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CAPITOLO II: Norberto Bobbio: l’“illuminista pessimista”

I.4 Laicità

Per la sua concezione della limitatezza e fallibilità della ragione, Bobbio (come sopra abbiamo già accennato) appare come la perfetta incarnazione del filosofo laico. Laico tuttavia, non laicista, per- ché nel laicismo egli vede il rinchiudersi in un sistema di idee ostile al confronto e l’interruzione di quel dialogo cui tutta la sua filosofia è indirizzata41. «Bobbio ha insegnato che laicità non è un cre- do filosofico specifico, ma la capacità di distinguere le sfere delle diverse competenze, ciò che spet- ta alla Chiesa da ciò che spetta allo Stato, ciò che appartiene alla morale da ciò che deve essee rego- lato dal diritto, ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede», scrive di Bobbio Claudio Magris sul Corriere della Sera42. E con- tinua dicendo che «pochissimi come Bobbio hanno testimoniato la laicità quale attitudine critica ad articolare le proprie idee, religiose o irreligiose, secondo principi logici non condizionati da alcuna fede; la cultura – anche quella cattolica è sempre laica, così come la dimostrazione di un teorema anche se fatta da un santo della Chiesa obbedisce alle leggi della matematica e non ai paragrafi di un catechismo. Bobbio incarna questa laicità intesa quale dubbio rivolto pure alle proprie certezze, capacità di aderire a un’idea senza restarne succubi, libertà dalla smania di idolatrare come di dissa- crare, moralità umanistica che si oppone sia al fazioso moralismo inacidito sia dalla pacchiana di- sinvoltura etica; laicità che distingue il pensiero e l’autentico sentimento – sempre rigoroso – dal fanatismo ideologico e dalle viscerali reazioni emotive, ancor più funeste del dogmatismo»43.

38N. BOBBIO, Elementi di politica. Antologia, op. cit., p. 306. 39 Ibidem.

40N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 2014, p. 246-7. Cfr. anche N. BOBBIO,Elementi di politica. Antologia,

op. cit., nota 22, p. 324.

41P. P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, op. cit., p. 138.

42C. MAGRIS, Diritto e libertà, in «Corriere della sera», 10 gennaio 2004. 43 Ibidem.

Quindi, anche la laicità esprime per Bobbio un metodo più che un contenuto: un metodo su cui per altro la sua posizione sarebbe stata sempre ferma44. La riflessione di Bobbio sul laicismo data, e non poteva essere altrimenti, dagli anni della sua militanza azionista: in un articolo pubblicato su «Giu- stizia e Libertà» il 2 febbraio 1946, la «politica laica» è definita in contrapposizione alla «concezio- ne teologica della politica»45:

La conseguenza dello spirito teologico trasportato in politica non è l’elevazione degli interessi ma la de- gradazione dei principi. Tutti lottano per i propri interessi ed elevano la bandiera dei principi. Tutti discu- tono di principi e lavorano per i propri interessi46.

Fedele alla sua direttiva metodologica, anche in quest’ambito Bobbio ha svolto il ruolo del semi- natore di dubbi: e lo ha fatto equamente nel campo dei credenti e in quello dei laici47. Nel primo ha esercitato la sua critica nei confronti di quella versione del pacifismo finalistico che fa del problema della guerra e della pace fondamentalmente un «problema di conversione», attendendosi la soluzio- ne da una sorta di evangelizzazione del mondo scaturita dal dialogo delle religioni universali (ma quando? E come?)48. In contrapposizione a tale orientamento – e in ciò discostandosi dalla posizio- ne di Capitini – ha visto nella teoria e nella pratica della nonviolenza soltanto una modalità (positi- va, è vero, rispetto a quella meramente negativa delle politiche di disarmo) del pacifismo strumenta- le49:

Nel pacifismo strumentale conviene distinguere due momenti: il primo momento è rappresentato dallo sforzo per distruggere le armi o almeno per ridurne al minimo la quantità e la pericolosità; il secondo momento è rappresentato da tutti i tentativi compiuti allo scopo di sostituire i mezzi violenti con mezzi non violenti, e quindi di ottenere con altri mezzi lo stesso risultato. […] Negativo il primo, perché si limi- ta a indicare i mezzi che non si dovrebbero più usare; positivo il secondo, perché si sforza di indicare qua- li altri mezzi si potrebbero usare in sostituzione di quelli condannati. Il primo momento si esprime nella teoria e nella pratica del disarmo; il secondo, nella teoria e nella pratica della nonviolenza50.

Nei confronti dei laici, il suo ammonimento è sempre stato rivolto in due direzioni: da un lato, è scaturito dall’esigenza di mantenere alto il profilo etico della morale laica (a cui non possono essere fatti sconti), dall’altro, ha assunto la forma dell’invito a considerare realisticamente il vantaggio di posizione che al dogmatismo arride nei conflitti d’identità sul terreno della politica51. Nel saggio Pro e contro un’etica laica 52(1984) vengono analizzati i quattro tentativi intrapresi dall’etica mo-

44P. P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, op. cit., p. 138. 45 Ivi, p. 140.

46N. BOBBIO, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, con una nota storica di T. Greco, Donzelli,

Roma, 1996, pp. 36-7.

47P. P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, op. cit., p. 141. 48 Ibidem.

49 Ibidem.

50N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, op. cit., pp. 79-80. 51P. P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, op. cit., pp. 141-2.

derna per «fondare un’etica oggettiva, o razionale o empirica», mostrando come nessuna di quelle teorie sia esente da critiche53:

La storia dell’etica moderna a cominciare dalla teoria del diritto naturale, è un tentativo, o meglio una se- rie di tentativi, di fondare un’etica oggettiva, o razionale o empirica, o a un tempo razionale ed empirica, insomma laica. […] Mi pare però che si possano distinguere nell’età moderna quattro grandi dottrine mo- rali, con le relative sotto-teorie, in base agli argomenti addotti per fondare un’etica non agganciata a una fede religiosa, laica, non confessionale, che vincola anche gli atei.

La prima e anche la più diffusa di queste dottrine è il giusnaturalismo […]. Le obiezioni cui va incontro il giusnaturalismo sono due: l’ambiguità del concetto stesso di natura umana […]; anche ammesso che la natura dell’uomo sia un libro aperto e si possa leggervi dentro con facilità, resta a dimostrare che tutto ciò che è naturale è buono per il fatto solo di essere naturale […].

Al procedimento deduttivo dei giusnaturalisti si contrappone il procedimento induttivo proprio della teo- ria il cui argomento fondamentale per dare oggettività ai giudizi di valore è il consensus humani generis, cioè la constatazione di fatto o storica che una certa regola della condotta è comune a tutte le genti. […] Anche per questa dottrina morale le obiezioni principali sono due: vi sono davvero leggi universali, ovve- ro leggi che valgono “dappertutto”, in ogni paese, e hanno avuto valore sempre (universali non solo nello spazio ma anche nel tempo)? […]; vi sono leggi che sono state in vigore per secoli senza che per questo solo fatto possano essere accettate come morali. Qui l’esempio più macroscopico è quello della schiavitù. […].

La terza teoria è quella kantiana, che si chiama abitualmente formale o formalistica, perché ciò che si de- ve fare o non fare è stabilito con un criterio puramente formale come quello della universalizzabilità dell’azione. Kant lo formula in questo modo: «Non devo mai comportarmi in modo tale da non poter vo- lere che la mia massima divenga una legge universale». […] Anche rispetto all’argomento kantiano addu- co due obiezioni: che io non possa volere un mondo in cui le promesse non vengano mantenute dipende dal giudizio di valore negativo che io do di tale mondo. Ma così anche l’etica kantiana diventa un’etica te- leologica, un’etica cioè la cui validità dipende dalla bontà del fine […]. Un’etica teleologica non è più soltanto formale e perde il carattere di universalità che le deriva dal suo preteso formalismo. Non si può dare il caso che due azioni che ubbidiscono allo stesso criterio di universalizzabilità siano incompatibili? In questo caso quale scegliere? […]

In quarto sistema etico – oggi il più ampiamente dibattuto per lo meno nel mondo anglosassone e per de- rivazione da noi – è l’utilitarismo. Il dato oggettivo su cui si fonda l’utilitarismo sono le sensazioni di pia- cere e di dolore. Di qui la tesi per cui il criterio per distinguere ciò che è bene da ciò che è male è rispetti- vamente la quantità di piacere e di dolore che un’azione procura. Le difficoltà cui va incontro l’utilitarismo come dottrina etica sono moltissime: la prima consiste nella misurazione del piacere e del dolore […]. E poi quale ordine è preferibile: un piacere intenso ma breve oppure uno meno intenso ma di più lunga durata? Un’altra difficoltà sta nella relazione che necessariamente si deve stabilire tra il mio piacere (o dolore) e quello degli altri. […] Ma chi sono questi altri? I miei vicini, i miei concittadini, tutti gli uomini viventi su questa Terra, solo i viventi o anche le future generazioni? Un’obiezione all’utilitarismo particolarmente diffusa, infine, è quella che viene da coloro che ritengono bene primario della società umana la giustizia, ovvero un’equa distribuzione dei beni in un determinato gruppo organiz- zato. Come si stabilisce in base a criteri utilitaristici un’equa distribuzione della ricchezza o dei servizi? I criteri cui abitualmente si ispira la giustizia distributiva, il criterio del merito, della capacità, del bisogno, non sono criteri utilitaristici54.

Tuttavia E. Severino, in risposta all’articolo di Bobbio “Cari laici, non siate una Chiesa” , appar- so sul Corriere della Sera il 12 novembre 1999, scrive che «Norberto Bobbio difende la «cultura laica». Ma ho l’impressione che la difenda in modo debole. Scrive che la differenza tra i credenti e i non credenti è tra chi sottopone la ragione alla fede, e dunque non è portato a «usare argomenti ra- zionali», e l’«uomo di ragione», che a questo uso è portato. Sarebbe meglio dire che certi non cre- denti sono «uomini di ragione»: la ragione è poco usata anche da molti non cattolici»55. Severino adduce quindi che «la «ragione» di cui parla Bobbio è un sapere non definitivo, disposto a trasfor-

53P. P. PORTINARO, Introduzione a Bobbio, op. cit., p. 142.

54N. BOBBIO, Elogio della mitezza, e altri scritti morali, op. cit., pp. 140-44.

mare le proprie idee e i propri principi – e questa apertura non può essere certo praticata dal creden- te. Ma allora, stando a Bobbio, anche gli «argomenti razionali» usati dalla «cultura laica» sono qualcosa di non definitivo e di revisionabile»56. E conclude dicendo che per il superamento della fede bisogna possedere una «forza che il discorso di Bobbio non possiede»57. Una delucidazione ri-

guardo alla questione dei due filosofi italiani la dà G. Desiderio in un suo articolo uscito pochi gior- ni dopo l’uscita di quello di Bobbio e la risposta di Severino. Desiderio dice che Severino, «rispon- dendo a Bobbio, ha scritto che se la cultura laica si fonda sul rifiuto del sapere definitivo allora essa accetta il suo sapere del momento perché “crede” nella solidità di quel sapere»58. E conclude il di- scorso così: «Su cosa si basa allora la differenza tra “cultura laica” e “cultura cattolica”? Forse in questo: la prima fa della fede un punto di partenza, la seconda un punto di arrivo. Croce direbbe che la verità ha bisogno della fede, nel senso che la verità è un esercizio spirituale, un’opera, un fare dello spirito. Ciò che fa la differenza è ciò in cui si crede: un laico deve credere nella libertà e cri- stianamente dirà: la verità mi farà libero (e viceversa)»59.