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Capitolo 3: Il mercato aurifero

6. Le conseguenze dell'attività estrattiva di Pechino

Non meno di quanto avvenga per l’estrazione delle altre risorse naturali ed energetiche, l’estrazione dell’oro africano comporta rischi, dapprima, e danni, dappoi, decisamente non trascurabili e molto spesso irreversibili.

In merito all’ardito e temerario modus operandi di Pechino, nonché all’inavvedutezza che il colosso asiatico mostra nell'appropriarsi dell’oro del Continente Nero, gli analisti commentano (Occorsio, 2008):

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“In Cina, paese che vuole sostenere la sua forsennata corsa allo sviluppo anche con l’oro, in massima parte da immettere nelle proprie riserve [...], non si guarda troppo per il sottile in tema di sicurezza sul lavoro, di tutela dei minatori, di accortezze ecologiche. Nel Transvaal sudafricano invece, paese in cui l’estrazione aurifera è stata il simbolo delle lotte contro l’apartheid e successivamente per il ripristino dei diritti umani, è diventato fortunatamente difficile mettere al lavoro degli uomini a quattromila metri sottoterra o in crateri a cielo aperto devastanti per l’ambiente, alle prese oltretutto con una fatica improba (per estrarre un’oncia d’oro bisogna setacciare anche 100 tonnellate di terra) [...].”

Dunque, anche nel caso del metallo prezioso, il denominatore comune delle varie realtà è ancora una volta lo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente (Copparoni, 2017).

L’80% delle più importanti miniere africane è controllata da compagnie multinazionali le quali, attraverso le dure condizioni lavorative imposte ai minatori e grazie all’infimo costo della manodopera, traggono cospicui profitti dalle fatiche di terzi (Choma 2009, p.14).

In risposta a ciò, sono numerosi gli scioperi indetti dai minatori, guidati dal National Union of

Mineworkers (NUM) e finalizzati alla richiesta di un aumento dei salari ed un miglioramento

delle condizioni lavorative.

Ancora, poiché l’estrazione aurifera richiede spesso la creazione di anguste gallerie e cunicoli dalle profondità notevoli, sono sovente i bambini a trovare occupazione in queste miniere. Invero, l’esile conformazione fisica consente loro di raggiungere particolari zone dei giacimenti minerari che risulterebbero altrimenti irraggiungibili ed inesplorabili.

Oggigiorno la legge di numerosi Stati africani vieta il lavoro minorile; tuttavia, ciò non è sufficiente ad arrestare il fenomeno ed impedirne l’estistenza (Copparoni, 2017).

In questo contesto di sfruttamento, anche l'ambiente è costretto a subire gravi danni. Difatti, per praticare la cosiddetta “estrazione d’oro a cielo aperto”, ovvero un tipo di attività estrattiva praticata in superficie e che interessa vaste aree del territorio, vengono comunemente utilizzate le

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pericolosissime tecniche di amalgamazione e cianurazione: al fine di estrarre l’oro incastonato nelle rocce e purificarlo, vengono impiegati mercurio e cianuro, due sostanze chimiche

estremamente nocive per l’essere umano e per l’intero ecosistema.

In numerosi Paesi africani, la contaminazione da mercurio e cianuro delle falde acquifere ha già provocato diversi casi di paralisi, cecità ed aborti spontanei (ibid.; Choma 2009, p.14). Inoltre, le insalubri condizioni igeniche delle miniere rendono diffuse, fra i minatori, le malattie polmonari come tubercolosi e silicosi (Stefanini, 1937).

Nondimeno, mercurio e cianuro deturpano l’ecosistema riducendo il numero delle specie presenti sul territorio ed asfissiando le foreste con inquinanti tossici, piogge acide derivanti dal

trattamento del metallo grezzo e polveri provenienti dalle industrie produttive (Choma 2009, p.15).

Nelle regioni produttrici d’oro situate a sud del Ghana, le popolazioni locali hanno manifestato a gran voce contro gli invasori cinesi: questi, giunti in massa ed in modo incontrollato, hanno preso possesso dei terreni più redditizi deturpando l’ambiente, devastando le foreste e riversando mercurio nel suolo e nei corsi d’acqua (French, 2015).

Un altro elemento che lascia molto discutere è l'irresponsabilità cinese: una volta concluse le operazioni estrattive, gli imprenditori cinesi tendono ad abbandonare le aree incriminate senza curarsi di portar via gli strumenti utilizzati o di risanare le condizioni dei terreni, resi ormai infertili da pericolosi tunnel sotterranei e paludi artificiali (Copparoni, 2017).

Ovviamente, a pagare direttamente le conseguenze degli interventi cinesi sono, in primo luogo, le popolazioni locali africane situate ai margini delle aree industriali ove si svolgono i lavori d’estrazione. In egual misura è coinvolto l’ecosistema, che teoricamente dovrebbe garantire il sostentamento e la sopravvivenza delle stesse ma, de facto, è stato talmente compromesso dalla mano cinese da impedire lo sviluppo della produzione agricola locale per intere generazioni a venire (Choma 2009, pp. 14 e 17).

Oltre alle conseguenze materialmente percepibili, ve ne sono molte, altrettanto pericolose, che colpiscono l’economia interna e lo sviluppo dei Paesi africani. Infatti, un gran numero di operazioni inerenti il mercato aurifero sono svolte dalla Cina nella più totale illegalità.

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Ciò ha portato spesso ad episodi di estesa corruzione e contrabbando d’oro, nonché alla creazione di ampie reti di traffici illegali.

A tal proposito, è emblematico il caso di frode verificatosi nel 2012 in Repubblica Democratica del Congo (RDC), nei pressi del fiume Ituri.

Qui, un’impresa mineraria aurifera semi-industriale cinese di nome “Fametal” si è spostata liberamente, senza alcuna licenza mineraria, da una regione all’altra della Provincia Orientale in cerca di oro. Ciò ha provocato il disdegno delle organizzazioni della società civile del distretto di Ituri, le quali hanno accusato l’impresa cinese di operare nella più completa illiceità, in quanto non registrata fra le compagnie autorizzate ad intervenire sul territorio (Carish 2014, p.35). L’azienda operava sul fiume Ituri servendosi di una poderosa draga che, senza considerare gli ingenti danni ambientali, le avrebbe permesso di accaparrarsi -in modo occulto ed illegale- un enorme quantitativo d’oro. Secondo i documenti ufficiali rilasciati dal capo della Cellule des

Mines du district de l’Ituri Bakangu Ngadjole, la società avrebbe prodotto una media di 5

grammi d’oro al giorno.

Tuttavia, molti esperti del settore affermano si tratti di cifre truccate: in realtà, l’oro estratto quotidianamente dal fiume sarebbe compreso fra i 50 grammi ed i 5 kg. Inoltre, la Fametal si sarebbe spostata da un punto all’altro dell’Ituri senza avvertire le autorità, appropriandosi in tutta impunità dell’oro legale, estratto dai minatori congolesi, e di quello clandestino, spesso estratto da bande armate e di “guerriglieri” (Oro africano, la frode cinese del fiume Ituri, 2012).

Nel traffico d'oro con la potenza asiatica sembra siano stati fortemente coinvolti anche dei militari – non è un caso che a bordo della draga targata Fametal siano state rinvenute delle armi, mentre le miniere clandestine sarebbero state “sorvegliate” dalla polizia locale (ibid.).

Quando la vigilanza della società civile dell’Ituri è riuscita ad interrompere per vie legali le attività della Fametal, gli operatori minerari cinesi hanno opposto resistenza.

Non solo, essi sono stati liberati pochi giorni dopo l’arresto, quando le autorità della Provincia hanno ricevuto conferma da “alcuni uomini potenti di Kinshasa” che la Fametal aveva ottenuto dalla capitale tutti i permessi necessari per svolgere l’attività mineraria nell’area. Inoltre, le autorità provinciali sono state caldamente invitate a non interferire ulteriormente nelle operazioni

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dell’azienda (Carish 2014, p.35). Alle denunce delle comunità locali, il Ministero delle Miniere della RDC ha risposto con un pesante silenzio.

Nonostante l’ovvietà dei fatti, nessuna forza governativa sembrerebbe dunque aver contrastato l’operato dell’azienda, il quale risultava palesemente in contraddizione con la legislazione congolese in vigore (Oro africano, la frode cinese del fiume Ituri, 2012).

Purtroppo, quanto avvenuto in RDC non è un caso isolato. Difatti, alcune ricerche svolte dal

Southern Africa Resource Watch (SARW) hanno portato alla luce dati che dimostrano, fra 2011

e 2013, la presenza di un numero cospicuo di operatori minerari cinesi o sino-congolesi non registrati, i quali hanno svolto attività estrattive senza licenza lungo le rive del distretto Ituri. L’oro grezzo estratto da queste imprese, contrariamente a quanto richiesto dalla legge, non era valutato né tassato dal Centre d’Evaluation, d’Expertise et de Certification (CEEC) (Carish 2014, p.35).

Complessivamente, il quadro che emerge dall’analisi del mercato aurifero sino-africano risulta dunque assai complesso e delicato.

Non solo l’attività estrattiva cinese ha avuto serie ripercussioni sociali, ambientali ed economiche su tutto il Continente Nero, ma essa manca anche di trasparenza, un elemento fondamentale ed alla base di qualsiasi rapporto commerciale solido e duraturo.

Cionondimeno, in un paese come l’Africa caratterizzato da una scarsa possibilità di trovare occupazione e da salari miseramente bassi, la produzione ed il commercio di oro -per vie legali o illegali- restano una delle principali risorse di cui il Paese dispone, nonché fattori chiave per la potenziale crescita ed il risollevamento dell’economia statale (Copparoni, 2017).

Di tutto ciò, Pechino si compiace e non poco. Difatti, è proprio tale fragile meccanismo che le consente di trarre benefici ineguagliabili dall’estrazione dell’oro africano e, più in generale, dal commercio aurifero con l’Africa.

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