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Un altro personaggio: Simone Pau

2.2. La narrativa cantoniana

3.2.2. Un altro personaggio: Simone Pau

Costui afferma pedagogicamente quella preminenza del sistema verbale che già si è vista emergere nel Mattia Pascal; in più, però, egli esce dalla sottomissione a esso grazie alla capacità di definire il mondo a lui circostante dinamicamente e non staticamente.

Gli uomini, così illuminati da questa logica possibilista – ma non casuale – non vengono ridotti in un’identità circoscrivibile solo a un nome e a un cognome, ossia a una definizione che si possa assegnare e certificare una volta per tutte (si pensi al documento d’identità, alla lapide cimiteriale o alla targa celebrativa – secondo gli esempi visti nel Fu).369 Essi, al contrario, vengono accolti in un universalismo che li adatta a rapportarsi a quanto li circonda senza doverne essere soggiogati o sopraffatti. Essi si fanno cangianti e mobili, accogliendo senza più resistenze le impressioni che di volta in volta s’affacciano loro, ibridi, ma solo così dotati di una vera coscienza di sé.

Solo qualche pagina avanti, tuttavia, il lettore attento può cogliere il perché Pau riesca in questa operazione così “dotta”. Egli gode del vantaggio di sapersi prendere poco sul serio; il che, nel mondo umoristico tratteggiato a tinte forti da Pirandello, costituisce una delle proprietà più preziose:

Serio, veramente serio [– disse Simone Pau –], sai chi è? è il dottore senza collo, vestito di nero, con grossa barba nera e occhiali a staffa, che nelle piazza addormenta la sonnambula. Io non sono ancora serio fino a questo punto. Puoi ridere, amico Serafino.370

L’abilità teorica di quest’uomo ha tutta l’aria di preannunciare quanto il protagonista di Uno, nessuno e centomila metterà in pratica al concludersi della sua avventura. Serafino, al contrario, ancora non lo comprende fino in fondo: ciò è denunciato dalla sua scelta esistenziale, vòlta alla fissità, anche se progressivamente aperta alla metamorfosi; dall’impressione ch’egli ha all’udire quelle parole: «Restai sbalordito»; da come ancora lo ricorda al tempo presente della sua scrittura, pur se forte dell’esperienza vissuta e della lungimiranza data dal ‘senno di poi’:

Non posso levarmi di mente l’uomo incontrato un anno fa, la sera stessa che arrivai a Roma. […] Simone Pau: uomo di costumi singolarissimi e spregiudicati.371

369 Si badi che Gubbio, ricordando la “mitica” casa dei nonni del Nuti, rammenta come il vecchio Carlo, in una sorta di tentativo ancestrale di estirpare il proprio dolore e quello dell’intera famiglia dopo la prematura morte del figlio, avesse cancellato il nome dalla targhetta di marmo sita sul «piastrino del cancello», lasciando la loro casa “priva di identità”. Gubbio giustifica questa scelta immaginando che il genitore abbia così voluto sviare la morte impedendole di ritrovare la via della loro abitazione, rimasta anonima. Anche se spinto da un sentimento privato e irrazionale, tale fuga dalla pubblica identificazione non può non riecheggiare il senso di isolamento legato alla perdita del nome già tante volte chiamata in causa nel corso di questo studio.

370 Ivi, p. 530.

371 Ivi, p. 525.

Tale singolarità non è stata dunque del tutto assorbita e giustificata da Gubbio, mentre l’amico non solo l’accetta e la persevera per se stesso, ma la ricerca pure nel prossimo. Egli, potendo godere di un posto riservato all’interno dell’ospizio, sceglie ugualmente di dormire nella grande sala comune insieme agli indigenti lì ricoverati

[…] per la compagnia che vi ritrova, e a cui ha preso gusto, di esseri obliqui e randagi.372

Lo stupore di Gubbio per le parole pronunciate dall’amico si muove di pari passo con il loro fraintendimento, tanto che esse vengono prese dal nostro come l’invito a un ritorno alla brutalità da collocarsi in una visione negativamente digressiva, che lui appella addirittura ‘malattia’. Ciò fa sorgere in lui un’immanente rassegnazione:

Intendo dire, che su la terra l’uomo è destinato a star male, perché ha in sé più di quanto basta per starci bene, cioè in pace e pago.373

Si riconosce qui una vanità di tutte le cose di stampo religiosamente biblico o letterariamente petrarchesco, solo che anziché scegliere l’aspirazione ascetica come possibile via della salvezza, si opta per la redenzione attraverso l’annichilimento, l’annullamento: Serafino lo farà nella propria macchina da presa, così come Vitangelo Moscarda, parimenti, lo realizzerà mimetizzandosi nella natura.

Ancora una volta assistiamo a un percorso di deformazione e di regressione, contro gli ordinati dettami del romanzo di formazione: la lettura rovesciata porta fino al parossistico atto simbolico del battesimo, che Serafino vive da protagonista non per nascere o rinascere a nuova vita, ma per iniziare il suo cammino verso la perdita della stessa. Il capovolgimento è oggettivato dalla descrizione e dalla collocazione della medesima fonte battesimale, ironicamente individuata nel sozzo lavatoio dell’ospizio di carità presso cui il nostro trova riparo appena arrivato nella capitale:

Ciascuno qua si leva le proprie vergogne d’addosso, e si presenta nudo al battesimo di questa piscina!374

Il ribaltamento prosegue con la negazione della possibile redenzione dal peccato cui l’acqua sacra dovrebbe servire per donare al figlio di dio nuova purezza; Serafino invece, sa che non riuscirà più a ritrovarla perché consapevole che, al contrario,

372 Ivi, p. 532.

373 Ivi, p. 527.

374 Ivi, p. 531.

[…] L’uomo, […] per me è rimasto il simbolo della sorte miserabile, a cui il continuo progresso condanna l’umanità.375

Non è più possibile dunque una lettura provvidenziale della realtà perché questa non si riconosce solo macchiata dal peccato originale, bensì pure – secondo una interpretazione immanentista – continuamente sferzata dall’altrettanto peccaminoso progresso, macchina mostruosa che divora l’uomo, Cerbero che punisce i peccatori avidi di eccessivo sviluppo e bramosi di spregiudicato profitto sino a contraddire le leggi di natura.

Particella di questa totalità, lo stesso protagonista attraversa un percorso di formazione / deformazione, secondo quanto egli stesso narra sui suoi quaderni: ciò a partire da quando si trova spettatore, ancora in tempi di gioventù, di una torbida vicenda sentimentale – circostanza consueta nelle trame del siciliano e passionale Pirandello. Da giovane precettore e amico di un ragazzo che si suicida per amore, il nostro vede ricomparire quel passato fosco e meschino proprio mentre lavora presso la casa cinematografica romana Kosmograph. La causa di tutti i mali è una donna, Varia Nestoroff, la donna-fiera, la donna fatale, la mangiatrice di uomini che incarna il pathos, la spregiudicatezza, la femminilità, la sensualità, la ruolette russa con la quale qualcuno già si è giocato la vita e qualcun altro rischia di farlo di nuovo. Il morto suicida è Giorgio Mirelli, ragazzo a cui Serafino, in un assolato paesaggio sorrentino, offriva ripetizioni; causa del gesto disperato l’amore per la «cacciatrice» – la Nestofoff, appunto – e il tradimento di lei con Aldo Nuti, giovane elegante, dai modi gentili e raffinati, fidanzato della sorella di Giorgio, Lina, detta Duccella. L’incontro fatale avviene proprio nella casa dei due fratelli, cresciuti amorevolmente dai nonni dopo la morte dei genitori, in occasione della presentazione ufficiale di Varia – che Giorgio, intrapresa l’attività di pittore, aveva incontrato a Capri, lontano dalla casa e dalle lezioni di ripetizione di Serfino – alla famiglia; dal giorno dell’uccisione il Nuti sparisce.

Tutta questa vicenda viene narrata da Serafino – nei panni di narratore onnisciente – il quale, approdato nella capitale e conquistato il posto di lavoro grazie all’intervento del caso e dell’amico Pau, se la sente a sua volta raccontare da Niccolò Polacco, una delle figure-principe all’interno della casa cinematografica, insieme a quella del commendator Borgalli e dell’attore Carlo Ferro: il primo è direttore di scena; il secondo, direttore generale e consigliere delegato – nonché simpatizzante della bizzarra e

375 Ivi, pp. 532-3.

capricciosa Nestoroff; il terzo, attore siciliano – oltre che fidanzato della stessa Nestoroff.

Il discorso sui fatti passati nasce proprio prendendo in considerazione la figura di questa donna, a quanto pare irrimediabilmente causa di scompiglio e inspiegabilmente malvagia, soprattutto nella gestione delle proprie relazioni amorose:

Nemici per lei diventano tutti gli uomini, a cui ella s’accosta, perché l’ajutino ad arrestare ciò che di lei le sfugge: lei stessa, sì, ma quale vive e soffre, per così dire, di là da se stessa.376

Serafino tuttavia la capisce, così come lui solo prova pietà per la tigre imprigionata nella gabbia e stupidamente condannata a morire davvero per inscenare una finzione.377 Egli – seppur non la giustifica378 (il che, d’altra parte, è un compito che a lui non spetta, lontano da intenti moraleggianti come devono essere tutti gli antieroi pirandelliani) – non trova in lei quella bestialità che vi vedono gli altri o meglio, non riconosce questa bestialità come autentica e sinonimo di malvagità perché

La belva, intanto, che fa male per un bisogno della sua natura, non è – che si sappia – infelice.

La Nestoroff, come per tanti segni si può argomentare, è infelicissima.379

La sua debolezza e dunque la sua malvagità sofferta, si rendono palesi agli occhi dell’operatore che si appassiona così allo studio di lei e della relazione amorosa ch’essa vive con l’attore Carlo Ferro.380 È così che il nostro capisce come l’attrice, a fronte di tutti i suoi capricci ed errori, soffra profondamente annullandosi al cospetto della macchina ed evidenziando così una doppiezza propria degli esseri tormentati, maledetti e per questo speciali e incompresi:

Ella sola prende sul serio [le sue violente espressioni], e tanto più quanto più sono illogiche e strampalate, grottescamente eroiche e contraddittorie. […] La Nestoroff è veramente disperata di ciò che le avviene; ripeto, senza volerlo e senza saperlo. […] Forse da anni e anni e anni, a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge, per trattenerla, per domandarle che cosa voglia, perché soffra, che cosa ella dovrebbe fare per ammansarla, per placarla, per darle pace. 381

376 Ivi, p. 558.

377 Il paragone fra la donna e la tigre viene dichiarato dallo stesso narratore, il quale, però, lo mette in bocca a malvagi che gli conferiscono un significato negativo: «(Non divago, perché la Nestoroff è stata paragonata da qualcuno alla bella tigre comprata, qualche giorno fa, dalla Kosmografh)». Vd. ivi, p. 552.

378 Cfr. ivi, p. 551.

379 Ivi, p. 554.

380 Cfr. ivi, pp. 555, 559.

381 Ivi, pp. 556-7.

La situazione peggiora quando alla Kosmograph giunge proprio Aldo Nuti, spinto da un’insana passione amorosa che accende in lui un irrefrenabile desiderio di rivedere la donna:

Non so nulla! So che Aldo Nuti fu attratto come in un gorgo e subito travolto come un fuscellino di paglia nella passione per questa donna. […] La donna, che da mille e mille miglia lontano venne a portare lo scompiglio e la morte nella vostra casetta, ove insieme con quei gelsomini di bella notte sbocciava il più ingenuo degli idillii, io la ho qua, adesso, sotto la mia macchinetta, ogni giorno; e, se sono vere le notizie datemi dal Polacco, avrò tra poco anche lui qua, Aldo Nuti, il quale pare abbia saputo che la Nestoroff è prima attrice alla Kosmograph.382

Quel «più ingenuo degli idillii»383 è stato allora spezzato dall’arrivo dell’ammaliatrice, così come ora la casa cinematografica turba con i suoi frenetici rumori e movimenti la tranquilla viuzza di campagna in cui è ubicata. Essa è

Affossata, polverosa, appena tracciata in principio, ha l’aria e la mala grazia di chi, aspettandosi di star tranquillo, si veda, al contrario, seccato di continuo. Ma se non ha diritto a qualche fresco cespuglietto d’erba, a tutti quei fili di suono sottili vaganti, con cui il silenzio nella solitudine tesse la pace, al quaquà di qualche raganella quando piove e le pozze di acqua piovana rispecchiano nella notte rasserenata le stelle; insomma a tutte le delizie della natura aperta e deserta, un strada di campagna, parecchi chilometri fuori di porta, non so chi l’abbia veramente.

Invece: automobili, carrozze, carri, biciclette, e tutto il giorno un transito ininterrotto d’attori, d’operatori, di macchinisti, d’operai, di comparse, di fattorini, e frastuono di martelli, di seghe, di pialle, e polverone e puzzo di benzina.384

L’ambiente naturale – costante unità di misura con cui Serafino valuta le proprie impressioni sugli uomini che di tale ambiente fanno parte –385 è stato completamente stravolto dal sopravvento del fabbricato, la cui pesantezza e superbia sono ben rese anche dalle parole del narratore, ugualmente ponderose e invadenti:

[…] Nel muro in vista della strada e del viale, su la bianchezza abbarbagliante della calce, a lettere nere, cubitali, sta scritto:

LA «KOSMOGRAPH»

[…] Dirimpetto è un’osteria di campagna battezzata pomposamente Trattoria della Kosmograph, con una bella pergola su l’incannucciata, che ingabbia tutto il cosiddetto giardino e vi fa dentro un aria verde.386

L’ambiente è plasmato dal dominatore che ha marchiato chiaramente quanto gli compete assegnandovi il proprio nome per privatizzare non solo ciò che materialmente

382 Ivi, pp. 564-5.

383 Ivi, p. 547.

384 Ivi, p. 568.

385 «Inevitabilmente […] noi ci costruiamo, vivendo in società… Già, la società per se stessa non è più il mondo naturale. È mondo costruito, anche materialmente! La natura non ha altra casa, che la tana o la grotta». Vd. ivi, p. 618.

386 Ibid.

gli appartiene, ma persino l’atmosfera che lì vi si respira, “colorandola” artificialmente a proprio piacimento («aria verde»).

Ugualmente, la naturalezza ideale a cui l’uomo dovrebbe tendere si è lasciata soggiogare dalla finzione. Già Mattia Pascal ha dimostrato come l’unione di queste due dimensioni sia impossibile; ora non resta che verificare se si possa ritornare alla prima per uscire dallo scacco in cui è incorsa l’umanità così artificiosamente strutturata.

Un passo verso questa direzione viene compiuto da due di quei personaggi che si potrebbero classificare nell’economia della narrazione come ‘puri’, ossia pienamente definiti nella loro benevolenza e incolpevolezza – contrariamente a come appaiono quelli umoristici, mai nettamente distinguibili tra “buoni” e “cattivi”. Si tratta dei nonni Mirelli, i quali, dopo la tragica morte di figlio e nuora, si trovano a dover accudire i nipoti ancora bambini. Il contatto con quest’età ingenua e soprattutto ancora scevra dalla bruttura data dal rapportarsi col mondo circostante, chiusa in quel microcosmo rappresentato dalla loro casa di campagna, dona loro, già toccati da un senso quasi miracoloso di umiltà e semplicità che li ha sempre condotti a non inseguire il superfluo affanno deprecato dallo stesso Serafino, la prodigiosa capacità di ricrearsi, tanto che

[…] tutto per essi era diventato nuovo, il cielo, la campagna, il canto degli uccelli, il sapor delle vivande.387

È così che anche l’esteriorità e l’interiorità degli individui, le loro movenze, le loro sembianze, finanche le loro dignità – se macchiati, ma non compromessi dal peccato – subiscono una metamorfosi, proprio come accadrà a Serafino.

Quest’ultimo arriva alla tappa finale del suo percorso in maniera graduale, partendo dall’accettazione del soprannome che gli viene attribuito. Questo viene da lui interpretato non solo come lascito formale della vicinanza col prossimo, ma come vera e propria misconoscenza della sua persona. Egli tuttavia non se ne sente vittima, riconoscendovi lucidamente e semplicemente un esempio dei “segni” che la vita inevitabilmente, simile a un fiume che modella il letto in cui scorre, lascia sugli individui:

387 Ivi, p. 545. Anche solo quest’esempio, sulla scia del nostro confronto testuale, basta per confermare le ragioni del fallimento dell’impresa pascaliana: Adriano Meis, infatti, pur parlando di reincarnazione e di resurrezione, non si lascia andare certo a un tale gusto per la riscoperta. Il suo sguardo, evidentemente, è stato ormai troppo contaminato dalla realtà del suo alter ego Mattia per poter tornare a uno stato primigenio, che tanto meno l’operazione cui si sottopone può dunque restituirgli. Si badi che anche a Serafino viene proposta dal dott. Cavalena l’intervento chirurgico per guarirlo dal mutismo: egli, naturalmente, non lo sceglie, in primis perché sa essere la sua non una disfunzione fisica, bensì piuttosto mentale dalla quale, di conseguenza, il nostro non desidera essere curato, seppur ve ne fossero i mezzi.

Cfr. ivi, p. 734.

- Ciao, Si gira…

Si gira è il mio nomignolo. Già!

Capita a una pacifica tartaruga d’acquattarsi proprio là, dove una ragazzaccio maleducato si china per fare un suo bisogno. Poco dopo, la povera bestiola ignara riprende pacificamente il suo tardo andare con su la scaglia il bisogno di quel ragazzaccio, torre inopinata.

Intoppi della vita!

Voi ci avete perduto un occhio, e il caso è stato grave. Ma siamo tutti, chi più chi meno, segnati, e non ce n’accorgiamo. La vita ci segna; e a chi attacca un vezzo, a chi una smorfia.388