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Metodologia del Servizio Sociale Ospedaliero e strumenti professional

2.6 Il lavoro di équipe

Nel lavoro sociale l’équipe è definibile come un particolare “gruppo di lavoro” centrato sul compito (Miodini, 2013).

La parola “gruppo” è ormai utilizzata in molteplici ambiti, è utile riprendere la classica definizione di Kurt Lewin del 1948: “il gruppo è qualcosa di più, o per

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meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza” (Gabassi, 2006).

Se il gruppo è definibile come una pluralità in interazione, il gruppo di lavoro può essere definito una pluralità in integrazione, che produce qualcosa di significativamente diverso dalla somma dei contributi singoli, cioè il lavoro di gruppo, che è il risultato di processi di coesione, interazione e integrazione (ibidem). L’équipe è un gruppo che prende corpo dalle aspettative e dalle idee dei singoli componenti rispetto alla costruzione di un progetto di aiuto (Miodini, 2013). É una modalità operativa applicata soprattutto in ambito sanitario e successivamente usata anche in ambito sociale, è in particolare dagli anni Novanta che si è sentita la necessità di co-progettare e co-costruire l’intervento sociale a favore dell’unicità della persona, in base a princìpi ripresi poi dalla legge 328/2000 (ibidem).

L’équipe è un ambito di relazioni sociali, sviluppate tra operatori con professionalità omogenee (équipe mono-professionali) o diverse (équipe pluri- professionali), appartenenti alla medesima organizzazione o a sottosistemi della stessa, il cui compito è quello di lavorare in modo coordinato e integrato, per affrontare e trovare soluzioni al problema che non sarebbe risolvibile individualmente dai singoli componenti (ibidem).

Ormai è assodato che situazioni complesse che presentano un intreccio di fattori psicologici, sanitari, sociali, legali, economici, non possano essere risolte da un unico operatore.

Lavorare in équipe, se da un lato garantisce un’offerta maggiormente rispondente ai bisogni molteplici e attuali della società, dall’altro richiede una conoscenza delle dinamiche di gruppo e un buon coordinamento, per evitare che conflittualità tra professionisti e scarsa integrazione organizzativa producano effetti negativi sugli utenti.

L’andamento di un’équipe, la sua efficacia e il suo benessere, variano col variare delle circostanze esterne, come la casistica, la politica dell’ente, le risorse,

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e di quelle interne, cioè la storia del gruppo, le singole competenze e formazioni, le personalità di ciascuno (Mazza, 2013).

L’équipe è uno spazio mentale e fisico di problem solving, impegna i professionisti a collaborare con regole e ruoli definiti, e con la consapevolezza dell’interdipendenza tra i membri (Miodini, 2013).

L’Assistente Sociale fa parte di équipe stabili all’interno dell’ospedale, ma anche dei servizi territoriali, può costituire gruppi ad hoc, convocando operatori afferenti a servizi diversi, ad esempio associazioni di volontariato, residenze sanitarie assistenziali, centri antiviolenza.

L’équipe genera una complessità di interazioni, apprendimenti, stili di funzionamento utili a promuovere il lavoro di rete, crea senso di appartenenza e sostiene il clima organizzativo (ibidem).

Dalla riunione di équipe, in cui ci si confronta, si ascoltano le opinioni degli altri e si esprimono le proprie, deve scaturire un’ipotesi di lavoro costruttiva, che sia una mediazione tra i pareri formulati dai presenti (ibidem).

Tra gli aspetti critici vi è la gestione della dimensione del potere all’interno del gruppo, considerato che nei vissuti e nella cultura dei servizi esiste una sorta di gerarchia delle professioni che tende a dare minor valore alle professioni sociali rispetto a quelle sanitarie (ibidem).

Per comprendere il contributo dell’Assistente Sociale all’interno dell’équipe multiprofessionale è bene tenere presente che il suo apporto “è centrato sulla sua capacità di analisi e lettura del bisogno sociale in una visione sistemica e di attivazione delle risorse organizzative per lo svolgimento delle funzioni di protezione sociale” (ibidem).

É fondamentale la funzione di coordinamento dell’équipe, chi guida la “squadra” deve possedere competenze professionali, organizzative e relazionali.

Per mantenere un buon gruppo di lavoro è necessario che i partecipanti seguano alcune regole: partecipare in modo attivo, disponibile all’ascolto e al dialogo, rispettare reciprocamente le competenze e i contributi portati da ognuno, riconoscere i propri limiti e la possibilità di errore (ibidem).

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2.7 La supervisione

Per tutti i professionisti che lavorano in ospedale, Assistenti Sociali compresi, è molto forte l’impatto con alcune tipologie di pazienti, basti pensare alle vittime di abusi, ai malati terminali, o ai bambini con gravi patologie, per questo un’attività di supervisione può servire a rielaborare l’azione professionale sia sul piano tecnico che emotivo.

La supervisione è un processo di riflessione critica sugli aspetti metodologici, relazionali, emotivi e organizzativi dell’intervento, che l’Assistente Sociale attiva con la guida di un esperto, quest’ultimo deve essere riconosciuto dall’operatore o dall’équipe come competente, di solito viene privilegiata la scelta di professionisti che abbiano esperienze precedenti in quel settore.

“La supervisione è un sovrasistema di pensiero sull’intervento professionale, uno spazio e un tempo di sospensione, dove ritrovare, attraverso una riflessione guidata da un esperto esterno all’organizzazione, una distanza equilibrata dall’azione, per analizzare con lucidità affettiva sia la dimensione emotiva sia la dimensione metodologica dell’azione professionale, e per ricollocare l’intervento in una dimensione corretta, con spirito critico e di ricerca” (Allegri, 1997).

Il processo di supervisione può essere richiesto per la necessità di sospendere l’intervento professionale, come garanzia dell’attivazione del processo riflessivo, o per una funzione di accompagnamento sia in fasi di stallo operativo, sia in fasi di cambiamento organizzativo (Allegri, 2013).

Il supervisore parte da un’analisi del contesto e tenta di promuovere le competenze cognitive ed emotive degli Assistenti Sociali per finalizzarle alla qualità del processo di aiuto (ibidem).

Nelle équipe multidisciplinari si creano “contaminazioni”, termine che Elena Allegri (1997) utilizza per indicare quei meccanismi di scambio tra soggetti diversi, i quali porteranno i segni del cambiamento avvenuto, vengono quindi rilevate le differenze nei linguaggi e nei metodi di lavoro, in ospedale è possibile confrontare le diverse modalità di approccio al problema tra le professioni mediche e quelle sociali.

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La supervisione è una pratica formativa che permette una rilettura della situazione presentata, consente l’analisi delle proprie risonanze emotive ed affettive e favorisce, anche involontariamente, dei cambiamenti nelle dinamiche interne al gruppo, sviluppando una maggiore conoscenza tra i membri, e a volte attivando forme di coesione e un maggior senso di corresponsabilità sugli esiti degli interventi (Mazza, 2013).

Nei servizi pubblici gli obiettivi della supervisione sono: il potenziamento dell’équipe curante, la riduzione degli errori nella relazione con gli utenti, il contenimento del disagio tra i membri del gruppo (ibidem).

Dopo la formazione universitaria e la formazione continua che prevede la partecipazione a seminari, convegni e corsi, la supervisione è considerata l’ultima fase del ciclo formativo di un Assistente Sociale, si svolge in un contesto che permette la rielaborazione dell’azione professionale e richiede la disposizione ad imparare a pensare (Allegri, 1997).

La presenza degli Assistenti Sociali negli ospedali, risponde alla necessità di dare una sempre migliore qualità del servizio alle persone, va intesa in questo senso l’importanza attribuita alla formazione continua degli operatori e alla multiprofessionalità coordinata (ibidem).

La supervisione serve anche a rafforzare l’identità professionale dell’Assistente Sociale in ospedale, promuovendo azioni di comprensione del ruolo professionale, di negoziazione con altri ruoli, in questo modo incide indirettamente nella relazione tra l’Assistente Sociale e l’organizzazione (ibidem).

Il “problema dei confini” sembra emergere ogni volta che si collabora con altre figure professionali, questa dinamica richiede infatti un continuo sforzo di affermazione del proprio territorio di competenza, rispettando allo stesso tempo il ruolo degli altri. Il confronto con un supporto esterno, come quello del supervisore, aiuta a consolidare il proprio ruolo all’interno dell’équipe e a delimitare i confini professionali (ibidem).

L’attività di supervisione è importante per evidenziare il metodo, le strategie e le tecniche più utili per migliorare l’efficacia dell’intervento dell’Assistente Sociale in ospedale, anche attraverso l’analisi di casi problematici, il supervisore non risolve magicamente la situazione ma fornisce gli strumenti per affrontarla nel

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modo giusto. Le sedute di supervisione rendono più qualificante il servizio offerto agli utenti e danno un supporto rilevante al professionista (ibidem).

La supervisione aiuta a comunicare e a “fare gruppo”, necessità sentita soprattutto negli ospedali in cui non vi è un gruppo di Assistenti Sociali istituzionalmente riconosciuto, oppure in cui l’assetto del gruppo cambia continuamente per pensionamenti, sostituzioni e trasferimenti, in questi casi il compito più gravoso non è tanto quello dell’insegnamento delle prassi burocratiche al nuovo arrivato, ma piuttosto quello di ricompattare il gruppo (ibidem).

Considerando che la presenza degli Assistenti Sociali negli ospedali non è ancora considerevole e soprattutto non formalizzata in alcuni casi, se vi è un unico Assistente Sociale all’interno di un ospedale, questo oltre all’isolamento, è sottoposto al rischio di stress a causa di un carico di lavoro eccessivo sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.

Di fronte alla difficoltà di riuscire a rispettare i tempi, darsi delle priorità rispetto alle urgenze, mantenere un orario di ricevimento dei familiari e partecipare agli incontri delle équipe, il supervisore può suggerire di prendere in esame una settimana-tipo e riordinare le attività svolte, raggruppandole per funzioni (ibidem). Il carico emotivo è particolarmente pesante, per la drammaticità delle storie umane con cui si viene a contatto quotidianamente, gli utenti “ci costringono a equilibrismi per avvicinarci e insieme tenere le distanze senza troppo sbagliare”, citando Stefano Cirillo (2005) che, parlando del vissuto del terapeuta, suggerisce anche di lasciarsi coinvolgere “proprio per non perdere la sensibilità clinica che ci è indispensabile”.

Per fronteggiare queste difficoltà del lavoro sociale, i supervisori dovrebbero prendersi cura degli operatori “stanchi”, le cui motivazioni è naturale che siano indebolite dalle esposizioni agli insuccessi e dalle scarse gratificazioni professionali (Mazza, 2013).

Le ricerche sulla sindrome del burnout individuano come maggiore fattore di rischio il dislivello eccessivo tra “forte idealizzazione” e “frustrazione operativa” (ibidem), infatti tra i motivi più ricorrenti per i quali viene richiesto un intervento di supervisione vi è la prevenzione del burnout.

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Il burnout, che significa letteralmente andare in fusione, in cortocircuito, è rappresentabile come lo scarto tra una rappresentazione ideale del proprio lavoro e la sensazione di fatica, appiattimento, che si può trasformare nell’irrigidimento in atteggiamenti burocratici. Le motivazioni spesso dichiarate sono l’eccessivo carico di lavoro, la retribuzione economica, la burocratizzazione dei servizi (Allegri, 1997).

Questa sindrome colpisce le professioni di aiuto, quindi interessa prevalentemente i contesti sociali e sanitari, ed è stata studiata dalla psicologa Cristina Maslach che, nel 1982, ne ha dato una precisa definizione: «il burnout è la sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione, di ridotta realizzazione personale, che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente» (Gabassi, 2006).

Il burnout si differenzia dallo stress perché quest’ultimo è una reazione momentanea di adattamento, in parte normale, mentre il burnout è un processo che si sviluppa a lungo termine, si prolunga nel tempo e cronicizza, difficilmente si risolve da solo (ibidem).

Tra le cause vi sono fattori individuali e fattori organizzativi, sono determinanti il sovraccarico emozionale e il grado di coinvolgimento dell’operatore (ibidem), la supervisione è la modalità d’intervento più appropriata per prevenire il rischio di burnout, facilitare la collaborazione interdisciplinare tra i professionisti che lavorano in ospedale e favorire effetti coesivi.

E’ opportuno che il supervisore analizzi attentamente la richiesta d’intervento, che cerchi di capire che cosa stia succedendo a quell’organizzazione che esplicita un sistema di bisogni, e che rilevi le aspettative dei partecipanti che possono essere più o meno espresse (Allegri, 1997).

Il supervisore dovrebbe informarsi sugli accordi intercorsi tra l’organizzazione e i partecipanti, e sulle regole per la partecipazione. Prima di iniziare la supervisione dovrebbe essere chiara a tutti la definizione degli obiettivi, delle modalità di realizzazione e di verifica dei risultati (ibidem).

Il processo di supervisione incide su tre aree: l’area tecnico professionale, che comprende le conoscenze, le capacità e gli atteggiamenti professionali; l’area relazionale, che riguarda la dimensione relazionale con l’altro, che sia utente,

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collega o rappresentante di istituzioni, e con se stessi, ovvero con il sé professionale; l’area organizzativa, che comprende il rapporto con l’ente in cui l’Assistente Sociale lavora, l’analisi del mandato istituzionale e degli spazi di negoziazione con l’organizzazione (ibidem).

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Capitolo 3

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