armi alla Bosnia”,487 “l’esercito croato, riarmato dagli USA e addestrato anche da esperti statunitensi”,488 mosse contro l’area serba e la NATO lanciò “raid aerei contro le postazioni serbe”.489 Con gli Accordi di Dayton fu autorizzata nei Balcani la presenza di un contingente multinazionale a guida statunitense, le cui competenze, nel 2004, passarono dalla NATO all’Unione Europea e la cui permanenza nell’area, contraddicendo la Dottrina Powell, si protrasse ben oltre le aspettative iniziali. Intanto nel Kosovo si andava inasprendo un nuovo teatro di crisi, che fu affrontato in forma preventiva, anticipando in qualche modo la strategia di preemtion, attuata successivamente dal Presidente W. Bush contro il terrorismo di matrice islamica. Nel 1998, “il Consiglio atlantico autorizzò la NATO ad elaborare dei piani per il

484 Ivi, pg. 415

485

Ivi, pg. 416

486 Clinton citato in Ibidem 487 Ibidem

488 Ibidem 489

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bombardamento preventivo di obiettivi serbi”.490 I bombardamenti aerei divennero sempre più massicci e, quando la Russia si dichiarò indisponibile a sostenere il regime di Miloševic, la guerra ebbe termine. Al fine di proteggere le democrazie emergenti nell’Europa orientale, nel 1999, riconosciuta l’incapacità della Comunità europea di favorire la pace e la tutela dei diritti umani in Europa, l’America promosse l’espansione della NATO verso Est, in sintonia con la Dottrina clintoniana dell’enlargement,491

che sostituiva con l’allargamento il contenimento della Dottrina Truman e che riaffermava una strettissima interdipendenza fra espansione della democrazia e sicurezza globale. Nel 1999 l’entrata della Polonia, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia nella Nato causò tensioni nei rapporti diplomatici fra Stati Uniti e Russia, perché la Casa Bianca aveva disatteso le rassicurazioni circa il non allargamento della Nato oltre i confini della Germania fatte la precedente Presidente Bush.492

L’esito drammatico della situazione somala indusse Washington a riportare in auge la Dottrina Powell e a modificare la strategia di risposta americana alle crisi umanitarie. In Somalia, l’amministrazione Bush senior allo scadere del mandato aveva avviato una missione, proseguita da Clinton, per risolvere l’emergenza umanitaria venutasi a creare dopo la caduta del regime di Siad Barre. Nell’ottobre del 1993 caddero in battaglia diciotto soldati americani, i cui corpi mutilati furono branditi come trofei dai miliziani ed esibiti lungo le strade di Mogadiscio. Le ultime truppe americane furono ritirate dalla Somalia entro il 1993 ed il segretario della Difesa Les Aspin presentò le dimissioni. Il coro di proteste che si levò in America, nel Congresso e fra l’opinione pubblica fu unanime, e preparò il terreno, o anticipò, la svolta neo-cons che si ebbe alla Casa Bianca dopo l’11 settembre. Il senatore repubblicano Mitch McConnell affermò: “Il multilateralismo strisciante è morto nelle strade di Mogadiscio”,493 ed il senatore democratico Robert Byrd aggiunse che “si poneva finalmente termine a questa immagine delle Nazioni

490 Ivi, pg. 417

491 Ivi, pg. 401, pg. 408

492 Giuseppe Mammarella, Europa e Stati Uniti…, op. citata, pg. 47 493

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Unite che tengono al guinzaglio gli Stati Uniti”.494 Quando in Ruanda si assistette al genocidio della popolazione hutu ad opera dei tutsi, Washington si rifiutò di guidare una coalizione internazionale e delegò all’Europa e alle Nazioni Unite la risoluzione della crisi.495

L’interventismo umanitario a tutela dei diritti umani incontrò, nei primi anni Novanta, il plauso di larga parte della comunità internazionale, ma non fu immune da critiche. Iniziò il dibattito sul tema della guerra giusta e si sostenne che una guerra davvero giusta richiedesse di mettere in campo e di rischiare la propria vita, a differenza di quanto fatto per risolvere i conflitti della fine del Millennio, la Bosnia-Serbia-Croazia, il Kosovo e soprattutto l’Iraq, che videro il massiccio impiego di raid aerei e di forze militari che operavano a distanza di sicurezza, grazie ad equipaggiamenti sofisticati.496

Alla crisi economica americana dei primi anni Novanta, che aveva indotto Clinton in campagna elettorale ad adottare lo slogan “It’s the economy, stupid”,497 seguì un periodo di importante e prolungata crescita economica, cui contribuirono gli alti consumi e la bassa inflazione, realizzata grazie alla politica monetaria dell’allora Governatore della FED, Allan Greespaine.498

La politica economica di Reagan, fatta di deregulation, di riduzione della pressione fiscale e di svalutazione morbida del dollaro, aveva già preparato le condizioni necessarie alla crescita economica, ed era stata favorita dalla politica di Clinton, fatta di maggior apertura alla Cina e alle sue merci a basso costo. Fra il 1995 ed il 2001 si intensificarono gli scambi commerciali fra l’America e la Cina, che migliorò la composizione merceologica del proprio export e che, nel 2003, divenne il secondo esportatore degli USA, superando il Messico. Nel 2000 il Senato statunitense votò con un’ampia maggioranza a favore della normalizzazione permanente delle relazioni commerciali con la Cina, e Washington sollecitò e favorì l’ingresso del paese asiatico

494 Robert Byrd citato in: Ivi, pg. 411 495 Ibidem

496 Ivi, pg. 418

497 Clinton citato in ivi, pg. 407 498

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nell’Organizzazione mondiale del commercio.499

La presenza sui mercati di grandi investitori stranieri sostenne i crescenti livelli dell’indebitamento pubblico e privato statunitense. Tali investitori erano attratti dalle possibilità di lucro offerte dalla lunga e felice congiuntura economica americana.500

Negli anni Novanta, gli Stati Uniti tornarono a dominare la scena internazionale e la loro leadership sembrava non avere alternative o competitori credibili, come ben evidenziava il discorso che il ministro degli Esteri francese, Hubert Védrine tenne nel 1999: “Oggi gli Stati Uniti dominano a livello economico, a livello monetario, a livello tecnologico, e in campo

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