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Le caratteristiche degli occupati italiani

Nel documento LE DIMENSIONI DELLA QUALITÀ DEL LAVORO (pagine 44-55)

Sezione I - Inquadramento teorico ed empirico

1. Il quadro teorico di riferimento e il contesto italiano

1.3 Le caratteristiche degli occupati italiani

Descrivere un mercato del lavoro non è operazione agevole, specialmente se l’analisi è finalizzata a presentare un quadro di contesto nel quale leggere il profilo della qualità del lavoro. Se poi l’esposizione dei tratti fondamentali del lavoro in Italia in-tende, seppur in chiave descrittiva, dare conto dei legami con altri sistemi, quali il tessuto produttivo, il sistema di protezione sociale o la struttura demografica della popolazione, il compito diviene arduo. La prima difficoltà deriva dall’accezione che normalmente si impone al termine mercato, affermando implicitamente che l’assetto e il profilo del lavoro derivino esclusivamente dal risultato di attività negoziali. Se è pur vero che numerosi aspetti del lavoro legati alla qualità rappresentano l’esito del confronto tra domande e offerte (di lavoro, di competenze, di salario), è altrettanto indubbio che il profilo del lavoro svolto è il risultato di dinamiche non individuabili

1 Il quadro teorico di riferimento e il contesto italiano 43 con le sole categorie interpretative legate al mercato. Inoltre l’aver adottato come modello interpretativo il paradigma delle dimensioni indipendenti rende la lettura dell’occupazione in termini di mercato certamente riduttiva. Il profilo del lavoro nel nostro Paese è, in ultima analisi, comprensibile in maniera compiuta ricorrendo ad una lettura congiunta dei numerosi fattori che, direttamente o indirettamente, con-tribuiscono a determinarne i caratteri, agendo sia secondo meccanismi negoziali sia secondo dinamiche la cui comprensione richiede categorie di lettura diverse e artico-late.

Il profilo del mercato del lavoro va inteso pertanto in una accezione ampia, ed esteso a quei domini che, pure per il tramite dell’assetto del mercato, agiscono più o meno direttamente sulla qualità del lavoro. In primo luogo occorre considerare i sistemi collegati al lavoro (sistema di istruzione e formazione, welfare, tessuto produttivo, si-stema di regolamentazione), accanto a fattori che determinano quote rilevanti del li-vello della qualità, come il rendimento del capitale umano, la struttura demografica della popolazione, i modelli organizzativi d’impresa, la dinamica della mobilità socia-le. In tal modo è possibile dare conto del contesto nel quale la qualità del lavoro vie-ne osservata e misurata, senza imbrigliare la trattaziovie-ne in logiche eccessivamente riduttive e chiavi di lettura non esaustive della complessità del tema trattato.

Altra questione riguarda il carattere strutturale dell’assetto del lavoro in Italia, a cui sono il larga misura legate le caratteristiche della qualità, piuttosto che a dinamiche congiunturali di breve periodo. Il mercato del lavoro italiano si caratterizza per alcuni tratti organici, che si traducono spesso in elementi di debolezza, sia per i lavoratori che per le imprese. Tra questi l’elevato livello di segmentazione, un’inefficiente allo-cazione delle competenze, un basso rendimento dell’investimento in istruzione, una scarsa propensione delle imprese alla formazione, un tessuto produttivo fortemente sbilanciato verso la piccola e piccolissima impresa e poco incline all’innovazione, una marcata eterogeneità territoriale. A tali fattori sono in buona parte riconducibili sia il livello dell’occupazione nel nostro Paese, inferiore rispetto alla media europea, sia il profilo e la dinamica dell’occupazione e della disoccupazione.

1.3.1 La dinamica del mercato del lavoro tra crescita e recessione

Nel 2012 gli occupati in età compresa tra 15 e 64 anni sono stati in Italia poco meno di 22,5 milioni15

15. Fonte: ISTAT. Gli occupati in età superiore ai 15 anni assommano a 22,9 milioni.

, per un corrispondente tasso di occupazione pari al 56,8%, valore sensibilmente distante dalla media comunitaria (64,2% nell’UE-27). Anche non con-siderando l’impatto della fase recessiva, il livello dell’occupazione in Italia è lontano da quello dei maggiori paesi comunitari: nel 2007, prima dell’avvio della crisi eco-nomica, il tasso di occupazione italiano era pari al 58,7% a fronte del 69,0% della Germania, del 64,3% della Francia, del 71,5% del Regno Unito e del 65,3 della media comunitaria. Il basso livello di occupazione in Italia è riconducibile principalmente al-le regioni del Mezzogiorno continentaal-le e insulare (43,8% nel 2012) e alla compo-nente femminile della popolazione (47,1%). Sia il tasso di occupazione maschile

(66,5%) che quello riferito alle regioni del Nord (65,0%) sono, infatti, in linea con la media europea. L’elevata variabilità, sia di genere che territoriale, della propensione all’occupazione rende nel nostro Paese poco significativo il dato medio nazionale, portando a concludere che il basso livello di occupazione è dovuto in parte a pro-blemi specifici piuttosto che ad un fenomeno comune all’intero mercato del lavoro. L’impatto della crisi economica sul volume complessivo dell’occupazione non è stato in Italia più critico rispetto a quanto accaduto in Europa: il numero di occupati è di-minuito di 323mila unità tra il 2007 e il 2012, pari ad una flessione in termini relativi dell’1,4%, valore simile alla media comunitaria (-1,3%). Il confronto puntuale con al-cuni tra i principali paesi europei rivela tuttavia che la Francia e Germania hanno vi-sto aumentare il numero di occupati nel medesimo periodo (+1,0% e +5,5%, rispet-tivamente) mentre Grecia e Spagna hanno subito flessioni più consistenti (-16,6%, -15,1%). Occorre considerare che la dinamica del numero di occupati non fornisce una misura corretta dell’impatto della crisi sugli individui, dal momento che riporta un saldo tra ingressi e uscite dal lavoro. I lavoratori che hanno perso il lavoro nei primi anni della fase recessiva, e non ancora riassorbiti, aumentano le fila della di-soccupazione, mentre i nuovi ingressi al lavoro compensano le uscite, sostenendo il volume complessivo dell’occupazione.

La disoccupazione risulta pertanto aumentata in misura sensibile dal 2007 al 2012 (+4,6%) a fronte di un aumento pari al 3,3% della media comunitaria. Nel corso del 2012 il tasso di disoccupazione ha subito l’aumento più rilevante, dovuto in parte al-la transizione di un numero elevato di inattivi verso al-la ricerca di al-lavoro, spinti dalle difficoltà delle famiglie che, nella fase più critica della recessione, hanno messo in campo tutte le risorse per cautelarsi dalla perdita del lavoro o anche solo dal rischio di essere licenziati16

Prima dell’avvio della crisi economica la disoccupazione italiana mostrava di aver re-cuperato ampiamente gli elevati livelli degli anni Novanta, passando in meno di un decennio, da valori superiori al 12% al 6,1% del 2007. Pur nascondendo la consueta variabilità, soprattutto rispetto al territorio, il livello medio della disoccupazione ita-liana non presentava fino al 2007 caratteri marcatamente strutturali. Tuttavia il mercato del lavoro italiano si è dimostrato più esposto agli effetti di congiuntura ri-spetto ai maggiori paesi europei: la relativamente bassa flessione dell’occupazione e il parallelo cospicuo aumento della disoccupazione sono riconducibili ad un mercato sufficientemente in grado di tamponare brevi effetti di congiuntura ma in difficoltà nel riassorbire quote crescenti di disoccupazione. Tali elementi suggeriscono la pre-senza di caratteristiche riconducibili all’azione delle politiche per il lavoro, il cui as-setto ha contribuito alle dinamiche osservate nei recenti anni di congiuntura eco-nomica negativa e relative, in estrema sintesi, all’assenza di un sistema

universalisti-.

16. Accanto a tali motivazioni va aggiunto il lento ma progressivo processo di erosione del risparmio delle famiglie, che nel corso della lunga fase recessiva è stato utilizzato per compensare la diminuzione del red-dito da lavoro. La riduzione del risparmio ha spinto quote di popolazione inattiva a cercare lavoro, contribuen-do all’aumento del tasso di disoccupazione.

1 Il quadro teorico di riferimento e il contesto italiano 45 co di ammortizzatori sociali e ad un apparato frammentato delle politiche attive del lavoro.

1.3.2 La politiche del lavoro: ammortizzatori sociali e formazione

professionale

Il regime ordinario della cassa integrazione guadagni si è dimostrato fin dai primi mesi di recessione largamente insufficiente per tamponare gli effetti della crisi sull’occupazione. La perdita del posto di lavoro, e la conseguente riduzione delle en-trate delle famiglie, non sarebbe stata compensata in misura adeguata se dai primi mesi del 2009 non fosse stato attivato un sistema di sostegno al reddito di carattere straordinario, avviato con provvedimenti in deroga17

Fino ai primi mesi del 2013 il regime di sostegno al reddito in caso di sospensione o di espulsione dal lavoro ha mantenuto il carattere di emergenza; una spinta all’intro-duzione di un sistema universalistico e strutturato di ammortizzatori è venuta dalla legge 92 del 2012, voluta dal Ministro del lavoro Elsa Fornero, che ha introdotto, ac-canto alla cassa integrazione guadagni, lo strumento dell’ASPI

all’insufficiente regime ordina-rio di ammortizzatori. Se da un lato l’adozione di misure di emergenza ha consentito di tamponare rapidamente l’impatto della crisi sui redditi delle famiglie, dall’altro ha messo in luce la necessità di un sistema strutturato di ammortizzatori sociali in gra-do di limitare i danni in periodi recessivi, ma anche di favorire, in fasi espansive, la copertura del reddito nei periodi di disoccupazione del segmento del mercato del la-voro caratterizzato da maggiore flessibilità occupazionale e da elevata mobilità.

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L’entrata a regime dell’ASPI, la cui piena attuazione non è prevista prima del 2017, sebbene abbia generato più di una perplessità sulla sua reale capacità di introdurre nel nostro Paese un sistema di ammortizzatori di carattere universalistico, rappre-senta un passo in avanti per adeguare il mercato del lavoro italiano a quello di molti paesi europei.

(Assicurazione socia-le per l’impiego) destinato al sostegno del reddito dei disoccupati.

Accanto alle misure di sostegno al reddito nei periodi di perdita del lavoro, le politi-che attive, quali i servizi all’impiego e la formazione, assumono nel nostro Paese una valenza importante. Il tema della formazione professionale rappresenta uno dei pila-stri del modello della flexicurity, promosso dalla Commissione europea come schema virtuoso di funzionamento del mercato del lavoro (Muffelset al., 2002). In estrema

sintesi il modello prevede un assetto regolamentativo del lavoro in cui la compresen-za di un elevato livello di flessibilità in ingresso e in uscita, di un robusto sistema di sostegno al reddito dei lavoratori nei periodi di disoccupazione, di una offerta diffusa ed efficiente di servizi per l’impiego e di opportunità formative per adeguare le com-petenze dei lavoratori alle esigenze della domanda di lavoro, assicura un adeguato li-vello di tutela dell’impiego in un mercato caratterizzato da elevata mobilità e flessi-bile contrattuale. Nella sua formulazione originaria il paradigma – che oggi, dopo ol-tre quattro anni di recessione quasi ininterrotta, appare invero assai meno

17. Legge 2 del 2009.

le rispetto agli anni in cui fu introdotto – prevedeva che anche l’assenza di uno dei fattori sopra richiamati avrebbe minato l’applicabilità dell’intero modello.

La promozione di un sistema compiuto di formazione professionale, che sul piano si-stemico ha trovato sostegno nella diffusione della flexicurity nel nostro Paese, non appare aver ancora pienamente raggiunto gli obiettivi. L’assetto della formazione professionale in Italia appare oggi eccessivamente disarticolato: accanto ad espe-rienze positive, dove essa ha dimostrato di svolgere una funzione fondamentale nel formare le competenze più opportune per l’ingresso dei giovani nel mercato del la-voro e per sostenere la domanda di competenze delle imprese, si registrano contesti dove la formazione professionale non riesce a conquistare uno spazio adeguato e a mantenere il livello qualitativo necessario ad allocare correttamente le competenze nel mercato del lavoro. All’assetto della formazione professionale sono legati due ul-teriori elementi del sistema di sviluppo delle competenze: la formazione continua e-rogata dalle imprese ai propri dipendenti e il contratto di apprendistato, rimasto l’unica forma di lavoro che prevede la formazione del lavoratore come obbligo con-trattuale. Riguardo il primo aspetto si rileva una tendenza alla formazione da parte delle imprese sensibilmente più bassa in Italia rispetto alla media europea; il sistema produttivo italiano mostra una propensione alla formazione fortemente sbilanciata verso le medie e le grandi imprese, mentre le piccole e piccolissime imprese stentano anche solo ad esprimere una domanda formativa compiuta (ISFOL, 2012). Un simile contesto rende l’intero mercato del lavoro italiano largamente inefficiente nell’af-frontare le sfide più recenti, non necessariamente connesse alla fase di congiuntura negativa, ma strutturalmente legate alle mutate condizioni della divisione interna-zionale del lavoro e all’aumento della pressione competitiva dei mercati esteri, di ri-levanza cruciale per un paese con una marcata vocazione all’export, dove il pilastro dell’adeguamento delle competenze assume una valenza di carattere sistemico. 1.3.3 Mercato del lavoro e capitale umano

Quest’ultimo elemento introduce una ulteriore caratteristica del mercato del lavoro italiano, relativa al basso rendimento dell’investimento in capitale umano, sia per i lavoratori che per le imprese.

Considerando separatamente offerta e domanda di competenze, un meccanismo vir-tuoso viene attivato incrementando la propensione allo sviluppo di capitale umano da parte dell’offerta di lavoro grazie alla maggiore remunerazione, e garantendo, dal lato della domanda, una dinamica delle innovazioni del sistema produttivo in grado di assorbire le nuove conoscenze e competenze di cui sono portatori i lavoratori e crementare i propri livelli di produttività ed efficienza. Tale processo, che rende in-centivante l’investimento in capitale umano sia per i lavoratori che per le imprese (e in ultima analisi per l’intero sistema), sembra nel nostro Paese aver subito un rallen-tamento, con ricadute sulla sostenibilità del mantenimento dei livelli di competitivi-tà, rischiando di allontanare l’Italia dai principali competitors dell’area continentale. Nel nostro Paese la remunerazione, in termini retributivi, dei livelli di istruzione su-periore è inferiore rispetto ad altri paesi: un laureato italiano, in età compresa tra 25 e 34 anni, percepisce un reddito da lavoro pari al 122% di quello di un diplomato

1 Il quadro teorico di riferimento e il contesto italiano 47 nella stessa classe di età19

Il livello medio di istruzione della forza lavoro è inoltre in Italia più basso rispetto ai principali paesi europei: l’incidenza degli occupati con istruzione terziaria era pari nel 2010 al 17,5%, contro il 29% della media comunitaria a 27 paesi

, a fronte del 134% di un laureato francese e del 139% di un tedesco. Un basso premio retributivo disincentiva i giovani ad investire in istru-zione con il risultato di limitare l’accesso di nuove competenze nel sistema produtti-vo.

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Il capitale umano è pertanto un bene scarso nel nostro Paese, ma sebbene l’offerta di tale bene sia limitata, il suo prezzo (la remunerazione in termini salariali) è basso. Ciò porta a ritenere che non vi sia una domanda adeguata di tale bene e che, parallela-mente, la qualità del capitale umano non sia appropriata alle esigenze delle imprese. Da un lato, le imprese non ritengono di dover attivare strategie di investimento ba-sate sull’utilizzo delle competenze, specialmente quelle innovative, limitandosi a competere sui costi di produzione e assumendo forza lavoro mediamente poco sco-larizzata; dall’altro il sistema di istruzione terziaria ha mantenuto una distanza ec-cessiva dal mercato del lavoro, ritardando in molti casi l’adeguamento dei percorsi alle mutate esigenze della domanda.

, il 27,6% della Germania, il 33% della Francia e il 27,1% del Regno Unito. L’analisi dinamica mostra che l’incidenza dell’istruzione terziaria sull’occupazione è aumentata in dieci anni di 5,4 punti percentuali, a fronte di oltre 9 punti della Spagna, 7,7 della Francia e 7,7 del Regno Unito. Solo la Germania ha visto aumentare la quota di laureati sull’occu-pazione in misura minore rispetto all’Italia (+2%), ma occorre considerare che la Germania presenta un livello superiore all’Italia di quasi 10 punti percentuali. Per contro l’Italia registra una elevata incidenza di occupati con livello di istruzione infe-riore alla scuola secondaria, pari al 35,8% nel 2010, contro il 22% della media co-munitaria.

Lo scarso rendimento del capitale umano contribuisce ad un altro fenomeno del no-stro mercato del lavoro, il sottoinquadramento. Una quota rilevante di occupati, in prevalenza giovani, svolge una professione per la quale è richiesto un titolo di studio inferiore a quello posseduto. L’incidenza del sottoinquadramento21

19. Fonte: OECD (2013), Indicator A6 What are the earnings premiums from education?, in OECD, Edu-cation at a Glance 2013: OECD Indicators, OECD Publishing.

era pari nel 2012 al 20,0% sul totale degli occupati e al 29,3% nella fascia di età compresa tra 15 e 34 anni. Tale fenomeno conferma le distorsioni presenti nell’allocazione del capitale umano nel nostro Paese, che non ha effetto solo sulla qualità del lavoro degli occu-pati e sulle loro aspettative verosimilmente frustrate, ma anche sul livello di efficien-za dell’intero sistema paese. Il costo della formazione di capitale umano ricade in massima parte sulla collettività, dal momento che l’istruzione pubblica è solo

par-20. Fonte: EUROSTAT.

21. I sottoinquadrati comprendono gli occupati in possesso di un titolo di studio più elevato rispetto a quello prevalentemente associato alla professione svolta (la definizione ISTAT utilizza la classificazione interna-zionale ISCO-88, il dato riportato utilizza la classificazione nainterna-zionale CP-2001). Fa eccezione il primo gruppo professionale (legislatori, dirigenti e imprenditori), per il quale qualsiasi titolo di studio è considerato adeguato. Il dato è stato calcolato sui dati dell’Indagine sulle forze di lavoro condotta dall’ISTAT.

zialmente finanziata dalle tasse di iscrizione alla scuola e all’università. Il costo so-stenuto rappresenta un investimento dal quale ci si attende un rendimento in termi-ni di maggiore efficienza produttiva22

In un simile scenario il capitale umano investito nel processo di produzione di beni e servizi rischia, da un lato, un lento deterioramento dovuto all’obsolescenza delle competenze, e, dall’altro, di non essere più in grado di sostenere, tramite una ade-guata remunerazione, quel meccanismo virtuoso in grado di assicurare benefici pa-ralleli e complementari per l’offerta di lavoro e per il sistema produttivo.

, in assenza della quale la spesa sostenuta dalla collettività rappresenta una perdita di risorse.

1.3.4 Struttura demografica e segmentazione del mercato del lavoro

Il profilo demografico dell’occupazione italiana si caratterizza, come accennato in apertura, per alcuni tratti critici, che assumono sovente un carattere strutturale: una debole incidenza della componente femminile nella forza lavoro; un basso tasso di occupazione della popolazione in età avanzata; un livello elevato di disoccupazione giovanile; una elevata variabilità territoriale dei tassi di occupazione e disoccupazio-ne.

Il tasso di attività femminile nel 2012, riferito alla popolazione in età compresa tra 15 e 64 anni, è stato pari al 53,5%, a fronte del 65,6% della media comunitaria a 27 paesi. Il livello di partecipazione femminile al mercato del lavoro è in Italia superiore solo a quello di Malta e si discosta in misura sensibile non solo dai paesi dell’Europa centrale come Germania (71,7%) e Francia (66,7%) ma anche dagli stati dell’area mediterranea come Portogallo (70,1%), Spagna (67,9%) e Grecia (58,4%). La propen-sione alla partecipazione delle donne non è omogenea sul territorio nazionale: le re-gioni del mezzogiorno continentale e insulare mostrano livelli particolarmente con-tenuti (39,3% nel 2012) mentre nelle regioni del Nord il livello del tasso di attività femminile è prossimo a quello medio comunitario (62,3%).

La componente femminile della popolazione rappresenta una risorsa importante per la crescita dell’occupazione: la maggior parte dell’incremento degli occupati registra-to nel periodo di espansione, precedente alla crisi economica del 2008, è staregistra-to dovu-to alle donne, che hanno registradovu-to un aumendovu-to dell’occupazione, tra il 1998 e il 2007, pari al 20,3% contro l’8,4% degli uomini. Tali evidenze non rendono meno ur-gente il problema dell’inattività femminile che conserva nel nostro Paese tratti di na-tura marcatamente strutna-turale. Numerosi studi (Pistagni, 2011) hanno evidenziato alcuni tra i fattori determinanti della bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, mostrando che accanto ad elementi riconducibili al mercato (minore re-tribuzione attesa rispetto agli uomini, ridotta flessibilità degli orari di lavoro, doman-da di lavoro segmentata) si trovano motivi legati all’assetto del sistema di welfare

22. L’aumento di capitale umano produce una serie di effetti per l’intera collettività, non limitati alla sfera produttiva: una crescita dei livelli di scolarizzazione nel medio-lungo periodo tende a generare una serie di esternalità che favoriscono direttamente o indirettamente lo sviluppo, riconducibili al senso di appartenenza alla comunità, ad una maggiore condivisione di virtù civiche, a più bassi tassi di criminalità, ad una maggiore

Nel documento LE DIMENSIONI DELLA QUALITÀ DEL LAVORO (pagine 44-55)