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Le epifanie di Vitangelo

2.2. La narrativa cantoniana

3.3.1. Le epifanie di Vitangelo

Vera e propria epifania, dunque, quella del naso storto,

[…] come se quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo. […] Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri.

Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.412

È da questo momento che il ventottenne, età dichiarata in apertura di romanzo, inizia il suo cammino a ritroso verso la propria espiazione, attraverso un percorso scomposto, ma solo ora dotato di traguardo: quello di uscire completamente da se stesso per poter fare la conoscenza di quegli estranei che – ormai gli è sempre più chiaro – albergano dentro di lui e potersene liberare una volta per tutte, consapevole di essere ormai indipendente da loro, ossia di poter vivere senza un’identità.

Il concetto di estraneità occupa per lui una duplice collocazione, dentro e fuori di sé: questo lo porta a sentirsi perso non solo a contatto con il prossimo, ma pure con se

410 Ivi, p. 742.

411 Ivi, p. 820.

412 Ivi, p. 811.

stesso, trovando lì un nemico peggiore di tutti quelli che potrebbe avere intorno, proprio perché tale nemico alberga niente meno che nella sua interiorità. Se è vero, infatti, che

Mi si fissò […] il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere [,]413

è altrettanto vero che

Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno. […] La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno […], così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.414

Attraverso l’ottica ribaltata, necessaria per interpretare correttamente la battaglia di Vitangelo,415 la vera solitudine, condizione indispensabile per riscattarsi da quel tarlo che si è insinuato dentro di lui a causa delle considerazioni altrui, va cercata e trovata proprio in compagnia degli altri.

Sono loro, con i pregiudizi e gli artifizi di cui si fanno portatori, le uniche molle utili per far scattare le considerazioni che lo porteranno a uno stato di consapevolezza tale da renderlo davvero pago e sicuro perché capace di rinnovarsi ogni volta, non più ingabbiato in una forma precostituita di cui tanto si sente la necessità, ma che è parimenti impossibile da raggiungere veramente:

Così io volevo esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere.416

Se la sconvolgente scoperta di Vitangelo è quella di essere sempre qualcosa di diverso

[…] in questo e in quello dei miei conoscenti [,]417

la novità assoluta sta nella risposta ch’egli trova a questo stato di cose: egli non cerca solo di isolarsi, come aveva fatto Mattia, né di mimetizzarsi, secondo la scelta di

413 811.

414 Ivi, p. 748.

415 «Dovevo a volta a volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d’essere […]». Vd. ivi, p.

786.

416 Ivi, p. 748.

417 Ivi, p. 786.

Gubbio, ma vuole estraniarsi.418 Solamente così si può raggiungere quell’Oltre che abbiamo detto essere nuova meta e nuova linfa per questi personaggi, i quali deformandosi sconfiggono la morte. Tutto ciò significa riconoscere la differenza essenziale tra lo spirito e il corpo per realizzare che, se il secondo è un abito per il primo, ciò non significa debba determinarlo; esso, anzi, rischia di coprirlo e condizionarlo fino a impedirgli di palesare i suoi veri intenti. Lo studio di sé di fronte allo specchio ha, per Vitangelo, lo scopo di riuscire a guardare quel corpo con la distanza necessaria per allontanarlo dalla propria coscienza di sé, fino a

[…] vedere staccato dal mio spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.

Ah, finalmente! Eccolo là!

Chi era?

Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse.419

Il corpo non è più dunque necessario, ma accessorio, così come relativa è l’angolatura da cui si osserva e s’interpreta la realtà per coglierne il moltiplicarsi. Se essa, infatti, è statica per ciascuno, diventa dinamica in relazione alla collettività che vi si rapporta:

Perché vi pare che sia propriamente questione di gusti, o d’opinioni, o d’abitudine; e non dubitate minimamente della realtà delle care cose, quale con piacere ora la vedete e la toccate.420

418 Si pensi al fatto che Mattia Pascal inizia la propria fuga dal mondo attraverso un volontario cambiamento dell’aspetto fisico per cancellare anche su di sé le tracce del passato in modo da facilitarsi la creazione di una nuova esistenza. Per realizzare questo non serve solo l’inganno del prossimo, ma anche la sua personale convinzione verso il nuovo ruolo datosi. Questa si può ottenere anche grazie a un aspetto più confacente a essa, un volto che dallo specchio gli dia conferma dell’efficacia degli sforzi fatti quotidianamente per rappresentare la messinscena. Come Vitangelo, anche Mattia vive un momento epifanico in cui riconosce per la prima volta la propria fisicità e il vero peso dei suoi difetti; egli non riesce, però, a superare la prima fase di sconvolgimento e vi si accanisce contro a tutti i costi, cercando infine di adattarvisi: «Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori da una necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal! […] Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch’egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell’occhio! […] Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso sembrerò un filosofo tedesco. […] Non c’era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d’aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d’una discreta filosofia sorridente […]». Vd. Il fu Mattia Pascal, cit., p. 406. Questo, invece, dice Vitangelo sul suo aspetto, dopo essere riuscito a farsi padrone del suo corpo: «Ecco: era così: lo avevano fatto così, di quel pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un’altra statura; poteva sì alterare in parte il suo aspetto: radersi quei baffi, per esempio;

ma adesso era così; col tempo sarebbe stato calvo o canuto, rugoso e floscio, sdentato; qualche sciagura avrebbe potuto anche svisarlo, fargli un occhio di vetro o una gamba di legno; ma adesso era così». Vd.

Uno, nessuno e centomila, cit., p. 756. Come emergono condizionamento e rassegnazione dalle parole dell’uno, così un più maturo fatalismo e una distaccata indifferenza si fanno strada in quelle dell’altro.

419 Ivi, pp. 755-6. Si noti pure il fatto che la medesima, distaccata, affermazione viene ripetuta due pagine dopo: «Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse».

Ivi, p. 758.

420 Ivi, p. 766.

Questa stabilità e univocità solo apparenti, fanno sì che anche il povero Gengè non sia una persona, numericamente singola e, semmai, portatrice di innumerevoli facce, bensì sia tante persone, tante quante la gente e le circostanze con cui si trova ad avere a che fare:

Io non ero più un indistinto io che parlava e guardava gli altri, ma uno che invece gli altri guardavano, fuori di loro, e che aveva un tono di voce e un aspetto ch’io non mi conoscevo.421

L’orizzonte si sposta dall’esteriorità all’interiorità umana, per toccare l’unica dimensione che ha il compito non solo di sancire la veridicità di fatti, cose, atti che entrano nella sua orbita, ma addirittura di stabilirne l’esistenza, la quale, però, è sempre dotata di validità personale e mai universale, oltre a essere istantanea, mai eterna, secondo quanto Moscarda scrive del suo stesso corpo:

[…] Passato il momento in cui lo fissavo, egli era già un altro […].422

Il reale si fa così oggetto di possesso, disponibile per chiunque perché costruzione arbitraria di ciascuno: legittimamente padroni della propria realtà, non si può mai pretendere di diventarlo dell’altrui, a causa dello stesso concetto di proprietà che la distingue; dunque, ogni volta che si tenterà di acquisirne una esterna a noi, si compirà un illecito reato di esproprio, il quale non potrà portare altro che guai o, almeno, false e deludenti speranze di dominio:

[…] Ci vorrebbe che io, dentro di me, vi dèssi quella stessa realtà che voi vi date, e viceversa […]. Ci fosse fuori di voi […] una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c’è, non c’è. C’è in me e per me una realtà mia: quella che io mi dò; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date […]. […]

Non più cose, ma quasi intime parti di voi stessi, nella quale potete toccarla e sentirla quella che vi sembra la realtà sicura della vostra esistenza.423

L’inganno prodotto da un tale fraintendimento, viene definito dal protagonista

«scherzo», il quale

[…] consiste in questo: che l’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere in quella forma e in quell’atto ci appare.424

421 Ivi, p. 787.

422 Ivi, p. 757.

423 Ivi, pp. 769-70, 772.

424 Ivi, p. 800.

La necessità della forma rende, di conseguenza, altrettanto scontata la creazione dell’apparenza, dietro cui si insinuano le verità dell’inganno e dell’illusione. La validità di quella realtà formale, quindi, è cangiante in modo proporzionale al numero dei soggetti non che la vivono, ma che addirittura la creano, tanto più distruggendo lo scibile, quanto più si adoperano per affermarne uno. Questo sarà sempre il loro, e mai anche quello altrui; se ci si ostina a credere il contrario, si condanna inevitabilmente come erroneo ciò che, invece, è solo diverso, ma non per questo sbagliato.

L’ammissione di una verità di questo tipo, nega ogni stabilità e norma precostituite, per affermare l’imprescindibile relatività delle cose e del concetto di “normalità”. La stranezza, se non si considera questo, provoca il riso, secondo il meccanismo dell’avvertimento del contrario; con la riflessione, si giunge però al sentimento, il quale toglie qualsiasi impulso di ilarità e ogni convinzione di ridicolaggine:

Ora ne provo raccapriccio, considerando che potevo riderne solo perché non m’era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si chiama la regolarità delle esperienze […]. Ma se questo, ch’è stato già dimostrato un sottilissimo filo, voglio dire della regolarità delle esperienze, si fosse spezzato in me? se per il ripetersi di due o tre volte avesse acquistato invece regolarità per me questo sogno buffo?425

Il medesimo «scherzo» regola pure le relazioni fra i conoscenti, mistificato però dalle convenzioni e dalle cortesie codificate, nonché inasprito dai disaccordi. Questi, solo apparentemente fatto eccezionale, in realtà, data la labilità del reale e dei punti di vista, sono ovvi e per nulla condannabili:

E insomma, lo volete fare anche voi, sì o no, questo esperimento con me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi pajono le più consuete e normali, e sotto la quieta apparenza delle cosiddetta realtà delle cose?426