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Le attività commerciali degli enti non commerciali

APPUNTI E RASSEGNE

1. Le attività commerciali degli enti non commerciali

Come è noto, l’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi effettuate nell’esercizio di impresa (D.p.r. n. 6 3 3 /7 2 , art. 1); per esercizio di impresa « si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commer­ ciali e agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 c.c., anche se non organizza­ te in forma di impresa » (art. 4, comma 1), ma, mentre per le società ed enti commerciali sono commerciali tutte le cessioni di beni e tutte le prestazioni di servizi (art. 4, comma 2 e 3), per gli enti non commerciali « si considerano effettuate nell’esercizio di impresa soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell esercizio di attività commer­ ciali o agricole » (art. 4, comma 4).

Per gli enti non commerciali, quindi, ed in particolare per gli enti pubblici non economici, occorre discriminare, tra le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, quelle fatte nell esercizio di impresa, da quelle non fatte nell’esercizio di impresa (ossia, riprendendo la formula della direttiva, quelle fatte « in quanto pubblica autorità »). Occorre, quindi, stabilire cosa intende l’art. 4 per esercizio di impresa.

Come già accennato, l’art. 4 identifica il concetto di esercizio di

im-(*) Relazione svolta a Brescia il 23 novembre 1990, al Convegno “ Conta­ bilità e revisione negli enti pubblici ” .

presa con quella di esercizio delle attività considerate negli artt. 2135 e 2195 del cod. civ.

Va però considerato il contenuto normativo di cui fanno parte le norme civilistiche richiamate dalla norma fiscale.

Il codice civile definisce dapprima l’imprenditore (art. 2082); poi pone dei criteri per discriminare, entro la categoria dell’imprenditore, le due specie dell’imprenditore commerciale e dell’imprenditore agricolo.

L’art. 2195, quindi, non definisce l’imprenditore (commerciale), ma la commercialità (dell’imprenditore).

Le disposizioni fiscali non richiamano l’art. 2082; non lo richiamano perché pongono un’autonoma definizione di imprenditore, che è basata sull’esercizio (di date attività) per « professione abituale », « anche sen­ za organizzazione di impresa ».

NeH'art. 2082, la definizione di imprenditore poggia su più elemen­ ti: a) professionalità; b) organizzazione; c) fine della produzione o dello scambio.

Nella definizione fiscale, non è menzionato il fine, ed è espunto espressamente il requisito dell’organizzazione; la definizione fiscale pog­ gia soltanto sull’elemento « professione abituale ».

Quindi, in sintesi, fiscalmente è imprenditore « chi esercita per pro­ fessione abituale un’attività commerciale ».

Ora, posto che sappiamo quali sono le attività commerciali, cosa s’intende per « professione abituale » quando ci riferiamo, non ad una persona fisica, ma ad un ente pubblico?

Il requisito della professionalità, secondo la dottrina commercialisti­ ca, significa « abitualità »; il diritto tributario, usando il sintagma « pro­ fessione abituale », di certo non intende significare « abitualità abitua­ le ». Cosa significa, allora, « professione abituale »?

Nel diritto fiscale, proprio perché è qualificata dall’abitualità, la professionalità non significa abitualità; ha un altro significato, che, nel caso degli enti pubblici, può voler qualificare un’attività che l’ente pub­ blico svolge, in contrapposizione a quelle di erogazione, con criteri di economicità.

E dunque la economicità di un servizio, contrapposta alla pura ero­ gazione, il punto su cui far leva; sono allora fiscalmente commerciali i « servizi pubblici economici », non lo sono « i servizi pubblici di eroga­ zione ».

Nella letteratura commercialistica più moderna, non si ritiene più che il fine di lucro sia un requisito dell’impresa; il che trova corrispon­ denza nel diritto tributario, ove non assume rilievo il fatto oggettivo che vi sia o no un profitto, e non ha alcuna rilevanza la destinazione del pro­ fitto: il che consente di delineare, accanto alla figura dell’impresa priva­ ta, la figura dell’impresa pubblica, riconducendo così imprenditore pri­ vato e pubblico entro l’unica comprensiva categoria dell’impresa [cfr. Galgano, L’imprenditore, Bologna, 1986, p. 38],

L’attività d’impresa, peraltro, se non è caratterizzata dal fine di lu­ cro come requisito essenziale, è però caratterizzata dalla « economici­ tà », il cui concetto è stato precisato proprio con riguardo all’impresa

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pubblica: economicità significa che lo svolgimento dell’attività importa « che chi la compie ritragga, almeno tendenzialmente, dalla cessione dei beni e servizi prodotti quanto occorre per compensare i fattori produttivi impiegati » [Ottaviano, Sulla sottoposizione dell’impresa pubblica alla

medesima regolamentazione di quella privata, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 275]; questo requisito ricorre per molti enti pubblici economici, le cui leggi istitutive richiedono che l’attività sia svolta con « criteri di eco­ nomicità »; « produrre con criteri di economicità significa — il punto è ormai acquisito — produrre in condizioni di pareggio di bilancio: l’attivi­ tà produttiva deve alimentarsi con i suoi stessi ricavi e non comportare erogazione ‘a fondo perduto’ della dotazione patrimoniale dell’ente e dei contributi che l’ente riceve dallo Stato. Il capitale investito nella attività produttiva deve quanto meno riprodursi al termine di ciclo produttivo » [Galgano, op. cit., p. 4],

2. La non imponibilità delle attività degli enti pubblici svolte « in quanto autorità ».

Ulteriori elementi per delimitare il concetto di attività commerciale degli enti pubblici provengono dal diritto comunitario. Mi riferisco alla sesta direttiva in materia di imposta sul valore aggiunto.

In tale direttiva, posto il principio generale che anche gli enti pub­ blici, che svolgono attività industriali e commerciali, sono soggetti Iva (non in base al n. 5 dell’art. 4, ma in base al n. 1), l’art. 4, n. 5, regola, nel suo insieme, le attività economiche svolte dagli enti pubblici « in quanto autorità », ponendo tre principi:

— il principio di non assoggettamento delle attività svolte dagli en­ ti pubblici in quanto autorità (comma 1); le attività autoritative non sono soggette ad imposta, perché non si tratta di attività industriali o com­ merciali; esse sono non soggette, prima ancora che per il disposto del n. 5, comma 1, per il disposto del n. 1 dell’art. 4;

— il principio di assoggettamento (delle attività degli enti pubblici svolte in quanto autorità) quando vi è concorrenza con i privati (comma 2);

— il principio di assoggettamento delle attività elencate nell’alle­ gato D, anche quando sono attività svolte dagli enti pubblici in quanto autorità.

Con la sentenza 17 ottobre 1989, in causa n. 231/87 e 129/88, in Un.

loc., 1989, 1412 (ma si veda anche la successiva sentenza 15 maggio 1990, in causa n. 4/89, ivi, 1990, 765), la Corte di giustizia ha precisato che le attività svolte dagli enti pubblici in quanto autorità sono le attivi­ tà da essi svolte secondo il regime giuridico (di diritto pubblico) loro proprio.

Inoltre, ha posto due principi, che meritano di essere messi in risalto. Si tratta dei principi enunciati ai numeri 1 e 4 del dispositivo della sentenza, ossia dei principi seguenti:

— « spetta a ciascuno Stato membro scegliere la tecnica normativa più consona per trasporre nel diritto nazionale il principio del non assog­ gettamento sancito dall’art. 4, n. 5, comma 1, della sesta direttiva »;

— « un ente di diritto pubblico può invocare l’art. 4, n. 5, della sesta direttiva, per opporsi all’applicazione di una disposizione nazionale che sancisca il suo assoggettamento all’Iva per un’attività, svolta in quanto pubblica autorità, che non sia elencata nell'allegato D della di­ rettiva e il cui non assoggettamento non sia atto a provocare distorsioni di una certa importanza ».

Pertanto, la mancata trasposizione nel diritto nazionale dell’art. 4, n. 5, della direttiva non impedisce ai comuni ed agli enti pubblici di op­ porsi all’applicazione dell’imposta sulle funzioni amministrative che pre­ sentino i requisiti di non assoggettamento secondo la direttiva; quindi, più precisamente:

a) i com u n i posson o opporsi all’ap p licazion e d e ll’I v a sulle funzioni am m inistrative, q u an d o esse costitu iscon o esp licazion e di p u b b lica auto­ rità e son o svolte dai com u ni se c o n d o il regim e loro proprio; p osson o del pari opporsi a p retese d ’ im posta, q u a n d o tale funzioni sono svolte in re­ gim e m isto, m a è p rem in en te il regim e pu bb licistico;

b) i com u ni n on posson o op p orsi a ll’ap p licazion e dell Iv a sulle loro fu n zion i am m inistrative, q u an d o tali fu n zion i, an che se svolte in quanto autorità e secon d o il regim e d e l diritto p u b b lico , h an no per og g etto atti­ vità ch e an che i privati posson o c o m p ie re e d il loro n on assoggettam ento p r o v o c h e r e b b e distorsioni di co n corren za di u na certa im portanza;

c) i com u n i non posson o op p orsi all’ ap plicazion e d e ll’I v a sulle atti­ vità in dicate n e ll’ allegato D , an ch e q u an d o tali attività sono sv olte da tali enti in qu an to p u b b lich e autorità e secon d o il regim e giuridico loro proprio.

3. L’ideologia « pancommercialistica » del Ministero delle finanze.

In Italia, la prassi d ei com u n i è tuttora inform ata a qu an to stabilito da una circola re m inisteriale d el 1976, ch e in dica una serie di attività soggette ad im posta, con un e le n co form ato da 26 v o ci. L a circola re, p e­ raltro, non in dica alcun criterio orien tativo p er distinguere le attività im pon ibili da q u elle non im pon ibili, m a sa ppia m o, esam in ando l ’ insiem e d elle pron u n ce m inisteriali sulla m ateria, ch e l ’id eolog ia (d efin isco id eo­ logia ogni dottrina giuridica ch e risulti sganciata da dati positivi) d e l M i­ nistero si p u ò riassum ere così: « son o attività com m erciali, soggette ad Iv a , tutte le attività e co n o m ich e rientranti n e ll’art. 2195 c .c .; qu in di, d o v u n q u e c ’è la cession e di un b e n e , o prestazion e di un serv izio, c ’è Iv a , an ch e se si tratta di attività di stretto diritto p u b b lico ».

Esaminando le voci dell’elenco di attività che, secondo la circolare del 1976, sono da sottoporre ad Iva, si constata che:

__ alcu n e attività corrisp on d on o letteralm ente alle attività d e ll’al­ leg ato D d ella direttiv a, rich iam ato dal co m m a 3 d el § 5 d e ll’art. 4 della d irettiv a (n. 1 - d istribu zion e di a cqu a, gas, elettricità e v a p ore; n. 3 - trasporti di p en sion e; n. 4 - trasporti di cose; n. 8 - servizi portuali ed aeroportu ali; n. 10 - gestione di m en se, sp acci; n. 12 - depositi);

— altre rifletton o l’ e le n co di p u b b lici servizi ch e i com u ni posson o gestire direttam en te ai sensi d e l reg io d e c re to 15 ottob re 1925, n. 2587;

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__ altre attività, infine, sono da considerare sicuramente di natura pubblico-autoritativa, e quindi sicuramente escluse da imposta, ai sensi della direttiva.

Se ciò fosse esatta esegesi della legge italiana sull Iva, se ne do­ vrebbe conclusivamente dedurre che tale legge è in evidente contrasto con la direttiva perché:

__ per la direttiva non sono soggette ad Iva le attività pubbliche svolte da enti pubblici in quanto autorità, anche se da tali attività 1 ente pubblico riceve « diritti, canoni, contribuzioni o retribuzioni »;

— per la circolare ministeriale, invece, sono soggetti ad Iva tutti i servizi resi da enti pubblici, anche se di natura pubblico-autoritativa, quando dal servizio l’ente ritragga un corrispettivo.

Il Ministero delle finanze ha seguitato ad uniformarsi all’ideologia « pancommercialistica » anche dopo la pubblicazione della pronuncia della Corte di giustizia. Di tale sentenza non vi è traccia nelle manife­ stazioni del pensiero ministeriale successive alla pronuncia della Corte.

Sappiamo invece che non tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rese da enti pubblici sono soggette ad imposta; lo sono soltanto quelle svolte nell’esercizio di impresa, e quindi non lo sono quelle che non sono svolte « per professione abituale » e quelle svolte « in quanto pubblica autorità ».

Per dimostrare la portata pratica di questa conclusione, saranno ora esaminati alcuni casi controversi.

4. Esame di casi controversi. Le attività editoriali degli enti pubblici.

Esaminiamo, innanzitutto, alcune attività editoriali di enti pubblici. Le pubblicazioni degli enti pubblici sono di vario tipo (bollettini ufficia­ li; Bu s a r l; listini mensili dei prezzi; elenco ufficiale dei protesti cambia­ ri; fogli annunzi legali, ecc.).

Il Foglio degli annunzi legali non è mai stato assoggettato ad Iva, per mancanza del presupposto soggettivo del tributo (come riconosciuto dal Ministero con telegramma del 10 gennaio 1973).

Circa le altre pubblicazioni, è da considerare la risoluzione ministe­ riale n. 626131 del 13 ottobre 1989, concernente il regime Iva di alcune pubblicazioni del Poligrafico dello Stato.

Secondo il Ministero, la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italia­ na, parte prima, e la Raccolta Ufficiale degli Atti Normativi della Re­ pubblica Italiana, « rientrano, ai limitati effetti applicativi dell imposta sul valore aggiunto, nelle categorie dei periodici, anche in assenza del requisito della registrazione presso la Cancelleria del Tribunale, forma­ lità, questa, esclusa dall’art. 9 del R .d. 4 marzo 1926, n. 37 , in quanto pubblicazione edita a cura dell Amministrazione dello Stato ».

Pertanto, secondo il Ministero, dette pubblicazioni sono assoggetta­ te, a partire dal Io gennaio 1990, all’imposta sul valore aggiunto con ali­ quota del 4 per cento.

Secondo il Ministero, inoltre, la parte seconda della Gazzetta Uffi­ ciale, e il Foglio degli annunzi legali della Provincia, non sono — ai fini

Iv a — dei p eriod ici, e d e v o n o p erciò essere assoggettati ad im posta con aliquota ordinaria.

A mio avviso, invece, il trattamento fiscale delle pubblicazioni so­ pra indicate non può essere determinato prescindendo dal vedere se so­ no edite nello svolgimento di un compito strettamente pubblicistico, non in concorrenza con i privati.

N ella disciplin a d e ll’ Iv a , n on tutte le p u bb licazion i son o soggette ad im posta, m a soltanto: o) le p u bb licazion i poste in v en d ita n ell’esercizio di una attività com m erciale; b) le pu bb licazion i p eriod ich e « registrate c o m e tali ai sensi d ella legge 8 fe b b ra io 1948, n. 47 ».

L e p u bb licazion i soggette ad im posta, q u in di, n on son o tutte qu elle edite « p eriod ica m en te » , m a solo q u elle ch e sono soggette alle « d isp o­ sizioni sulla stam pa » , ai sensi d ella citata le g g e d el 1948.

Le pubblicazioni in esame, invece, non sono soggette alle richiamate disposizioni; quindi esse sono estranee al precetto fiscale che, come ab­ biamo visto, richiama espressamente la legge del 1948.

Il Ministero delle finanze, come già riferito, considera la Gazzetta Ufficiale soggetta ad imposta « anche in assenza del requisito della regi­ strazione presso la Cancelleria del Tribunale »; invece, l’assenza di tale requisito non è fiscalmente irrilevante, perché espressamente previsto dall’art. 74 mediante richiamo della legge sulla stampa.

E poi d e cisiv o richiam are q u an to statuito in giurisprudenza, a p ro­ posito d el P olig ra fico d ello Stato e d ella p u b b lica zion e d ella G azzetta U fficia le.

La Cassazione ha distinto, tra le attività svolte dal Poligrafico dello Stato, quelle aventi natura imprrenditoriale da quelle non imprendito­ riali; tra queste ultime ha incluso l’attività relativa alla Gazzetta Uffi­ ciale, affermando quanto segue: « La stampa, la gestione e la vendita della Gazzetta Ufficiale ai sensi dell’art. 2, 1. 13 luglio 1966, n. 559 e dell’art. 2 del regolamento di attuazione, approvato con D .p.r.. 24 luglio 1967 n. 806, rientrano tra i compiti che l’Istituto Poligrafico e Zecca del­ lo Stato svolge nell’interesse pubblico mediante strumenti sottratti alla disciplina di diritto privato, inquadrandosi nell’ambito del procedimento pubblicistico che attiene alla pubblicazione delle leggi e dei provvedi­ menti normativi dello Stato, di cui tendono a rafforzare la conoscibilità da parte dei destinatari [Cass. civ., 21 giugno 1988, n. 4222, in Giur. it., 1988, I, 1, 1718]. La Cassazione ha conseguentemente escluso che tale attività possa essere considerata di tipo imprenditoriale.

T u tto c iò p orta ad esclu d ere — in contrasto c o n qu an to afferm ato dal M in istero — la sog g ezion e ad im posta d ella G azzetta U fficia le; di qui il passo è b r e v e p e r c o n clu d e re ch e, in g en erale, l ’editoria d eg li enti p u b b lici svolta in regim e p u b b licistico e p er la finalità di portare a c o n o ­ scen za d el p u b b lico determ inati atti giuridici (leggi regionali, atti delle società, protesti cam b iari, e c c .), sia attività n on im pren ditoriale, estra­ n ea alla sfera di ap p licazion e d e ll’im posta.

M erita q u a lch e con sid erazion e particolare il regim e g iuridico-fiscale d el Bu s a r l.

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Tale Bollettino è uno strumento di pubblicità legale degli « atti » e « fatti » relativi alle società commerciali [cfr. E. Bocchini, Bollettino uf­

ficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata, in Digesto

comm., voi. II, Torino 1987, p. 249]; non essendo stato istituito il regi­ stro delle imprese, la pubblicità delle società commerciali avviene attra­ verso l'iscrizione degli atti nei registri delle società tenuti dalle cancelle­ rie dei tribunali ed il deposito degli atti stessi presso tali cancellerie; a tale forma di pubblicità si aggiunge l’inserzione di una serie di atti nel Bu s a r l, in base alla disciplina prevista dal D .p.r.. 29 dicembre 1969, n. 1127 (e relativi decreti ministeriali di attuazione). Il contenuto degli atti da iscrivere ed i termini e gli effetti dell’iscrizione sono regolati dal co­ dice civile.

Il Bollettino regionale, istituito dalla legge 12 aprile 1973, n. 256, e regolamentato con D.m. 19 agosto 1974 e con D.m. 1 giugno 1988, n. 206, si distingue dal Bollettino nazionale, in quanto mentre il Bollettino nazionale riguarda le società quotate in borsa, quello regionale le società aventi sede nella regione [cfr. Bocchini, Il Busa regionale, in Giur. comm., 1974, I, 826].

Anche per il Bu s a r l, dunque, si può concludere che esso non e sog­ getto ad imposta, in quanto: a) la relativa attività editoriale è svolta in regime pubblicistico, per fini di conoscenza legale di determinati atti, nell’assolvimento, da parte di enti pubblici, di compiti istituzionali; b) non è soggetto alla legge sulla stampa.

5. La cessione di terreni ed aree fabbricabili.

In origine (ossia in base al testo originario del D.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, n. 2), non vi erano speciali disposizioni concernenti le ces­ sioni di terreni; tali cessioni, quindi, erano soggette ad imposta come tutte le cessioni di beni poste in essere da soggetti Iva.

Il D .p.r. 23 d ice m b re 1974, n. 873, con effe tto dal 1° genn aio 1975, esclu se da ll’ Iv a « cessioni ch e hanno p er og getto terreni, com p rese le aree edificabili, n onché le pertinenze e le scorte cedute contestualm ente ».

Sopravvenne poi la Sesta direttiva comunitaria in materia di Iva (17 maggio 1977, n. 77/388 Cee), ed il legislatore italiano, per adeguare la normativa nazionale a quella comunitaria, modifico la disciplina della materia, includendo nell’imposizione quelle cessioni di terreni che rien­ trano nel ciclo economico produttivo-distributivo che dev’essere assog­ gettato ad imposta, senza eccezioni od esclusioni.

Più precisamente, nella sesta direttiva è previsto l’assoggettamento ad Iva delle cessioni di terreni edificabili (considerando tali quelli « at­ trezzati o no, definiti tali dagli Stati membri») effettuate nell’esercizio di impresa (art. 4, § 3, lett. b); è inoltre prevista la possibilità di esone­ rare dal tributo soltanto « le cessioni di fondi non edificabili diverse del­ le cessioni di terreni edificabili di cui all art. 4, § 3, lett. b) ».

Conseguentemente, l’art. 2, comma 2, lett. c), del D .p.r. n. 633/72, è stato modificato (dal D .p.r. 29 gennaio 1979, n. 24): fermo il non as­ soggettamento, in generale, delle cessioni di terreni all’imposta sul

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re aggiunto, è stata introdotta una eccezione, concernente le cessioni che hanno per oggetto « terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria ».

La direttiva comunitaria non definisce il concetto di « terreno edifi­ cabilc », rinviandone la determinazione agli Stati membri. Sono però si­ gnificativi i lavori preparatori della direttiva (mi riferisco alla proposta di sesta direttiva, presentata dalla Commissione al Consiglio il 29 giugno 1973; ed alle modifiche alla proposta, presentate dalla Commissione al Consiglio dopo il parere reso dal Parlamento): secondo le proposte, il concetto di terreno edificabilc era definito in sede comunitaria, ma in termini assai ristretti (il concetto di terreno edificabilc era collegato al concetto di edificio e di fabbricato); per superare i contrasti, il testo de­ finitivo della direttiva rinvia alla legislazione degli Stati, ma mi pare di poter desumere dai lavori preparatori della direttiva e dal testo definiti­ vo che in sede comunitaria si mirasse alla tassazione, non di ogni terreno suscettibile di utilizzazione urbanistica, ma soltanto dei terreni destinati alla costruzione di fabbricati ed edifici (e quindi principalmente, se non esclusivamente, alla edilizia privata).

Inoltre, è significativo il coordinamento, nel corpo dell’art. 4 della direttiva, del § 3, lett. B) (che tratta dei terreni edificabili), con il punto

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