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3. Greimas e la semiotica del mondo naturale

3.3. Verso l’abbandono di Hjelmslev?

Se crediamo che il mondo naturale, lungi dall’essere espressione non interpretata da mettere al servizio di semiotiche altre (verbali o non verbali), sia a sua volta una semiotica, abbiamo il dovere di indicare cosa forma il suo piano dell’espressione. E se chiamiamo percezione quel processo per cui riconosciamo un gatto nelle sue molteplici caratteristiche, anche culturalizzate, allora dovremmo trovare un altro nome, e un’altra spiegazione, della formazione della semplice figura del gatto, prima di essere connessa con i suoi correlati culturali.

Ecco perché il secondo modo di guardare alla semiotica del mondo naturale mi sembra un vicolo cieco: su che basi si potrebbe sostenere che un gatto è un dato automatico e non interpretato che solo venendo congiunto con un piano del contenuto acquisisce un significato? Un gatto non è già, del tutto significativamente, in sé stesso qualcosa dotato di caratteristiche generali, appartenente a una categoria, capace di articolare opposizioni ecc. ecc.?

È evidente che l’idea di “Semiotica plastica e semiotica figurativa” di distinguere le figure vere e proprie (quelle “lette” attraverso la semiotica del mondo naturale) dalle figure che si trovano sul piano dell’espressione della semiotica del mondo naturale resta l’unica minimamente plausibile per integrare semiotica del mondo naturale e percezione. Gli usi che di questo concetto si fanno (a partire proprio dallo stesso Greimas, come abbiamo visto) facendolo iniziare dal momento successivo al riconoscimento percettivo, non sono sbagliati in linea di principio, ma rinunciano totalmente ad articolare una qualunque risposta alla questione percettiva.

Se la semiotica del mondo naturale è quella di “Semiotica plastica e semiotica figurativa”, si può almeno tentare di utilizzarla per sistemare i problemi della percezione, ma se è quella che connette “stati di cose” a “stati d’animo” allora si dovrebbe smettere di considerarla attinente alla questione percettiva, cosa che, invece, molti semiotici hanno fatto in polemica con altri approcci: perfettamente in linea con l’arbitrarietà dei piani di Hjelmslev, la semiotica del mondo naturale, anche utilizzata corrivamente nel secondo dei sensi che abbiamo visto, ha permesso di non riconoscere alla ricognizione percettiva del mondo esterno alcuna natura speciale, riconducendola ad un processo in tutto e per tutto semiotico. E così, al di là delle dichiarazioni di principio e di indipendenza disciplinare, spesso il richiamo alla semiotica del mondo naturale serve semplicemente per considerare il mondo come un possibile testo, da interpretare e, al caso, da analizzare come tale. Ridotta, così, a una mera premessa metodologica per poter fare semiotica, o socio-semiotica, di tutto ciò che ci circonda, dal paesaggio all’ambiente alla città, la semiotica del mondo naturale non risponde affatto alle domande sulla percezione, come normalmente si afferma.

Non si tratta, evidentemente, di negare che sia possibile, anzi meritorio, procedere all’analisi semiotica del mondo che si dà ai nostri sensi, in modo da ricostruire la giungla di significati nella quale ci muoviamo in modo spesso inconsapevole, ma che pure forma noi e le nostre interazioni in modi altamente significativi. Si tratta solo di ricordare, in questi casi, che non si sta descrivendo un processo percettivo, bensì una semiotica che riposa pur sempre sulla percezione per il rinvenimento del proprio piano dell’espressione.

Abbiamo visto, invece, con quanta attenzione il Greimas di “Semiotica plastica e semiotica figurativa” descriva il piano dell’espressione della semiotica del mondo naturale come composto non da figure-oggetti, ma da formanti di qualità sensibili, ancora sprovvisti di quei tratti interocettivi che soli possono renderli figure del mondo naturali capaci, a seconda, di essere convocate sul piano del contenuto della lingua o sul piano dell’espressione di una semiotica figurativa ulteriore. Quando si parla di semiotica del mondo naturale, dunque, bisogna sempre controllare quale delle due opzioni teoriche possibili si sta utilizzando: si tratta di quell’unione di espressione e contenuto che costituisce le figure del mondo naturale, o delle configurazioni di senso che una specifica organizzazione di tali figure può dare luogo?

In sintesi, è chiaro che l’offrirsi allo sguardo di una veduta panoramica della campagna coltivata secondo una griglia geometrica può essere il momento per analizzare come la dinamica dei luoghi, degli oggetti, delle prospettive e dei mille altri elementi figurativi presenti sulla scena, generano un discorso che può parlare di molte cose, dalla storia dell’attività umana in quel contesto, alle difficoltà sentimentali di chi la percorre con lo sguardo: ma deve essere altrettanto chiaro che la percezione non è all’opera nel connettere la forma dei campi e dei viottoli con il modello agrimensorio romano o con le sbarre della prigione in cui si sente confinato un ipotetico, scoraggiato, osservatore, ma nel riconoscere gli stessi campi e viottoli: senza la percezione, la scena non sarebbe descrivibile nella sua articolazione figurativa di base.

La conclusione è che semiotica del mondo naturale e percezione sono, nella forma del concetto greimasiano che è a mio avviso prevalsa in letteratura, vale a dire quella meno rigorosa, due concetti correlati ma non

identici: la prima richiede, per la formazione del suo piano dell’espressione, la seconda, come nel caso di qualunque altra semiotica che possieda un piano dell’espressione articolato in qualità sensibili. L’unica possibilità di ricondurre la percezione alla semiotica del mondo naturale sembra quella di rifarsi alla lezione di “Semiotica plastica e semiotica figurativa” e distinguere nettamente tra figure dell’espressione (esterocettive) del mondo naturale e figure del contenuto (esterocettive, interocettive, anche propriocettive) delle semiotiche altre: in questo modo, tale piano non sarebbe composto da figure in senso proprio (evitando il problema di dover spiegare come possano essere così dense di significato delle entità che non hanno ancora avuto alcuna correlazione con il piano del contenuto), ma da elementi più basilari, composti da soli tratti esterocettivi.

Greimas non ha mai esplicitato questa o un’altra teoria sulla percezione, che non è mai stato un argomento di cui si occupasse in particolare. In questo paragrafo ho solo tentato di mettere in luce come, se si intende utilizzare il concetto di semiotica del mondo naturale come risposta alla questione percettiva, si debba necessariamente definirne i limiti in modo più rigoroso di quanto normalmente si faccia, e il modo che a me pare più consistente, tra quelli che possono essere desunti dagli accenni di Greimas stesso, mi sembra quello appena descritto.

Seguendo tale delimitazione, tuttavia, si sta già scendendo lungo una china che ci allontana dalla separazione tra sensibile ed espressione quale Hjelmslev voleva mantenere: qui si sta, infatti, pensando di caratterizzare l’espressione della semiotica del mondo naturale con qualità esterocettive (e solo con esse), lasciando l’interocettivo al contenuto. In altre parole, si sta introducendo l’idea che nella percezione il lato espressivo sia sensibile e il alto del contenuto sia intelleggibile. Un’idea “pericolosa”, che verrà

esplicitata e portata alle sue estreme conseguenze da Fontanille, come vedremo nel prossimo capitolo.