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Agli inizi degli anni ’70, sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica stavano affrontando un periodo di profonda crisi. La Casa Bianca doveva risolvere gravi problemi economici, una crisi politico-militare legata al Vietnam ed una crescente difficoltà nel mantenere coeso lo schieramento occidentale. La Francia di de Gaulle aveva intrapreso, negli anni ’60, la propria force de frappe ed era uscita dalla NATO; la Germania con Brand, attraverso l’Ostpolitik, ravvivava i timori americani di neutralismo e di possibilità del de-coupling degli Stati dell’Europa Occidentale, ovvero il tentativo sovietico di creare una divisione tra Europa Occidentale e Stati Uniti. L’Unione Sovietica, dal canto suo, doveva affrontare una crisi di egemonia. Nel 1968, con un intervento militare aveva soffocato la Primavera di Praga e proclamato la Dottrina Breznev, che prevedeva l’irreversibilità del socialismo, e ciò implicava la volontà dell’URSS di mantenere la sua sfera di influenza politico-militare, anche attraverso l’uso della forza. Negli ultimi anni ’60, inoltre, la rivalità tra Cina ed Unione Sovietica era cresciuta a dismisura. La Cina di Mao stava assumendo rilevanza nel panorama internazionale ed era interessata ad avviare rapporti diplomatici con l’Occidente, aveva raggiunto la parità strategica missilistica, ma stava affrontando una profonda crisi economica interna. Il nuovo panorama internazionale avrebbe sicuramente apportato grandi cambiamenti nell’elaborazione della diplomazia statunitense.143

L’America di Nixon stava vivendo un periodo di cambiamenti su molti fronti: economico, politico e sociale. Il primato economico statunitense, conquistato al termine della seconda Guerra Mondiale, aveva permesso a Truman di aiutare, attraverso il Piano Marshall, molti Stati colpiti dalla guerra, ma negli anni andò via via scemando. L’economia americana continuò a

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crescere e, tra il 1961 ed il 1969, il PIL aumentò in termini assoluti dell’80%, pari al 50% al netto dell’inflazione. Ma crebbe anche ed in misura superiore il PIL di altri paesi e crebbero quasi del doppio quelli della Germania Federale e del Giappone. La competizione intercapitalistica aveva prodotto la riduzione della quota di esportazione dei prodotti manifatturieri statunitensi e pareva mostrare “una diminuzione della sua competitività relativa”.144 L’egemonia statunitense si era basata sul consenso, sulla negoziazione della leadership e sulla forza di attrazione del modello capitalistico e politico statunitense. Col tempo si affermarono forme capitalistiche alternative, per esempio quella basata sul welfare della Germania federale e quella corporativa e statalista giapponese. Come sostennero Rostow e i liberal modernizzatori, le teorie americane dello sviluppo, anche per effetto della drammatica vicenda del Vietnam, furono contestate o rigettate ed il mondo fu attraversato da forme “neutraliste, anticapitaliste, terza forziste, terzomondiste”,145

e dall’antiamericanismo.

Le due amministrazioni democratiche degli anni ’60, erano state caratterizzate dall’adozione del wilsonismo come paradigma per l’elaborazione della politica estera e da ciò che John L. Gaddis ha definito “contenimento simmetrico”146

. Gli USA, per garantirsi la sicurezza, si erano persuasi che il modello americano, democratico e capitalista, dovesse essere esportato in tutti i paesi e che il Terzo Mondo, grazie agli aiuti americani, avrebbe potuto raggiungere lo stadio di sviluppo dell’Occidente. Un approccio che comportava l’impegno, stabile e duraturo, di aiutare le Nazioni meno sviluppate nella loro lotta contro la povertà. Secondo la tradizione wilsoniana, gli Stati Uniti avrebbero dovuto facilitare il progresso degli altri paesi, creare un ambiente favorevole ai mercati e rendere il mondo più sicuro per la democrazia. Nel contesto bipolare, però, il progetto era minacciato dal comunismo, che mirava ad imporsi come modello alternativo e a sottrarre spazi al mondo Occidentale. La fede nel wilsonismo e l’accettazione

144 Mario Del Pero, Libertà e impero…, op. citata, pg. 347 145 Ivi, pg. 349

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delle sue conseguenze, inclusa la teoria del domino, spiega perché le amministrazioni statunitensi avessero abbracciato la strategia della risposta simmetrica: tutti gli interessi erano importanti, tutte le minacce erano pericolose, e per affrontarle era lecito utilizzare ogni mezzo ritenuto necessario. Un approccio che non solo offrì protezione contro le minacce di tipo incrementale, come fu il caso del Vietnam, riuscendo a prevenire le alterazioni dell’equilibrio politico indotte da conflitti periferici, ma permise l’utilizzo di un’ampia gamma di risposte. L’errore dell’amministrazione Kennedy fu di considerare illimitate le risorse e le potenzialità di crescita economica necessarie per finanziare la corsa agli armamenti, e per sostenere qualsiasi livello di spesa militare. Kennedy e Johnson definirono poi l’interesse americano in termini di impegno e di credibilità e ciò li spinse ad impegnarsi su tutti i fronti, ad affrontare tutte le crisi e tutte le possibili minacce.

Il containement aveva come presupposto la superiorità militare, politica e culturale americana rispetto ai competitor, il primo e il più importante dei quali era l’Unione Sovietica. Per quanto concerne il settore militare, l’URSS aveva fatto grandi progressi e ormai sembrava essere stato colmato il gap nucleare. “Se valutata attraverso il parametro storicamente più rilevante – lo hard power – la preponderanza degli Stati Uniti era stata sfidata e vinta”.147

Per Washington divenne evidente che l’intera ideologia sulla quale si era basata la politica estera degli Stati Uniti doveva essere riconsiderata. L’America non poteva più permettersi, dal punto di vista economico-militare, di seguire il modello proposto dall’NSC-68 e la conseguente teoria del domino. Queste teorie avevano spinto gli Stati Uniti ad impegnarsi su più fronti per limitare l’espandersi del comunismo e avevano trascinato la Casa Bianca nella guerra in Vietnam. Washington dovette ammettere l’inapplicabilità di tali strategie, che richiedevano un impegno di risorse umane, politiche ed economiche che nemmeno gli Stati Uniti, grande potenza mondiale, poteva fornire. Era stata la risposta che, andando ad “affrontare la minaccia

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laddove si manifesta”148, per evitare l’escalation e l’umiliazione, aveva prodotto sia l’una sia l’altra. La guerra in Vietnam combattuta per l’opinione pubblica e per la credibilità, non solo divenne fonte di fortissime critiche sul fronte interno, ma causò anche tensioni profonde con gli alleati. Apparve inoltre chiaramente la contraddizione logica e politica della risposta simmetrica e dell’ideologia wilsoniana applicata alla Guerra Fredda e fu proprio la guerra in Vietnam, definita da Hoffman “estrema ma logica, assurda ma inevitabile”,149

a rendere evidente l’illogicità della combinazione composta dal contenimento simmetrico e dal wilsonismo, nella Guerra Fredda. L’ossessione per la credibilità aveva trascinato l’America in una guerra senza precisi obiettivi strategici: si mirava solamente a mantenere le posizioni e ad impedire l’espandersi del comunismo. Kissinger definì la guerra in Vietnam “il primo impegno di politica estera in cui la convinzione morale dell’America contrastava apertamente con ciò che era possibile”.150

Con il Presidente Nixon l’America riconobbe i propri limiti e si impegnò a perseguire i propri interessi, attraverso la politica della distensione che, rappresentando una rottura con il passato, permise di riconquistare il consenso dell’opinione pubblica, senza comunque rinunciare all’obiettivo, ritenuto fondamentale, di un contenimento dell’Unione Sovietica.

148 John Lewis Gaddis, Strategies of containment…, op. citata, pg. 238

149 Stanley Hoffman, Primacy or World Order. American Foreign Policy Since the Cold War, New York Ed McGraw Hill, 1979, pg. 227

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La Dottrina Nixon

La crisi dell’egemonia statunitense rifletteva il generale smarrimento politico e culturale: era una crisi di identità che metteva in discussione certezze antiche e verità fino ad allora non scalfibili. Obbligava a ripensare il ruolo del paese in un sistema internazionale variegato ed imprevedibile, a riadattare la strumentazione della politica estera e a rimodulare il discorso attraverso cui presentare tale politica.151 La strada dell’isolazionismo non sarebbe più stata percorribile nell’era dell’interdipendenza, ma un ripiegamento dagli obblighi globali rischiava di diventare una forte tentazione, che avrebbe reso gli Stati Uniti incapaci di affrontare le nuove sfide e che avrebbe eroso, a vantaggio dell’URSS, il rapporto di potenza bipolare.152

Spesso Nixon si rifaceva alla retorica wilsoniana,: “Abbiamo il destino di dare al mondo qualcosa di più che un esempio, come hanno fatto altre Nazioni nel passato; un esempio di guida spirituale e di idealismo, che nessuna forza materiale o potenza militare può fornire”.153 Condivideva il grande idealismo americano e l’interesse per una politica estera scevra da egoismi, ma era altresì conscio che la situazione contingente, in un contesto internazionale di una complessità senza precedenti, gli chiedeva di ordinare il ritiro da quegli ideali, oppure il loro ridimensionamento.154 Poiché doveva ricostruire il consenso interno e poiché, come lo stesso Kissinger riconobbe, l’amministrazione Nixon fu la prima “a condurre una politica estera senza il consenso della nazione”,155 il Presidente utilizzò una retorica antitetica all’universalismo ottimistico del ventennio precedente, rappresentato in forme diverse dall’NSC-68 e dal modernismo kennediano. La strategia della distensione incontrò l’approvazione sul fronte interno ed anche della classe dirigente del paese, i policy makers, fino alla metà degli anni ’70. Fino al 1974, circa il 78% della popolazione americana pensava che il

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Mario Del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pg. 354 152 Ivi, pag. 355

153 Henry Kissinger, L’arte della diplomazia , op. citata, pg 549 154 Ibidem

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processo di distensione dovesse proseguire. Poiché il panorama internazionale era mutato, Nixon face propri i criteri della “sufficienza strategica”156

e abbracciò la teoria della Mutual Assured Distruction. “Il periodo postbellico delle relazioni internazionali si è concluso, ed è compito della mia Amministrazione formulare una nuova politica estera conforme alle esigenze di una nuova era”157A venticinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il Presidente Nixon affermò che era superato il rapporto di forze che si era creato su scala planetaria, in seguito al crollo del Giappone e del Terzo Reich. USA ed URSS rimanevano superpotenze, ma il bipolarismo doveva essere esercitato in un mondo in cui, di fatto, vigeva il multipolarismo di potenza. In sostanza, il consolidamento del Giappone e dell’Europa da un lato, lo scisma in seno al mondo comunista dall’altro e l’affermazione della Cina, come potenza politica e militare autonoma, avevano posto fine “al mondo bipolare del dopoguerra”.158

Ma, a dispetto dei proclami sull’evoluzione multipolare degli assetti internazionali, Nixon e Kissinger mantennero comunque una visione bipolare, convinti che, in termini di potenza e di raggio d’azione, solo l’Unione Sovietica potesse competere con gli Stati Uniti.159

I problemi che Nixon dovette affrontare erano svariati, ma strettamente interconnessi: il riarmo sovietico; le contestazioni interne ed internazionali sulla gestione statunitense della guerra in Vietnam; le difficoltà economiche, che obbligavano ad un ripensamento del modello di Bretton Woods e che imponevano un ridimensionamento del globalismo americano; e l'ascesa di nuovi soggetti politici. La decolonizzazione aveva prodotto la proliferazione degli Stati ed il problema dei nazionalismi, unito alla competizione USA vs URSS, aveva dato a paesi piccoli e deboli un potere contrattuale enorme. Il non allineamento, la neutralità, accompagnata dalla minaccia di uno schieramento sempre possibile con l’avversario, fu la strategia in politica estera adottata da

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National Security Decision Memorandum n.16 “Criteria of Strategic Sufficiency”, june 1969, Nixon Archives http://www.fas.org/irp/offdocs/nsdm-nixon/

157 Mario del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pg. 357

158 Giorgio Borsa, L’ipotesi del tripolarismo. Stati Uniti, URSS e Cina, Bari, Edizioni Dedalo, 1975 pg. 353 159

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alcune Nazioni,160 mentre altre, per mantenere la propria autonomia pur vivendo all’ombra delle grandi potenze, scelsero, quale strategia, di denunciare la possibilità del collasso.161 Anche la politica estera attuata da Stati alleati come la Francia aveva dimostrato che non vi era nessuna garanzia che Nazioni democratiche ed economicamente stabili avrebbero sostenuto gli interessi americani, ma, come sottolineò Kissinger, l’evolversi delle situazioni avrebbe potuto indurre grandi Stati, come la Cina, con ideologie e principi diversi da quelli americani, ad avvicinarsi agli Stati Uniti: “even the former Red-baiter and the crusaders for world devolution could find each other”.162

Nixon fu obbligato ad effettuare un cambio di prospettiva e ad elaborare una nuova strategia politica,163 che fu il risultato del suo pragmatismo e della sua rigidità ideologica, uniti all’approccio del segretario di Stato, Henry Kissinger, e che si prefisse di rispondere al problema della “national security policy”164. La loro strategia politica combinava la flessibilità tattica delle amministrazioni Kennedy e Johnson, con la coerenza della presidenza Eisenhower, con il definitivo abbandono della tattica adottata in Vietnam e con la ripresa della Dottrina esplicitata da Kennan.165 Lo sforzo di Nixon e di Kissinger per ridefinire forme e strumenti della politica estera americana si indirizzò verso alcuni obiettivi ritenuti fondamentali. Il progetto delle amministrazioni precedenti era stato difendere la libertà e salvaguardare le diversità in un mondo considerato sempre più pericoloso, ma ciò aveva indotto gli Stati Uniti a considerare ogni interesse vitale e tutte le minacce pericolose, e a sostenere maggiori costi, crescenti tensioni ed una globalizzazione indiscriminata.166 Secondo Kissinger, le amministrazioni precedenti avevano perso la visione globale ed internazionale dei fatti e si

160 John L. Gaddis, La Guerra fredda…, op. citata, pg. 135

161 Bruno Bongiovanni, Storia della Guerra fredda…, op. citata, pg. 108 162

Kissinger in John Lewis Gaddis, Strategies of Containment…, op. citata, pg 277 163 Mario Del Pero, Libertà e Impero…, op. citata, pag.355

164 John Lewis Gaddis, Strategies of Containment…, op. citata, pg 273 165 Ibidem

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erano concentrate solo sulle singole vicende. Era stata la strategia che aveva indotto la leadership politica a non tenere in sufficiente considerazione le interconnessioni tra intenzioni e conseguenze, tra cause ed effetti: “Problems are segmented into constituent elements, each of which is dealt with by experts in the special difficulty it involves. There is little emphasis or concern for their intern-relationship […]” .167

Il mutamento degli equilibri internazionali consentì al Presidente di introdurre il concetto chiave della sua strategia: l’intenzione degli Stati Uniti di perseguire i propri interessi ed il progressivo disimpegno americano dai teatri internazionali, in particolar modo dal conflitto vietnamita. Tale concetto fu formalmente definito Dottrina Nixon.

Il 25 luglio 1969, all’inizio di un viaggio diplomatico che lo avrebbe condotto dal Sudest asiatico alla Romania, Nixon fece tappa a Guam, per assistere all’ammaraggio nel Pacifico degli astronauti scesi sulla luna ed espose ai giornalisti presenti i principi che avrebbero guidato la sua politica estera. Sebbene il progetto fosse già nelle grandi linee delineato, non era ancora stata scelta l’occasione per presentare la Dottrina Nixon e l’insolita platea, fra la sorpresa dei collaboratori, Kissinger compreso, divenne la prima cassa di risonanza. La Dottrina venne meglio elaborata e presenta in un discorso del novembre 1969 e poi esposta nel febbraio del 1970, in occasione del rapporto annuale del Presidente sulla politica estera.168

“[…] the question facing us today is: Now that we are in the war, what is the best way to end it?

[…]For the future of peace, precipitate withdrawal would thus be a disaster of immense magnitude.

[…] It would not bring peace; it would bring more war.

For these reasons,[…] I chose instead to change American policy on both the negotiating front and battlefront.

167 Kissinger citato in John Lewis Gaddis, Strategies of Containment…, op. citata, pg. 274 168

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In order to end a war fought on many fronts, I initiated a pursuit for peace on many fronts. […] I laid down in Guam three principles as guidelines for future American policy toward Asia:

--First, the United States will keep all of its treaty commitments.

--Second, we shall provide a shield if a nuclear power threatens the freedom of a nation allied with us or of a nation whose survival we consider vital to our security.

--Third, in cases involving other types of aggression, we shall furnish military and economic assistance when requested in accordance with our treaty commitments. But we shall look to the nation directly threatened to assume the primary responsibility of providing the manpower for its defense. […]169”

Nixon delineò le regole dell'intervento statunitense nel mondo ed il rapporto degli Stati Uniti con gli alleati al di fuori dell’ambito NATO, allo scopo di segnalare che gli Stati Uniti si sarebbero aspettati dai propri alleati extra-europei una maggiore partecipazione alla difesa e che gli interventi diretti americani sarebbero stati notevolmente ridotti.

La Dottrina Nixon si basò su tre concetti fondamentali:

 Gli Stati Uniti avrebbero mantenuto fede agli impegni assunti con i Trattati stipulati con i loro alleati.

 In caso di minaccia da parte di una potenza dotata di arsenale atomico, avrebbero fornito protezione nucleare solo agli alleati, o alle Nazioni la cui sopravvivenza fosse stata ritenuta vitale per la sicurezza americana.

 Gli Stati Uniti avrebbero fornito aiuti economici e militari ai propri alleati, ma i paesi aggrediti avrebbero dovuto assumersi la responsabilità della propria difesa diretta.

 Gli Stati Uniti non avrebbero più seguito la linea politica fino ad allora adottata e avrebbero preteso maggiore indipendenza dai loro alleati asiatici.

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“ […] I think that one of the weaknesses in American foreign policy is that too often we react rather precipitately to events as they occur. We fail to have the perspective and the long-range view which is essential for a policy that will be viable. [...]

[…] But as far as our role is concerned, we must avoid that kind of policy that will make countries in Asia so dependent upon us that we are dragged into conflicts such as the one that we have in Vietnam. […]

[…] If the United States just continues down the road of responding to requests for assistance, of assuming the primary responsibility for defending these countries when they have internal problems or external problems, they are never going to take care of themselves.[...]”.170

Fu poi Kissinger ad ampliare il discorso di Nixon, sottolineando come gli Stati Uniti avrebbero partecipato alla difesa degli alleati e mantenuto gli impegni assunti, ma non avrebbero più potuto, o voluto, partecipare a tutti i piani di difesa ed elaborare tutti i programmi di aiuti, per soccorrere tutte le Nazioni libere del mondo.171 Da un discorso delle possibilità Nixon e Kissinger passarono ad un discorso dei limiti, che si poneva in contrasto con l’enfasi sul destino manifesto e sulla missione degli Stati Uniti. Enfasi che, proprio a partire da Truman, le amministrazioni precedenti avevano sempre sottolineato, per presentare all’opinione pubblica le scelte di politica estera.172

Nel tentativo di sfuggire ad un altro Vietnam, venne sviluppata una Dottrina che mirava soprattutto ad evitare situazioni analoghe, che risultarono poi essere molto poche.173 Tuttavia essa ebbe il pregio di trasformare la questione del Vietnam in problema di sicurezza interna del paese direttamente coinvolto,174 vincendo, quindi, il pregiudizio dell’annosa convinzione del

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Nixon in Informal remarks in Guam with newsmen, 25 luglio 1969 www.presidency.ucsb.edu 171 John Lewis Gaddis, Strategies of Containment…, op. citata, pg 296

172 Mario del Pero, Libertà e Impero op. citata, pg. 356

173 Henry Kissinger, L’arte della diplomazia…, op. citata, pg. 551 174

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domino, secondo cui una singola sconfitta si sarebbe trasformata in una sconfitta ovunque. E diede alla vitnamizzazione giustificazione morale e ragion d’essere.

Il passo fondamentale da compiere per dare attuazione alla Dottrina era ammettere la multidimensionalità del potere: non esisteva più un solo indice di misura per determinare il potere di influenza di uno Stato; non si poteva più contare solo sulla superiorità militare, o economica, o sulla forza della propria ideologia. Kissinger inoltre sottolineò che a complicare il

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