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Il desiderio come motivo dominante e motore del racconto narrativa produce una narrativa che si potrebbe definire “individualistica” e “soggettiva”, frutto delle nuove preoccupazioni teoriche e umanistiche che riempivano il dibattito, non solo accademico, della Cina postmaoista.

Nei primi anni dopo la Rivoluzione Culturale la prima preoccupazione degli autori interessati alla ricostruzione della mascolinità fu di curare la propria impotenza, intesa in senso lato, provocata dal dispotismo maoista. La castrazione simbolica subita dagli uomini cinesi durante il periodo maoista era dovuta all’irregimentazione e alla perdita del ruolo maschile non solo per gli intellettuali, che per tradizione si definiscono potenti in quanto controllori della rappresentazione vicini al potere, ma anche per gli uomini comuni, privati del tradizionale ruolo di detentori del potere decisionale all’interno della famiglia, perché usurpato dal partito, in nome del collettivismo. Per la prima volta nella letteratura cinese (Louie 1991) alla metà degli anni Ottanta alcuni narratori decisero consapevolmente di scrivere le proprie storie nei termini della sessualità maschile.

La liberazione della donna nel periodo maoista era fondata anche sulla riduzione del potere economico e dello status degli uomini, ridotti come tutti a essere degli obbedienti ingranaggi dello Stato. Se non fosse bastato, le riforme e i grandi cambiamenti del periodo successivo non fecero che esacerbare la situazione, aumentando la frustrazione e l’insicurezza degli uomini, che si trovarono a ricostruire il proprio ruolo con gran fatica, assemblando discorsivamente elementi disparati provenienti dal passato, premaoista e maoista, oltre che da luoghi diversi: dalle regioni più arretrate dell’interno della Cina a Paesi ultramoderni al di là del mare. La crisi della mascolinità si fece infatti ancora più acuta con l’apertura alla cultura mondiale e il confronto con figure maschili molto virili come i divi del cinema d’azione (Sylvester Stallone e soprattutto Ken Takakura 高倉健80) che aumentarono così

l’ansiadegli intellettuali cinesi per la ridefinizione della propria immagine maschile in un mondo globale. 81

80 Pseudonimo di Goichi Oda 小田 剛 (1931-2014) fu un idolo del pubblico cinese, soprattutto di quello giovanile negli

anni Ottanta. In particolare il film del 1976 diretto da Jun’ya Satō 佐藤純彌 (1932-) Kimi yo Fundo no Kawa o Watare 君 よ憤怒の河を渉れ tradotto in cinese come «L’inseguimento» Zhuibu 追捕 (in inglese come Manhunt o Dangerous Chase) ebbe un grande successo fra i giovani e impose Ken Takakura come modello della mascolinità più virile (Wang Yu 2006, p. 22).

81 È il «complesso di ansia» youhuan yishi 忧患意识 che attanaglia gli intellettuali per tutto il Novecento fin dalle opere di

Yu Dafu 郁达夫 (1896-1945). Zhong Xueping (2000) fa anche riferimento, come già ricordato nell’introduzione, al «complesso di marginalizzazione» di Kaja Silverman (1992). Entrambi i complessi sono legati alla frustrazione per l’incapacità di essere all’altezza della responsabilità di realizzare il progetto della modernità, vera ossessione per gli intellettuali cinesi per tutto il Novecento.

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Negli anni Ottanta iniziò ad emergere e a diffondersi la formula retorica «lo yin sale e lo

yang declina» yinsheng yangshuai 阴盛阳衰 per descrivere la relativa forza delle donne in

confronto alla debolezza degli uomini e iniziò la ricerca, soprattutto discorsiva, della mascolinità e la sua ricostruzione anche in ambito letterario. Nei primi tempi la rappresentazione che pervase il dibattito e la produzione culturale cinese mostrava gli uomini cinesi come infantili, deboli, immaturi, impotenti ed egoisti, come gli uomini incontrati dalla protagonista di Xunzhao nanzihan di Sha Yexin, delusa nella sua ricerca dell’uomo ideale. Sarà soprattutto la letteratura femminile ad insistere sul tema, ovviamente, e in Zhang Jie, ad esempio ne «L’arca» Fangzhou 方舟 (1981), vengono descritti degli uomini egoisti, volgari e maschilisti, mentre le protagoniste cercano di fondare la propria autostima su valori che non siano stabiliti dallo sguardo e dall’opinione maschile. Il rovesciamento degli stereotipi femminili della moglie e della madre, confinate nello spazio domestico, non rappresenta soltanto la ricerca di un’identità indipendente per le donne, ma è anche una critica alle convenzioni letterarie nella raffigurazione delle donne.82

Tuttavia, anche gli autori maschi descriveranno personaggi maschili spaventati dai loro stessi desideri perché sanno segretamente di non avere la virilità necessaria per perseguirli o realizzarli: pensiamo ad esempio ad alcuni romanzi e racconti di Liu Heng.83 La stessa preoccupazione fa parte anche della discussione della «Letteratura della ricerca delle radici», che cercava di ritrovare i fondamenti dell’identità nazionale e cercava di sostituire la mascolinità collettiva del maoismo con una mascolinità individuale e nazionale per curare il complesso di inferiorità di fronte a certe manifestazioni della mascolinità giapponese od occidentale. La «Ricerca delle radici» era anche la ricerca di una mascolinità originaria, compiuta soprattutto attraverso la riscoperta e la rivalutazione le sue versioni più primitive, non toccate per secoli dal confucianesimo o dal maoismo. La figura del rocker Cui Jian 崔 健 (1961-) o ancor più l’attore Jiang Wen 姜文 (1963-) nel film Hong gaoliang possono essere considerati la risposta cinese ad una mascolinità muscolare e sfrontata proveniente dall’estero e per secoli denigrata nella rappresentazione letteraria cinese come inferiore e

82 Le protagoniste del romanzo sono divorziate e per questo l’«altro» e l’«alieno» in una società fondata sul matrimonio;

esse poi sfidano il dominio patriarcale cercando la propria realizzazione professionale in un mondo prevalentemente maschile e nonostante le umiliazioni subite non rimpiangono la loro vecchia vita (Shen 1992). L’arca è l’immagine del tentativo da parte delle tre donne di trovare rifugio da un mondo burrascoso fatto di insidie, di ostilità e di emarginazione: nel mondo del lavoro infatti vengono trattate come rivali e nemiche dai loro colleghi maschi. La soluzione è la solidarietà femminile e un’amicizia sororale.

Le questioni di genere emergono con forza anche nella produzione poetica: dopo le prime esperienze della Nuova epoca nei primi anni Ottanta si avrà anche una «poesia femminile», inaugurata in particolare da Zhai Yongming 翟永明 (1955-), ricordata soprattutto per una lunga poesia intitolata «Donne» Nüren 女人 (1986).

83 Possiamo citare il già menzionato «Neve nera» Hei de xue 黑的雪 (1988) e «La porta dell’inverno» Dong zhi men 冬之

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subordinata a quella supremamente yang del letterato, ormai anch’egli screditato per la sua complicità con il regime o la sua inefficacia come protettore del popolo.

Nel tentativo di scardinare l’autoreferenzialità del discorso ufficiale e per contestare anche solo ironicamente e indirettamente l’effetto ideologico provocato da tale discorso, il tema della mascolinità divenne nella letteratura del periodo un mezzo per fare fronte a diverse lacune e preoccupazioni, condivise sia dagli intellettuali che dal pubblico. Da un punto di vista prevalentemente politico era necessario superare le narrazioni ancora politicamente inoffensive e strumentali della «Letteratura delle ferite» e provocare una riflessione molto più profonda, che indagasse anche le ragioni profonde delle persecuzioni e delle tragedie occorse nel Novecento cinese, in modo da poterle evitare in futuro. Quindi bisognava superare per prima cosa il trauma personale e collettivo del recente passato elaborandone non solo gli eventi ma anche le cause e rimediando psicologicamente e concretamente ai suoi sintomi: uno degli strumenti terapeutici fu la ricostruzione del ruolo dell’intellettuale e il superamento del «complesso di castrazione» yange qingjie 阉割情结 (Shi 2012, p. 168) che faceva di loro delle personalità ancora non del tutto sviluppate o deformate, perché bloccate nel timore di un padre spaventoso. In secondo luogo, occorreva, nei limiti della contestazione ammissibile, porre in essere un discorso alternativo a quello ufficiale e la mascolinità, soprattutto quella meno “normativa”, quindi più muscolare, incarnava lo spirito ribelle che ancora covava sotto la cenere nell’animo dei «giovani istruiti» zhiqing 知青, educati alla rivolta proprio da Mao. Anche la versione wen della mascolinità poté comunque essere opposta al predominio corporeo e discorsivo del Partito: l’intellettuale dimostra di essere libero di contestare il suo monopolio simbolico della politica perfino durante la rieducazione e di acquisire nel percorso verso la liberazione anche elementi della mascolinità

wu e divenire così un uomo completo, volgendo la rieducazione di massa in una conquista

personale. Inoltre, la mascolinità si inscriveva nel più generale progetto di riedificazione umanistica della cultura cinese, soprattutto in un momento storico in cui si poteva finalmente ridiscutere gli eventi passati e criticare entro certi limiti l’esistente, ossia le riforme economiche, alla cui base sarebbe dovuto esserci principalmente pensiero scientifico. Contro tale deriva scientista e materialista, molti autori rivalutarono l’irrazionalismo e la spontaneità, non solo recuperando il daoismo e il buddhismo chan 禅 come fece Ah Cheng 阿城 (1949-), ma anche la religione delle minoranze come Zhang Chengzhi 张承志 (1948-); in ogni caso, le figure maschili più forti, decise e impavide diventano non solo dei modelli di mascolinità, ma anche esempi di resistenza ad un acritico conformismo e alla continua oppressione del discorso dominante.

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Secondo Yomi Braester (2003) la narrativa è il modo che molti testimoni del periodo della Rivoluzione Culturale potevano opporre al monopolio della ricostruzione storica offerta dalla storia ufficiale: rievocare e rivivere il trauma rielaborandolo nella scrittura romanzesca permetteva di ricostruire anche la propria personalità. Il processo di ricomposizione della personalità, tuttavia, passa spesso per la descrizione di una frantumazione psicologica che trova espressione formale nella moltiplicazione dei punti di vista e nella preliminare scomposizione della percezione, come se il trauma stesso fosse messo in discussione nella memoria personale e collettiva e dovesse coinvolgere anche il lettore nello sforzo di risignificazione degli eventi e dei ricordi. La stessa natura del ricordo deve essere definita: alla memoria si interpone spesso il sentimento, l’invenzione – che non è qui creazione letteraria ma alterazione volontaria o inconsapevole delle esperienze immagazzinate nella memoria – o anche l’oblio. La stessa opera di ricostruzione degli eventi traumatici è necessaria per resistere agli effetti anestetici della violenza, a costo di riviverne tutto il dolore; tuttavia, è importante restare coscienti del presente:

[…] it is in bearing witness to one’s own testimony that one acknowledges one’s experience as fundamentally untestifiable. Herein lies an unresolved paradox – a witness against history cannot exist without paying tribute to the witness for history (Braester 2003, p. 10).

Dopo il 1949 l’unico discorso ammesso fu quello maoista e nessuna testimonianza, resa attraverso il realismo critico nella migliore tradizione di Lu Xun 魯迅 (1881-1936), a cui ancora restavano fedeli i seguaci di Hu Feng 胡風 (1902-1985), poteva essere ammessa poiché poteva rappresentare una pericolosa contestazione del monopolio dell’ortodossia politica. Il modello di Lu Xun è fondamentale, perché egli aveva dimostrato con la pratica letteraria quanto gli intellettuali del Quattro Maggio affermavano nella teoria, e cioè che la storiografia, genere di prosa che nell’epoca classica era ritenuto superiore, dovesse essere sostituita dalla narrativa nella ricerca di una verità più soggettiva ma sicuramente più profonda e più accessibile al grande pubblico, sia per il mezzo espressivo usato (il baihua 白話), sia per il rovesciamento di verità tradizionalmente ritenute indiscutibili. Se nel contatto con la cultura occidentale la letteratura cinese era uscita trasformata, questo valeva anche per la storiografia: essa era divenuta un’attività scientifica volta a dimostrare le leggi del funzionamento e dell’evoluzione della storia mentre la narrativa aveva ricevuto già con

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Liang Qichao 梁啟超 (1873-1929) la funzione didattica della costruzione di una nazione moderna e di cittadini consapevoli.

Nel suo «Il diario di un pazzo» Kuangren riji 狂人日記 (1918) attraverso gli occhi di un folle, forse però molto più lucido dei suoi contemporanei (e in lingua vernacolare), Lu Xun riscrive la storia cinese come la cronaca di una civiltà di cannibali dediti solo a cibarsi (metaforicamente) gli uni degli altri opprimendosi a vicenda e sostenendo un sistema di sopraffazione reciproca. Secondo Henry Zhao (2001) la narrativa cinese riesce con Lu Xun ad emanciparsi definitivamente dalla sottomissione alla storia, con la quale aveva dovuto spesso scendere a compromessi, ad esempio costringendo gli autori di narrativa a mascherarsi da storici per rendere credibili e verosimili le proprie storie.84 La stessa esigenza, o meglio necessità, emerge nelle testimonianze dei sopravvissuti ai traumi del recente passato: la loro esperienza diretta dei fatti assottiglia fino a cancellarla la differenza tra finzione e realtà. Fino a che punto si può parlare quindi di fiction e non di reportage o diario? A partire da Lu Xun «la verità non va ricercata nell’ambito della storia, ma al di fuori di essa, là dove il linguaggio della storia non arriva, cioè sul versante opposto di quanto viene registrato» (Zhao 2001, p. 68); quindi, appena la gerarchia dei generi nel veicolare la verità si rovescia in favore della fiction e a sfavore della storiografia, anche la trasmissione del vero deve fare ricorso alla narrativa, restando comunque il più aderente possibile ad un realismo critico. Possiamo tuttavia chiederci – e la domanda resterà fatalmente senza una risposta univoca – se non sia piuttosto il peso della violenza subita e del dolore patito che distorce la possibile linearità storica/storiografica della narrativa della memoria e se lo stesso peso non imponga anche l’esigenza psicologica di camuffare e rielaborare gli eventi per salvaguardare l’equilibrio psichico dell’autore lasciando trasparire al tempo stesso la necessaria verità. Lo svuotamento del confronto pubblico sulla realtà sociale e politica, iniziato già durante la guerra di resistenza al Giappone nel 1937, crebbe sempre più ad ogni campagna di rettifica organizzata dal Partito Comunista, finché fu solo il partito a decidere i significati ammessi e il modo in cui trasmetterli: gli autori vennero ridotti al semplice ruolo di burocrati e propagandisti di partito. Quando il dibattito venne riaperto negli anni Ottanta per sostenere la de-maoizzazione e le politiche di riforma di Deng, gli scrittori faticarono a ritrovare i mezzi espressivi per comunicare la propria testimonianza storica personale.

84 Si pensi anche all’incipit evidentemente ironico di «La vera storia di Ah Q» Ah Q zhengzhuan 阿 Q 正传 (1921) in cui

il narratore dichiara di voler registrare la storia del protagonista eponimo del racconto per la posterità facendo una sorta di parodia del genere biografico ufficiale.

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Dopo la Rivoluzione Culturale riesplode la narrativa storica e autobiografica, la memorialistica e altre forme di racconto storico soggettivo, per resistere nuovamente al racconto del discorso ufficiale. La «Letteratura delle ferite» era ancora troppo schematica nella sua ricostruzione del passato e riproduceva con fini diversi la stessa retorica moralistica del passato. Racconti alternativi e narrativi della storia appaiono soltanto a partire dalla metà degli anni Ottanta, nella «Letteratura della ricerca delle radici» e nella «Letteratura d’avanguardia» per rivendicare la possibilità del soggetto di imporre un dialogo e una notevole frammentazione nella versione fino ad allora monologica e monolitica del passato: sfidando il discorso didattico maoista e la retorica pragmatica e progressiva del periodo denghista, molti scrittori proposero testimonianze parziali, marginali, soggettive e private della storia, sottolineando soprattutto la dimensione spaziale e corporea della memoria su quella meramente temporale (Choy 2008).

Uno dei problemi che si presenteranno a questi autori sarà poi la ricostruzione dei mezzi espressivi, sui quali era necessario intervenire per poter ricostruire una soggettività che non poteva non essere inscritta nella lingua: così anche la letteratura capisce di aver bisogno di un nuovo linguaggio. L’esplosione della forma e l’erosione dell’attendibilità del racconto portati all’estremo negli esperimenti della letteratura d’avanguardia sono a loro volta significanti, poiché affermano quasi visivamente l’incapacità dell’autore di colmare lo scarto fra il sentimento o la testimonianza del momento passato e la sua ricomposizione verbale e narrativa nel presente. La stessa lingua cinese, così come era stata manipolata dalla politica, appariva a molti autori insufficiente per rendere conto dell’eccezionalità delle proprie esperienze o anche solo per tradurre sensazioni di frustrazione e rabbia contro quello stesso potere politico che aveva generato quella lingua; per esprimere certi sentimenti occorreva per forza una lingua nuova. È il caso in particolare dei poeti oscuri, che dalla fine degli anni Settanta cercheranno con il loro sperimentalismo ermetico di spezzare i vincoli del

Maospeak.

È impossibile però per gli intellettuali sfuggire al senso ormai profondamente e storicamente radicato nella loro coscienza della loro missione sociale e per questo la rappresentazione data dall’autore non può non essere considerato un servizio reso all’intera collettività, tanto più se restiamo nel solco della tradizione confuciana e marxista. Se ricordiamo poi, sempre ricorrendo a Henry Zhao (2001), che storicamente la narrativa in Cina svolgeva la funzione di canalizzatore e normalizzatore dell’«inconscio sociale, messo a tacere nei discorsi culturali “normali” ma lasciato libero nei generi letterari considerati inferiori» (p. 48), possiamo ben immaginare come la narrativa della memoria, sia nella forma della «letteratura

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delle ferite» alla fine degli anni Settanta, sia nelle testimonianze successive, abbia permesso anche ad un pubblico di lettori più vasto di elaborare il trauma passato. Tuttavia, occorre tenere presente come il consumo di letteratura, e in particolare della narrativa, fosse limitato alle fasce più istruite e relativamente benestanti delle città, senza contare che negli anni Ottanta, oltre ad aumentare il benessere medio della popolazione urbana, nacque e si diffuse anche una letteratura di puro intrattenimento che contendeva ad una narrativa ben più “impegnata” il favore del pubblico. In un momento di relativa crescita economica e di maggiori possibilità per tutti, diventò difficile per gli autori che si sentivano ancora portavoce o interpreti del partito e delle masse, riuscire a farsi udire. Anche per questo motivo diventava difficile per gli autori “superstiti” come Zhang Xianliang rimettere in discussione con la propria opera quello stesso progresso e quella stessa modernità tanto celebrati durante tutto il Novecento e che avevano portato con sé anche i peggiori disastri del maoismo.

Le scrittrici degli anni Ottanta lamentavano l’indebolimento dell’uomo e la sua relativa emasculazione di fronte al rafforzamento psicologico e sociale delle donne, anche grazie alla retorica maoista e alle riforme economiche. Zhang Jie e Zhang Xinxin, però, nonostante mostrino delle donne indipendenti che cercano di fare carriera in un mondo controllato dagli uomini, nella loro descrizione della donna, però, ritornano a modelli tradizionali: se queste protagoniste riescono in una certa misura a contraddire i tradizionali ruoli femminili, tuttavia, rimpiangono di non essere mogli e madri e deprecano la propria «mascolinizzazione» (Roberts 1989, p. 805). Zhang Xinxin, in particolare, mette in discussione il concetto di marito ideale inteso in termini tradizionali, ma non riesce a rovesciare il concetto tradizionale di mascolinità: per la protagonista di «Sullo stesso orizzonte» Zai tongyi de dipingxian 在同 一的地平线 (1981), se il marito svolge alcuni lavori domestici dimostra una debolezza e una mancanza di ambizione ben poco maschile. In questo modo conserva il concetto tradizionale di maschio virile (Roberts 1989).

Anche gli uomini, messi di fronte all’esigenza di ridefinire la propria legittimità di costruttori della modernità e la propria consapevolezza di genere, si volsero verso la propria interiorità in cerca di risposte. Al dibattito si aggiunsero altre voci, che sostenevano la debolezza dei maschi cinesi: secondo lo scrittore di Hong Kong Sun Longji 孫隆基 (1945-) essi sono troppo legati alla madre per essere individui pienamente maschili e parla addirittura di «eunuchizzazione» taijianhua 太监化 del maschio cinese (citato in Louie 1991, p. 166). Anche secondo Wang Yuejin (1991) i maschi cinesi sono afflitti da un complesso di

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femminilizzazione. Per entrambi la mascolinità era una delle caratteristiche fondamentali della soggettività dei maschi cinesi (Zhong 2000, pp. 30-34).85

Gli spazi di contestazione per la ricostruzione dell’identità, tuttavia, non erano molto ampi: il dominio politico e ideologico del partito impediva molte forme di rivalsa contro il vero potere patriarcale castrante rappresentato dal Partito. Per questo uno degli ambiti in cui la soluzione del «complesso di marginalizzazione» poteva più facilmente essere curato era la letteratura, l’ambito in cui l’autorità testuale degli intellettuali ora poteva essere riaffermata, anche se sempre nei limiti ora più ampi concessi dalla sovranità simbolica della politica.