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7. Cartografia provvisoria

7.3. La via peirceana

Per completare la nostra mappa, rivolgiamo allora lo sguardo alla prima biforcazione che abbiamo incontrato e prendiamo la strada peirceana: percorrendola, non dobbiamo preoccuparci della natura dell’espressione, poiché ogni segno rimanda a un altro attraverso l’azione mediatrice di un interpretante a sua volta passibile di interpretazione. La questione principale lungo questo sentiero non è la natura sensibile dell’espressione, bensì la forza esplicativa del meccanismo semiotico: Peirce intende esplicitamente fornire una base semiotica a ontologia, metafisica ed epistemologia, e il suo concetto di segno ha una potenza onnicomprensiva tale da risolvere sul nascere la questione percettiva, ma da far dubitare alcuni della sua stessa pervasività.

Nella prospettiva di Peirce, identificare il rimando ternario del segno come il dispositivo alla base di qualunque Terzità, compresa quella percettiva, non è un problema epistemologico perché la Terzità non è affatto una prerogativa della mente cosciente del soggetto, ma è una condizione strutturante della realtà stessa. È il mondo ad essere avviluppato da una rete infinita di passaggi segnici, che si stabilizzano localmente in habitus e generano a loro volta le nostre intepretazioni: non solo i segni che usiamo per parlare del mondo trovano la loro comprensibilità intersoggettiva negli habitus linguistici e culturali, ma è il mondo stesso che è innervato da habitus del tutto comparabili; come si vede nell’esempio del letto del fiume che interpreta il fiume stesso.

Una tale prospettiva globale, ancora più ambiziosa della definizione echiana di semiotica generale come disciplina filosofica, risolve indubbiamente la questione percettiva in semiotica, ma a prezzo di dover

abbracciare non solo una teoria disciplinare ben precisa, ma uno sfondo extra-disciplinare molto impegnativo. Forse è per questo che l’unico autore che ha provato a prendere le mosse da Peirce per affrontare la questione percettiva, Umberto Eco, ha cercato di reinterpretare i concetti peirceani per farli aderire a una visione molto più prudente del posto della semiotica all’interno delle discipline filosofiche.

Eco, infatti, non sottoscrive mai in modo completo ed esplicito tutte le complesse costruzioni metafisiche peirceane, né si preoccupa di criticarle per esteso: si limita ad assumerle come sfondo di riflessione, ma non nasconde di avere una sua, alquanto precisa (e non completamente peirceana), idea del tipo di assunzioni ontologiche ed epistemologiche che sono necessarie per la semiotica. In Eco il pansemioticismo peirceano non viene indicato come sistema unico di riferimento, ma messo in tensione, o in dialogo, con una serie di assunti più prudenti.

In particolare per quel che riguarda la questione percettiva gli effetti di questa tensione sono molto evidenti, anche se quasi per nulla segnalati dall’autore. Come abbiamo visto, infatti, l’obbiettivo strategico di Eco di non cadere nella trappola “sovrainterpretativa” lo fa propendere per una lettura di Peirce che si sposta pericolosamente verso l’intuizionismo (con l’iconismo primario) e una difficoltosa idea di Terzità e Oggetti Immediati in assenza di segni (con la concezione della percezione come semiosi primaria). Eco sa perfettamente di stare “stirando” Peirce per rispondere a sfide lato sensu antirealiste, e ripetutamente sostiene che il suo desiderio di non cadere nella trappola nicciana e decostruzionista23 sarebbe del tutto condiviso da Peirce. Ciò è in parte vero, ma è ancora più vero che Peirce evita questi pericoli grazie alla sua impostazione globale, mentre Eco è

costretto a trovare nuove vie dal fatto che non si sente di sposare in toto la filosofia peirceana.

Così, mentre Peirce ammette tranquillamente il carattere semiotico (e segnico) della percezione, e garantisce il suo “pragmaticismo” attraverso l’idea che tale carattere non sia sovrimposto e separato di natura dalla realtà, bensì ne faccia parte costitutivamente, Eco, probabilmente perché vorrebbe mantenere al minimo le premesse ontologiche e metafisiche nel costruire la semiotica (e quindi preferisce non introdurre la visione peirceana come antecedente per ogni possibile teoria semiotica), è costretto a riformulare i concetti peirceani senza possedere le stesse garanzie di fondo.

Ecco, allora, che il realismo, per quanto minimale, di Eco deve essere sostenuto dalla possibilità di mappare le “cose come stanno” in modo non interpretativo, forzando, comunque si guardi la questione, una certa dose di intuizionismo nel sistema peirceano. Abbiamo visto che Eco ha raffinato questo passaggio in modo molto interessante, sostenendo che la dose di intuizionismo è assolutamente omeopatica e non muterebbe i termini della questione in modo fondamentale. Tuttavia, per rimanere in una metafora medica, la trattazione dell’iconismo primario in “La soglia e l’infinito” è, a mio avviso, più un caso di accanimento terapeutico che di cura. Ma lo vedremo meglio nel prossimo capitolo.

Vi è poi la questione, alquanto problematica, di un senso percettivo che rimane sganciato dal funzionamento segnico: io credo che la forza intuitiva del negare agli oggetti percepiti lo statuto di segni non riposi tanto sull’idea che l’iconismo primario ci mette in relazione con le nervature della realtà, bensì sull’esperienza soggettiva nella percezione, nel suo insopprimibile effetto di senso per cui l’oggetto riconosciuto si staglia sulla

scena percettiva come un dato, non procedente da alcun segno che lo esprime, né representamen per alcun segno successivo. La teoria peirceana, pur non affrontando in modo esplicito questa questione, non può che stabilire in linea di principio che tale effetto è illusorio, perché, come peraltro riconosce anche Eco, un oggetto percepito consiste necessariamente in un Oggetto Immediato, ergo è prodotto all’interno di una catena segnica infinita, di cui non è l’inizio né la fine. E, tuttavia, come abbiamo notato al paragrafo 5.3., questa potente illusione, posto che sia tale, avrebbe pienamente diritto perlomeno a una trattazione schematica da parte di una disciplina che di effetti di senso dovrebbe essere esperta.

E siamo poi così sicuri che si tratti di un’illusione? Eco sostiene, al contrario, in modo molto netto che la percezione è un meccanismo semiosico che non mette in campo segni, e che gli oggetti riconosciuti, pur essendo Immediati e infatti a livello di Terzità, non si configurano come segni. Se pure questo è in contraddizione con Peirce, come io credo, ciò non significa che si possa ignorare il motivo per cui Eco è stato spinto a muoversi su questa strada: alla base del tentativo di Eco, ribadito peraltro in “La soglia e l’infinito” (anche se a proposito dell’iconismo primario, non del giudizio percettivo) sta la convinzione che l’introduzione di un soggetto nella catena interpretativa peirceana generi interferenze, cosa che Peirce non ha mai adeguatamente trattato. Appunto nel paragrafo 5.3. avevo indicato in questa assenza (quella della problematica del soggetto in Peirce24) l’unico punto debole del sistema peirceano sul versante della questione percettiva. Eco ha tentato di occuparsi di questo tema, ma non sempre in modo riconoscibilmente separato dalla difesa della sua lettura

24 Anche se Paolucci ha recentemente argomentato in vista di una teoria dell’enunciazione

dell’iconismo primario. Vedremo nel capitolo successivo in maniera più approfondita questa questione.

In conclusione, la cartografia che abbiamo tentato ci mette di fronte alla seguente situazione strategica: la via strutturalista appare, allo stato attuale delle ricerche, la più impervia; non mancano molteplici spunti (ma bisognerebbe procedere anche a una disamina più approfondita dei territori di ricerca più all’avanguardia, che qui sono stati trascurati), ma la mossa di distinguere espressione e contenuto come fondamento della dottrina dei segni rende il trattamento della questione percettiva decisamente problematico. Il punto dolente più chiaro di questa impostazione resta quello della caratterizzazione della natura del piano dell’espressione e della sua armonizzazione con una tradizione di ricerca che ha fatto dell’esplorazione del piano del contenuto la sua prerogativa più evidente. Così le tecniche sviluppate sul campo dell’analisi del contenuto potranno essere utilizzate solo se si troverà un modo di equiparare l’espressione al contenuto (come nell’ipotesi hjelmsleviana), ma con il rischio di perdere, in questo modo, le peculiarità fondanti dell’esperienza sensibile, che invece sono ben chiare a chi si rifà, anche solo parzialmente, a una prospettiva fenomenologica. Ecco perché in questo lavoro non si cercherà di esplorare oltre questa strada e ci si concentrerà d’ora in poi su una critica alla proposta di Eco come via per un avanzamento in direzione di una risposta soddisfacente alla questione percettiva.

7.4. Le possibilità di una teoria semiotica della