6. Eco e la semiosi senza segni
6.4. Peirce contro Macchia Nera: Eco e la soglia del soggetto
In un intervento presso il seminario di semiotica interpretativa tenuto presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici nel 2006, e poi pubblicato in Paolucci (ed.) 2007 e in Eco 2007b, Eco compie un deciso passo in avanti nella definizione e caratterizzazione dell’iconismo primario. Un passo in avanti perché la posta in gioco non è semplicemente una difesa della sua posizione, espressa in Kant e l’ornitorinco, ma un raffinamento dei concetti utilizzati, tale da portarli in una direzione nuova rispetto alle riflessioni precedenti.
Dopo il libro del 1997, Eco era stato accusato di aver travisato Peirce, in particolare nella sua caratterizzazione dell’iconismo primario: un’accusa, a mio parere, fondata, dato che l’anti-intuizionismo di Peirce, netto e indubitabile, è un ostacolo insormontabile per la formulazione di una teoria della percezione come meccanismo pre-semiotico che si voglia definire peirceana. L’obiettivo delle prime pagine del saggio del 2007 è, allora, quello di contestare tali critiche, basate sull’assunto che Eco ha fatto dire a Peirce cose che non sarebbero assolutamente peirceane, peccando quindi di cattiva esegesi e filologia scadente.
La difesa di Eco su questi punti è piuttosto convincente, e infatti ho già rinunciato (e rinuncerò in seguito, cfr. capitolo 8) a criticare Eco sul terreno del corretto e rispettoso utilizzo delle idee di Peirce, preferendo discutere nel merito le proposte avanzate, che siano o meno rispondenti a un’ortodossia peirceana.
Riflettendo ora su quel testo di dieci anni fa, credo che occorra chiarire una distinzione tra “isti” e “ologi”. Nel caso dei
pensatori che non hanno creato una posterità militante si fa solo della storiografia e della filologia (del tipo “che cosa ha scritto veramente Platone” o “che cosa intendeva dire Aristotele”), e di loro si interessano gli “ologi”, se è permesso coniare termini come “platonologi”, ovvero specialisti di Platone. Esistono, tuttavia, dei pensatori di cui molti si dichiarano ancora seguaci militanti, per cui ci sono stati e ci sono dei neo-aristotelici, dei neo-tomisti, dei neo- hegeliani e dei neo-kantiani, e sono coloro che per comodità ho chiamato “isti”.
[…]
Tutta questa premessa serviva per dire che in K&O avevo invece fatto una scelta da ista, mentre le obiezioni che mi sono state mosse in seguiro erano intese a ricostruire il problema dal punto di vista di un ologo
(Eco 2007b: 464-466)
E, con questo, possiamo abbandonare le difficoltà di considerare Eco un peirce-ologo sulla questione percettiva, e considerare i nuovi sviluppi del suo pensiero, esplicitamente peirce-ista. Il problema di fondo, infatti, sussiste anche per un peirce-ista: è possibile coniugare l’anti-intuizionismo peirceano con l’idea, che Eco non intende abbandonare, che nella percezione si ha a che fare con qualcosa di dato, una partenza ineliminabile e non frutto di interpretazione?
Per cominciare, Eco afferma che nel cosmo semiotico peirceano, dove le catene interpretative sono infinite in entrambi i sensi, la presenza di un soggetto cambia in modo sostanziale il gioco, almeno per quanto riguardo il soggetto stesso:
Che lo si chiami iconismo primario o altrimenti, c’è qualcosa che non può essere evitato nel momento in cui, nel processo della semiosi, inseriamo un soggetto interpretante. In altre parole, se non
esiste cosmologicamente iconismo primario, esso esiste per il soggetto.
(Eco 2007b: 476)
Cosa intende dire Eco con l’idea che, se non esiste per il cosmo, perlomeno l’iconismo primario deve esistere soggettivamente? L’idea è che molti dati “oggettivi”, se guardati abbastanza attentamente, sembrano svanire, mentre mantengono la loro validità e cogenza solo a un certo livello di pertinenza: parlando di un buco che si potrebbe rinvenire sulla pagina di un libro antico, per esempio, Eco afferma che
è materia di negoziazione che io ragioni da collezionista e non da artista informale che volesse pantografare il buco e fosse interessato a definirne con esattezza microscopica il contorno. Per un teorico dei frattali i contorni del buco potrebbero essere analizzati en
abyme sino a individuarne le curve e pieghe oltre ogni limite
concepibile in termini di abitudini percettive normali. Ma dal mio punto di vista di collezionista e di bibliofilo, io rispetto i limiti delle mie capacità percettive, e considero come indiviso qualcosa che cosmologicamente parlando è, in potenza, ulteriormente divisibile.
…
Proviamo a ragionare non sul caso limite dei buchi ma sul caso normale dell’assenza di buchi. È indubbio che se prendo un foglio di carta A4 su di esso non ci sono dei buchi. E se volessi passare da una stanza all’altra senza usare la porta ma attraversando il muro (o entrare come Alice nello specchio) mi urterei contro il fatto che sulla carta, sul muro e sulla superficie dello specchio non ci sono buchi (o valichi di nessun genere). Eppure – e come occorrerebbe ammettere da un punto di vista non molare bensì molecolare – usando un microscopio potentissimo vedrei e sul foglio di carta e sul muro un’infinità di buchi o spazi vuoti, così come so che gli atomi del cristallo dello specchio non sistemi solari in miniatura intessuti di spazi vuoti siderali.
È che dal mio punto di vista, ovvero sotto qualche rispetto o capacità, quegli spazi vuoti non mi interessano e pertanto per me non
esistono.
(Eco 2007b: 474-475)
Il caso dell’iconismo primario è visto da Eco in maniera analoga: è solo nella pertinentizzazione molare del mondo operata dal nostro sistema cognitivo che le qualità tracciate sono primitivamente date, non nella pertinentizzazione molecolare del cosmo pansemiotico di Peirce, nel quale, naturalmente, ogni percezione viene già da una infinita serie di precedenti inferenze. È che dal nostro punto di vista quelle operazioni non mi interessano (e nemmeno le vedo, se non con l’aiuto, invece che di un microscopio, di un macchinario per il brain imaging) e pertanto per noi non
esistono.
Per dare maggior forza a questa intuizione, Eco compie un passo ulteriore:
Per contestare questi qualia che precedono ogni inferenza si dovrebbe partire dal principio che essi costituirebbero un momento intuitivo senza che al di sotto di esso possano essere concepiti ulteriori processi inferenziali, in una sorta di frattalizzazione infinita. Ma vorrei ricordare che la frattalizzazione infinita di una costa marina non esclude che un soggetto umano, che ne ha una visione molare rispetto a quella molecolare di una formica, percorra di un passo quello che per la formica sarebbe stato un percorso lunghissimo e tortuosissimo.
…
Quello che già Aristotele opponeva a Zenone (cfr Fisica III, 8, 206) è che nelle grandezze vi è infinità per addizione (posso sempre trovare un numero pari più alto del precedente), ma non per divisione in quanto l’infinità dei sottointervalli nei quali è divisibile una unità di
lunghezza è sempre contenuta in una totalità limitata (mai superiore a uno) che può costituire l’oggetto di una intuizione empirica.
Ovvero, se cosmologicamente parlando non vi è mai forse Firstness che non sia il risultato di una Thirdness precedente,
cognitivamente parlando vi è il limite delle nostre capacità percettive, che sentono come indiviso qualcosa che cosmologicamente parlando è, in potenza, ulteriormente divisibile.
(Eco 2007b: 479-480)
Ci sono due ingredienti molto interessanti in questa nuova concezione echiana dell’iconismo primario: da una parte, viene esplicitamente riconosciuto (“Però teoria dell’intelligibilità e teoria metafisica vanno talora tenute divise”) che in Peirce, pur essendo forte e chiaro il messaggio totalizzante della semiotica come logica generale della realtà, ci dovrebbe essere spazio per occuparsi in maniera specifica del soggetto e della sua esperienza percettiva, almeno nel senso che è possibile lavorare in vista di quell’obiettivo senza rinnegare i pilastri fondamentali della teoria. Dall’altra parte, c’è la consapevolezza che il momento percettivo, soggettivamente considerato, mette in campo una Terzità di un tipo tutt’affatto particolare: Terzità molecolare, cosmologica, ma Primità per il soggetto, che non è in grado di distinguere la catena inferenziale pure presente in tutti gli stadi precedenti.
Si noti che questo secondo passaggio è più forte e impegnativo di una semplice ammissione di limitatezza cognitiva umana: la tesi di Eco è che tale limitatezza ha un effetto diretto in termini di teoria semiotica. Non è che l’iconismo primario è una specie di illusione cognitiva, essendo invece più importante e dirimente la visione cosmologica che gli nega la primarietà in favore di una derivazione inferenziale: il punto di vista del soggetto è assunto da Eco come teoricamente rilevante. Quando dice che
per me le inferenze precedenti non esistono, non denuncia la naïveté di
questa impostazione, ma vuole segnalare che esiste un modo semioticamente rilevante (anzi, apparentemente semioticamente preminente) di considerare la questione al di fuori della cosmologia peirceana.
Ancora una volta, mi sembra relativamente importante stabilire quanto questa mossa di Eco possa essere effettuata mantenendosi all’interno di una lettura ortodossa di Peirce e quanto invece sia incompatibile con le idee del padre fondatore. Mi sembra, invece, ben più utile discutere questi mutamenti di prospettiva all’interno del quadro che abbiamo tracciato fin qui.
In questo senso, vediamo come Eco qui tenti di abbozzare una risposta a problemi che avevamo già visto nella nostra discussione su Peirce, introducendo con forza e in un punto centrale della sua riflessione la presenza di un soggetto e la sua capacità di riposizionare le poste in gioco nel processo percettivo. In secondo luogo, la visione generale della percezione come semiosi primaria viene implicitamente confermata da Eco anche nell’ultimissima fase della sua ricerca, visto che l’iconismo primario non è che un mattone di quella prospettiva inglobante.
Ecco, allora, che la percezione resta un processo che, attraverso la disambiguazione e de-individualizzazione delle informazioni raccolte tramite iconismo primario giunge a un senso che non è un segno: l’unica novità in questa formulazione è che la natura non segnica dei percetti non è cosmologica (ché anzi essi segni lo sono per definizione, visto che derivano dall’icona primaria riconosciuta esplicitamente come segno attraverso una pertinentizzazione molecolare) bensì è soggettiva. Ovvero, è solo per il soggetto della percezione che le sue percezioni non sono segni e non
rimandano a nulla di diverso da loro stessi: cosmologicamente, tutte le parti in causa sono pienamente segniche. A sua volta, questa precisazione ridimensiona la portata della definizione echiana di percezione come semiosi senza segni: di nuovo, infatti, tale caratterizzazione è corretta solo dal punto di vista molare del soggetto della percezione, mentre non vale in generale e in astratto.
Tirare conseguenze ulteriori, oltre a quelle appena tentate e che costituiscono comunque un esercizio di chi scrive e non appaiono nel testo di Eco in esame in questo paragrafo, sarebbe eccessivo: lo scopo dell’intervento di Eco essendo, molto chiaramente, limitato a una difesa e una chiarificazione del concetto di iconismo primario e non una riconsiderazione globale della sua teoria sulla percezione. In questa sede, dunque, me ne asterrò. Riprenderò, tuttavia, questo sviluppo che mi sembra fecondo della riflessione echiana negli ultimi capitoli di questo lavoro, quando tenterò di utilizzarlo all’interno di una proposta di segno molto diverso da quella di Eco.