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Il romanzo di deformazione

È ovvio che questo capovolgimento implica – ed esplica – la totale distruzione del Bildungsroman, il romanzo di formazione dall’andamento rettilineo, circostanziato e, soprattutto, finalizzato alla formazione del suo personaggio, sino a plasmarlo in forma di eroe, secondo i principi necessari di un evoluzionismo ancora imperante. Ora che, invece, queste certezze sono cadute, perché rifiutate dall’umorista, diventa accessorio, e persino improbabile, il fatto che il personaggio debba crescere e sviluppasi: la realtà – e dunque pure il romanzo – si rendono distruttrivi e non più il contrario, in quanto

«l’umorista non riconosce eroi» – come dichiara Pirandello nell’Umorismo.178

Anche questo novello eroe ‘al contrario’ e ‘del contrario’, però, deve sottopporsi a un processo di svezzamento e crescita, essendo inizialmente ancora vittima dello scacco e del fallimento perché, pur nel tentativo di approdo all’estraneità e all’alterità, non riesce a eliminare la ricerca dell’adattamento, del miglioramento di quella sua condizione di esiliato volontario dalla vita. Lo scacco si regista proprio perché il carattere della volontarietà non viene mantenuto lungo tutto il “percorso di deformazione”, ma si perde, intimorito dalla medesima solitudine prima intenzionalmente cercata.

In questo stato di incertezza e di paura, si mescolano ancora elementi naturalistici e costruttivi sui nuovi gradini di quella scala che, anziché salire al paradiso, s’inabissa verso il centro della terra, verso il suo nucleo, verso gli inferi che lì hanno la loro sede, concentrati in un atomo infinitamente piccolo, ma sempre scomponibile in se stesso. Il suo carattere non è quello della finitezza e della forma, ma quello della grandezza imponderabile, tale proprio perché concentrata in un minuscolo spazio, quasi

178 LUIGI PIRANDELLO, L’umorismo, cit., p. 158; così, nelle righe seguenti, si scioglie la nichilista sentenza: «[…] Egli [l’umorista], per conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la storia e come si forma: composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà: composizioni ch’egli si diverte a scomporre; né si può dir che sia un divertimento piacevole».

impercettibile, ma ricco di pesante sostanza. Questo nucleo è l’Io, il quale è ora l’unica dimensione possibile.

Secondo quest’ultima, il percorso non si muove più, ordinatamente, dalla totalità all’individualità, ma, al contrario, dalla seconda alla prima, in un’operazione algebrica sommaria e non più divisoria (così come la scrittura umoristica si organizza nel procedimento dell’accumulazione, in cui, avendo la parola perso la sua classica e codificata valenza sociale – per acquistare quella puramente individuale – più si scrive, meno si racconta). Leggiamo quanto scrive Richeter nella sua catalogazione degli elementi costitutivi dell’umorismo:

Nella sua qualità di sublime alla rovescia, introducendo il contrasto con l’idea, l’umorismo non annichila l’individuale bensì il finito. […] [L’idea annientante] è il secondo costituente dell’umorismo, nella sua qualità di sublime capovolto. Come Lutero chiama in senso cattivo la nostra volontà una lex inversa, così l’umorismo è questa legge in senso buono; e la sua discesa all’inferno spiana il cammino all’ascesa verso il cielo. Esso somiglia a Merops, l’uccello che spicca il volo e sale in cielo girato dalla parte della coda.

Danzando sulla testa, questo acrobata beve il nettare dall’alto verso il basso.179

Il motivo del capovolgimento, tipico dell’umorismo, disegna immagini altrettanto sottosopra, che si sublimano nel concetto-limite secondo cui

Il diavolo, il vero mondo capovolto del mondo divino, la grande ombra che disegna il corpo luminoso del mondo, ben lo vedrei nei panni del più grande degli umoristi […].180

Allora, possiamo pensino pensare che quando Pirandello fa riferimento all’ombra che accompagna il corpo e che diventa il primo oggetto di studio dell’umorista, faccia riferimento anche a questa parte diabolica dell’uomo, alle forze più recondite e inaccettabili che all’improvviso esondano come un fiume in piena, o tracimano come la lava di un vulcano che erutta dopo anni di quieto, ma minaccioso silenzio.

Così è stata Marta Ajala, almeno per una parte della sua vita: un vulcano silente, un elemento della natura benigna, che non è più tale solo quando istigato violentemente dalle maliziose azioni umane. Prima dell’eruzione, Marta è sempre stata ligia al proprio ruolo di figlia e di femmina che si muove nella società conservatrice di una Sicilia ancora molto verista e corale; o come quelle donne ricche di desideri e di passioni, ma costrette a soffocarli, secondo il modello della Gertrude manzoniana. Ebbene, Marta è come questo vulcano: all’apparenza solo un monte, immobile e docile nel tempo, che si lascia scivolare addosso quanto gli capita attorno, passivamente; in realtà non una

179 JEAN PAUL, Il comico, l’umorismo e l’arguzia, cit., pp. 132; 136.

180 Ivi, p. 137.

montagna come tutte le altre, ma che al suo interno nasconde un cuore vitale, in continuo e sordo movimento, che bolle in se stesso con i medesimi moti convulsi che sono propri di una coscienza tormentata:

Il diritto del cuore! Sai tu che cosa sono le leggi sopra la natura? Son la neve che cade addosso a un vulcano! Avvengon momenti in cui la natura spazza, scuote da sé ogni imposizione, infrange ogni freno sociale e si scopre qual è; come appunto un vulcano, scoprendo le viscere infocate, liquefa la neve che per tanti inverni si è lasciata cadere addosso (ed. 1901, parte I, cap. VII, p. 266).181

Quello che distingue Marta dagli altri protagonisti pirandelliani “più maturi”, è però il fatto che la sua personale eruzione non sarà volontaria, ma costretta, indotta, trovandosi essa stessa a dover darsi la forma che gli altri le vogliono conferire. Il percorso che si compie in questo primo romanzo pirandelliano, ancora in limine tra i canoni ottocenteschi e il loro smontaggio, è dunque inverso rispetto a quello che sarà degli scritti totalmente umoristici: non è la storia del tentativo di lasciare una forma sociale, bensì è la storia dell’abbandono di un abito per acquisirne un altro, diverso dal primo, ma addirittura più grave. Marta tradisce non volontariamente, ma perché incolpata – e punita – di averlo fatto, quando, invece, questo non era vero. Allo stesso modo, Chiarchiaro, protagonista della novella La patente, chiederà il documento che normalizzi la condizione di iettatore di cui è di continuo tacciato dai suoi compaesani, perché da essi estenuato e quindi desideroso di “accontentarli”, di compiacerli, a scapito delle sue vere intenzioni e della sua reale natura.

In un’ottica ancora ciclica e corale come quella propria del naturalismo, questa convinzione altrui è sufficiente per attualizzare il fatto, più di quanto non lo siano la realtà o la logicità del fatto stesso.

Quest’atmosfera è molto chiara nell’Esclusa, dove sin dalle prime pagine si respira l’aria del piccolo paese brulicante di voci e di dicerie, e si vede la figura di Rocco, il marito infuriato che, confidando la propria sventura e la decisione di cacciare la moglie, fa forza sulla difesa del proprio orgoglio agli occhi del paese,182 piuttosto che sulla sofferenza personale. Con un linguaggio ancora ricco di coloriture tipiche del parlato popolaresco, in un ambiente dominato dai ritmi e dai paesaggi della natura e in una società in cui la donna è ancora sottomessa alla figura maschile, Rocco narra con

181 LUIGI PIRANDELLO, L’esclusa, 19011;la citazione è tratta da: GIANCARLO MAZZACURATI, Marta Ajala tra xenofilia e xenofobia, in Le stagioni dell’apocalisse, cit., pp. 89-114, p. 94.

182 «L’onore mio – professore! Le pare che non centri? Debbo difendere il mio onore… di fronte al paese…»: questa è la frase con cui Rocco mette a tacere le obiezioni del prof. Blandino, il quale lo invitava a mantenere la calma e a considerare più la veridicità dei fatti, che non quanto ormai si vociferasse in giro in proposito; vd. LUIGI PIRANDELLO, L’esclusa, cit., p. 18.

ostentata baldanza la propria disavventura ai due inquilini Madden e Blandino. Questi, anziché correggere la sua ottica deviata, l’appoggiano, seppur ciascuno secondo la propria personalità. Se con il primo l’autore gioca con la lingua, per le difficoltà d’espressione dovute all’origine straniera, con il secondo Pirandello rende stridente il contrasto tra il suo essere professore, e dunque uomo di cultura intellettualmente illuminato e perciò – si crederebbe – anche in questo caso capace di portare un poco di ragionevolezza sulla scelta avventata e istintiva di Rocco, e il rivelarsi un uomo ugualmente legato all’apparenza e non alla sostanza dei fatti.

Il contrasto fra la cultura e l’ignoranza, si farà ancora più marcato nella contrapposizione fra Rocco e il corteggiatore di Marta, l’Alvignani, uomo dotto e fine, che in una delle lettere d’amore recapitate alla Ajala scrive: «NIHIL MIHI - CONSCIO». A fronte di questa scrittura sulla lettera trovata e addotta come prova del tradimento, Rocco, ora più che mai in preda a uno stato di natura ferina dovuto non tanto alla sofferenza, quanto alla rabbia per essere messo alla berlina di fronte ai compaesani, così reagisce:

«Che vorrà dire?…», domandava a se stesso, cercando di decifrare il motto dell’Alvignani inciso in rosso in capo al foglio […].183

È a causa di tutto questo, di tali preconcetti dai quali è investita e di cui si fanno portatori tutti i protagonisti maschili della vicenda – padre compreso – che Marta troverà rifugio, questa volta sul serio, tra le braccia dell’unico uomo che comprende la sua innocenza e non la lascia sola: costui non poteva essere che l’Alvignani, il solo a non nutrire sospetti perché parte in causa direttamente implicata. L’uomo, da corteggiatore, diventerà allora amante a tutti gli effetti, facendosi unico mezzo per Marta per non essere più ingiustamente esclusa dalla vita:

Ma perché doveva essere vittima, lei? Lei che aveva vinto? Una morta, lei che faceva vivere? Che aveva fatto, lei, per perdere il diritto alla vita? Nulla, nulla… E perché soffrire, dunque, l’ingiustizia palese di tutti? Né l’ingiustizia soltanto: anche gli oltraggi e le calunnie. Né la condanna ingiusta era riparabile. Chi avrebbe più creduto infatti all’innocenza di lei dopo quello che il marito e il padre avevano fatto? Nessun compenso dunque alla guerra patita: era perduta per sempre. L’innocenza, l’innocenza sua stessa le scottava, le gridava vendetta. E il vendicatore era venuto. Gregorio Alvignani era venuto.184

Il dolore più cocente per la ragazza è quello di essere screditata anche dal padre, che, ragionando da uomo e non da genitore, accoglie le ragioni di Rocco e si chiude

183 Ivi, p. 21.

184 Ivi, p. 143.

nella propria vergogna, barricandosi materialmente dentro la propria casa, nella propria camera.

Pirandello, però, ci dice qualcosa in più anche su questo “padre-padrone”, spingendosi oltre la descrizione dei fatti, analizzandoli dall’interno. Ci mostra come già questo personaggio, sebbene ancora molto ottocentesco, porti in sé dei tratti sovvertivi come la disposizione all’auto-inganno e all’auto-condanna, nonché come la vita familiare possa complicarsi al suo interno per meccanismi più complessi di quelli palpabili in superficie:

[…] Un nonnulla basta di tanto in tanto per farlo scattare selvaggiamente. Forse, subito dopo, se ne pentiva; non voleva, però, o non sapeva confessarlo: gli sarebbe parso d’avvilirsi o di darla vinta […]. Certo, con segreto dispetto, avvertiva il troppo studio nei suoi di non far mai cosa che gli désse pretesto di lamentarsi minimamente; e sospettava che molte cose gli fossero nascoste; […]. Si sentiva estraneo nella sua stessa casa; gli pareva che i suoi lo tenessero per estraneo; e diffidava. Specialmente di lei, della moglie, diffidava.

E la signora Agata, infatti, soffriva sopra tutto di questo: che nell’animo di lui fossero impressi due falsi concetti di lei: l’uno di malizia, l’altro d’ipocrisia. Tanto più ne soffriva in quanto che lei stessa si vedeva spesso costretta a riconoscere che non senza ragione egli doveva credere così; perché davvero ella, mancando ogni intesa fra loro due, talvolta era forzata dai bisogni stessi della vita a far di nascosto qualcosa ch’egli non avrebbe certamente approvata; e poi a fingere con lui.185

Come nella famiglia Malavoglia di Verga, anche negli Ajala, mossa da un singolo fatto, si insinua la tragedia che semina morte e miseria tra le mura domestiche: dopo essersi rinchiuso in casa per la vergogna, il padre muore, così come, non appena dato alla luce, perde la vita il figlio che Marta aspettava da Rocco; inoltre, la conceria rischia il fallimento dopo essere stata affidata, in seguito alla morte di Francesco Ajala, all’allampanato nipote Paolo Sistri. L’ottica straniata del villaggio giustifica queste disgrazie con l’atto tracotante della ragazza, la quale, però, non riesce ad accettare la condizione che le è stata imposta perché, a differenza dei personaggi verghiani, non accetta di fare i conti solo con le voci dei malparlieri che la circondano. Marta comprende che importante non è essere onesta per loro, ma trovarsi in pace con la propria coscienza, addirittura prima ancora che con Dio, verso il quale non trova peccati da confessare:

Marta era venuta in chiesa per consiglio di Anna Veronica. Ma cominciava già […]

ad avere di se stessa, inginocchiata lì come una mendicante, una penosissima impressione.

[…] Aveva la coscienza sicura, lei, che non sarebbe mai venuta meno ai suoi doveri di moglie, non perché stimasse degno di tale rispetto il marito, ma perché non degno di lei stimava il tradirlo […]. Che avrebbe detto però, tra poco, al suo confessore? Di che doveva pentirsi? […] Accettare umilmente la condanna, senza ragionarla, e perdonare? Avrebbe

185 Ivi, p. 24.

potuto perdonare? No! No! […] Quella fede ci voleva! Ma non poteva averla lei. Lui non poteva perdonare.186

Forse è in un momento come questo che Marta mette in atto quella speciale proprietà attestatagli dall’Alvignani in una delle sue colte lettere:

«Ella sa accomodare i sensi acutissimi […] all’osservazione della realtà».187

Paradossalmente, il rispetto della religione si dimostra molto più in questo gesto non compiuto, quello della confessione mancata, piuttosto che in altri, ben più plateali ma meno sentiti, come i festeggiamenti patronali che animano il paese. Qui la materia religiosa viene abbassata in uno scenario di disordine che rende la processione quasi un atto barbarico, durante il quale gli uomini si lasciando andare a movenze scomposte e istinti bassi e brutali, mentre le statue «[de]i due Santi procedevano per via quasi di corsa, a tempesta: erano i Santi della salute, i salvatori del paese nelle epidemie del colera, e dovevano correre perciò di qua e di là, continuamente»:

Era un groviglio di nerborute braccia nude, paonazze, tra camice strappate, facce grondanti sudore a rivi, tra mugolìi e aneliti angosciosi, spalle schiacciate sotto la stanga ferrata, mani nodose ferocemente aggrappate al legno. E ciascuno di quei furibondi […]

invaso dalla pazzia di soffrire quanto più gli fosse possibile per amore dei Santi, tirava a sé la bara […] e i santi andavano com’ebbri tra la folla che spingeva urlando selvaggiamente.

Sul finale di questa descrizione dai tratti più sardonici e infernali, che non pietosi e raccolti, si ha il vero e proprio capovolgimento grottesco, e dunque abbassamento, della situazione:

E a quella tempesta imperversante sotto la loro casa tremavano le quattro povere donne [Marta, Maria, Anna Veronica e Anna] […] tenendosi strette l’una all’altra, rincantucciate; e nell’attesa angosciosa udirono contro la ringhiera di ferro del balcone battere una, due, tra volte, poderosamente, la testa d’uno dei Santi. […] Maria s’appressò paurosamente al balcone e, attraverso il vetro, vide una bacchetta della ringhiera torta dalle ferree teste. 188

Questa sorta di incidente e il segno lasciato dalla sua violenza sulla ringhiera del balcone, tolgono alla statua del santo – e quindi ai riti e ai miti religiosi e sociali, qualsiasi aura di misticismo e ogni valenza simbolica – per abbassarla in tutta la sua realtà grossolana di oggetto, dotato solo di materialità e di una forza che non è più quella spirituale capace di adunare le folle, bensì solo quella fisica e bruta.

186 Ivi, pp. 58-9.

187 Ivi, p. 61.

188 Ivi, pp. 68, 69, 70-1.

Si celebra, così, una sorta di apologia al contrario: quella della materia e della mondanità, che rovescia implicitamente quella dello spirito, come a voler retrocede dove tutto è immobilità e corporeità.

È il percorso che arriverà a toccare la meta della totale oggettivazione del soggetto con Serafino Gubbio, il quale cancellerà totalmente la propria identità di uomo per diventare macchina, passando per sempre dall’essere Serafino, all’essere Si gira, secondo l’arcaica regola del nomen - omen.

Questi esempi del percorso scrittorio di Pirandello esplicitano ed esemplificano il concetto espresso prima, di scrittura destruens e non più costruens: se Verga non riesce a concludere il Ciclo dei vinti perché si ostina a mantenere la propria letteratura nel panorama naturalistico, Pirandello riesce a realizzare, almeno idealmente per noi, una sorta di ciclo di romanzi, a costo però che si riconosca in esso non più un movimento ascensionale, bensì precipitoso verso quel buco nero che si può chiamare in più modi – ormai lo abbiamo imparato: Ombra, Oltre, Altro, Inferno, Caos apocalittico, Universo umoristico.

Ecco perché, consapevole del proprio punto di arrivo, Pirandello definisce la sua stessa vita un «involontario soggiorno sulla Terra».189 L’apocalisse, se si osservano il mondo e l’esistenza da questo punto di vista, è sempre vicina, così come lo è stata per l’esclusa Marta, la quale la realizza gettandosi fra le braccia dello stesso uomo causa di tutti i suoi mali, l’Alvignani, proprio spinta dal fatto che

[…] lì ormai si sentiva come giunta al suo fine, piombata nel suo fondo, dove tutti, tutti, la avevano spinta, quasi a furia d’urtoni alla terga, e precipitata. […] Voleva costringersi a vedere, proprio, a sentire, ad assaporare in quella sua subitanea caduta, che la sconvolgeva, una vendetta voluta da lei, la vendetta della sua antica innocenza, contro tutti.190

Solo a questo punto, la vita di Marta passa dalla staticità alla progettualità in divenire: per la prima volta la sua esistenza è veramente vissuta, presa in mano e gestita dalla sua coscienza e non da quella altrui. Leggiamo quello che le scrive proprio l’Alvignani in una lettera che vuole persuaderla a non tirarsi indietro dalla loro appena sbocciata relazione amorosa:

- Oh, mia cara, quando io dico: «La coscienza non me lo permette», io dico: «Gli altri non me lo permettono, il mondo non me lo permette». La mia coscienza! Che cosa credi che sia questa coscienza? È la gente in me, mia cara! Essa mi ripete ciò che gli altri le dicono. Orbene, senti: onestissimamente la mia coscienza mi permette d’amarti. Tu

189 ID., Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra, in Saggi, cit., p. 1061-1071.

190 ID., L’esclusa, cit., pp. 156-7.

interroga la tua, e vedrai che gli altri t’hanno permesso di amarmi, sì, come tu stessa hai detto, per tutto quello che t’hanno fatto soffrire ingiustamente.191

Certo, da queste accorate parole potrebbe pure parere di trovarsi di fronte al più tradizionale degli eroi romantici, pronto a sfidare ogni avversità del destino a costo di coronare il sogno d’amore con la donna della propria vita; la smentita, però, si cela dopo poche pagine da queste frasi, quando l’amante, saputo che il marito Rocco intende perdonare e riprendersi la moglie, non solo accondiscende a questa decisione, ma scende a patti e a consigli con “la parte avversa” perché il piano si possa realizzare.

Marta scopre questo disegno dell’Alvignani e lo interpreta come un voltafaccia, come un atto di vigliaccheria, tanto più ora che lei gli ha comunicato di aspettare un figlio da lui. Tipico intreccio da feuilleton insomma, al quale però lo stesso Alvignani pone una conclusione inaspettata per il lettore, ormai in attesa delle peripezie patetiche e lacrimose tipiche del romanzo d’appendice. Vediamo questa chiusura in uno scorcio di dialogo con Marta:

- Me sola accuso, – disse Marta, cupamente. – Me sola, che sono diventata la tua amante.

[…] Ma tu mi ami? No… la mia amante, no! E ben per questo ho potuto accogliere con piacere la proposta inaspettata di una riconciliazione con tuo marito. […] Tu non mi hai mai amato: non hai amato nessuno, mai! o per difetto tuo, o per colpa d’altri; non so.

Tu stessa l’hai detto: ti sei sentita spinta da tutti nelle mie braccia… E ora vedi, vedi, sarebbe questa la vera vendetta, questa; e se io fossi in te, non esiterei un solo minuto!

Pensaci! Innocente, ti hanno punita, scacciata, infamata; e ora che tu, spinta da tutti, perseguitata, non per tua passione, non per tua volontà, hai commesso il fallo – per te è tale! – il fallo di cui t’accusarono innocente, ora ti riprendono, ora ti rivogliono! Vacci! Li avrai puniti tutti quanti, come si meritavano!192

Artefice dell’ultimo inganno umoristico è, dunque, proprio Gregorio, per il quale il sentimento deve lasciare spazio alla ragione: questa deve guidare il personaggio nella lotta contro gli inaspettati antagonismi, specialmente ponendo attenzione al più pericoloso di essi che è il proprio Io duplice e molteplice. Il destino di Marta sembra così potersi compiere proprio quand’essa, in fondo, può dirsi davvero disinteressata alle proprie azioni, lasciandosi cadere addosso quelle altrui con tutta la tranquillità che caratterizza una coscienza pulita e leggera. Come un inetto sveviano, è con l’inerzia, dunque, che la donna conclude i suoi migliori affari, facendosi protagonista assoluta di circostanze reali, le quali sono però il frutto di atti, da parte sua, assolutamente mancati.

Solo ora Marta conquisterà una identità, costruita però non su solide fondamenta, ma sulle macerie di quelle forme esibite, e al contempo distrutte, dai suoi “avversari”.

191 Ivi, p. 160.

192 Ivi, pp. 173-4.