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Accogliamo dunque il consiglio cantoniano e proviamo ad adoperarlo anche per la lettura del primo Svevo, autore di Una vita: ebbene, non si può non «sorridere melinconicamente» leggendo gli atti mancati di Alfonso Nitti:

Una sera se ne andò via prima dicendo di essere indisposto. Voleva dimostrare il suo malumore e si adirò che nessuno lo comprendesse, che tutti credessero nella sua malattia.61

Ispira una sorta di tenerezza, questo giovane continuamente scisso fra il proposito di agire e la mancata risolutezza nel farlo; che non ha il coraggio di imporre direttamente la propria presenza al prossimo e che quindi arranca, goffo e sempre deluso, in atti dei quali vorrebbe lettura traslata rispetto a quanto direttamente significano, per tentare di comunicare con il prossimo esclusivamente “a suo modo”. Un modo che però non solo è filtrato, ma addirittura rovesciato rispetto alla realtà. Il suo uditorio, quindi, si rivela sempre troppo semplice, elementare, o troppo diretto e grossolano, per prestarsi a questo gioco del non-detto, così che Alfonso finisce per scontare una doppia pena: il soccombere nella lotta perché non adatto all’azione; il

60 ALBERTO CANTONI, Pietro e Paola con seguito di bei tipi, cit., p. 427.

61 ITALO SVEVO, Una vita, Trieste, Vram, 1892; Milano, Morreale, 19302, con presentazione di E.

Vittorini; Milano, dall’Oglio, 1961; a cura di P. Sarzana, Milano, Mondadori, 1985; edizione critica a cura di B. Maier, Pordenone, Studio Tesi, 1986; qui in Romanzi e «Continuazioni», Milano, Mondadori, (“I Meridiani”), 2004, pp. 5-394, p. 129.

provare continua frustrazione perché, anche quando agisce, non viene compreso.

Vediamo un altro esempio:

Con una scusa qualunque, anzi procurando di non farla credibile, si sarebbe astenuto dal rimettere più piede in casa Maller.62

Il giovane di campagna piombato in città e attratto dagli agi e dalle personalità che li incarnano, cerca dai suoi atti l’esatto contrario di quanto la logica richiederebbe: una scusa, ad esempio, dovrebbe essere, per svolgere la propria funzione, plausibile, ossia poter essere creduta, accettata e quindi fungere da giustificazione; l’impegno di Alfonso, invece, è profuso proprio per cercare una scusante non credibile, così da non venire giustificato, per mezzo d’essa, della sua mancanza dal terreno di gioco e di lotta che casa Maller simboleggia nel romanzo. Il proposito ultimo di questo atto non è, allora, quello di non venire più cercato dalla conventicola che si riunisce settimanalmente nel salotto buono, ma, al contrario, quello di venire interpellato – e, dunque, appositamente cercato e spassionatamente voluto. Solo così Alfonso sarà soddisfatto, perché si sentirà coinvolto e costretto ad annullare la propria scelta di ritirarsi – scelta che ha, quindi, sola valenza formale, ma che è priva di valore sostanziale:

Gli parve di essere già ritornato alla serietà di propositi che aveva avuta altre volte quando era frequentatore assiduo della biblioteca civica, ma col pensiero ricorreva alla casa donde usciva e sognava scene in cui veniva scongiurato a ritornarci.63

Alfonso, dopo essersi auto-punito, si sente goffamente scisso: casa Maller vs biblioteca civica, ossia luogo del peccato e del traviamento vs luogo della salvezza e della redenzione, in un’esagerazione di percezioni e di giudizi, la quale rende sproporzionati i gesti e le considerazioni che tentano di rimettere ordine in questa sforzata e artefatta dicotomia.

Pirandello, in apertura del suo Mattia Pascal, ci dirà quanto e come anche una biblioteca possa perdere l’aurea di solennità e di imperturbabilità che Alfonso ancora tenta di conferirle:

Fui per circa due anni non so se più cacciatore di topi che guardiano nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’suoi concittadini; e forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e colla comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Del dono anzi il Comune si mostrò così poco grato al

62 Ivi, p. 131.

63 Ivi, p. 130.

Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un umido magazzino, donde poi li trasse, pensate in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale […].

Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.

Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri […] che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire da ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura […] capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non a cinquant’anni dopo la terza, ultima e definitiva morte.64

È la stagione della caduta dei miti, la quale, per uno scrittore, non può che celebrarsi a partire dallo scioglimento di quelli letterari e dei loro luoghi di custodia: le biblioteche, appunto. Per Alfonso la sala bibliotecaria aveva la disposizione di toccasana, il gran merito di indurlo allo studio, ossia al bene, al giusto, alla serietà irreprensibile; se non fosse che questa, però, lì, in città, fra i frizzi e i lazzi di quella, non si rivela più sufficiente per redimere questo eroe sui generis, che non può più dirsi

‘senza macchia e senza paura’. Il valore salvifico e intangibile di essa non viene riconosciuto dalla società di cui il giovane, ancora pieno di sogni e speranze, vuole entrare a far parte: la realtà utilitaristica della banca, quella falsamente perbenista dei salotti buoni, quella maliziosa e affettata di Amalia non sanno, infatti, che farsene dei libri e del sapere che essi custodiscono perché poco pratici, troppo statici e per nulla attraenti.

In Pirandello, il grido di allarme è ancora più forte e la demistificazione del luogo sacrale più diretta, anche nella descrizione: topi, libri ammuffiti, cattivo odore, umidità fanno della stanza adibita a biblioteca un luogo grottesco e inadeguato rispetto al valore morale che da essa ci si aspetterebbe. La caduta prosegue esplicita e dichiarata attraverso le parole di Mattia: perché la Biblioteca torni a fare sfoggio di sé promovendo il valore delle lettere e della cultura, come il mecenate Boccamazza all’epoca della donazione avrebbe auspicato, di nuovo almeno un visitatore dovrà entrarvi e impugnare – badiamo bene – non il volume di un celebre scrittore, bensì il manoscritto dello stesso Mattia, che si arroga la capacità di «poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore». La storia di quel manoscritto, infatti, racconta proprio quegli «atti più

64 LUIGI PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal, prima edizione a puntate sul quindicinale «Nuova Antologia»

dal 16 aprile al 16 giugno 1904; lo stesso anno fu raccolto in volume a cura della stessa «N. A.». Per le ristampe e le edizioni rivedute che seguirono, si rimanda alla Bibliografia presente nelle Note al testo e varianti, dell’edizione a cura di Giovanni Macchia: ID., Tutti i romanzi, Milano, Mondadori, (“I Meridiani”), vol. I, 1986, (19731), p. 1001. Anche la citazione fa riferimento a questa edizione: ID., Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, cit., pp. 317-586, pp. 320-1.

inconsulti, assolutamente imprevedibili» di cui Pirandello scrisse nei Sonetti di Cecco Angiolieri, e si fa strada fra le grandi opere dei grandi autori, sovvertendo il canone letterario e costringendolo a riconoscere il primato della scrittura privata, rispetto a quella degli intellettuali tout court.

Tale letteratura non si realizza, tuttavia, in componimenti necessariamente diaristici – come darebbe a pensare l’idea di scrittura privata e autobiografica – in quanto i personaggi non scrivono solo per dare voce alla loro coscienza, ma anche perché questa possa, un giorno, essere conosciuta e condivisa da più persone: il libro si fa mezzo di comunicazione in divenire, e non più semplice cosa statica fra le cose, oggetto finito e voluto in se stesso e per se stesso.

A tale proposito, anche l’incipit del Re umorista di Alberto Cantoni è sufficientemente eloquente: a raccontare in prima persona la vicenda del Prologo è un anonimo viaggiatore che si trova sul treno «detto orientale, che va da Parigi a Costantinopoli» e che nel compartimento dove sceglie di passare la notte incontra un singolare compagno di viaggio. Questo, lettore di «un libro sempre vero pur troppo: De litterarum infelicitate di Valeriano»,65 offre al nostro una risma di carte, donategli da un re presso cui prestò servizio e che gli disse, a sua volta, queste parole:

«Ho qui alcune carte per voi… ma badate, per l’amico, non pel diplomatico. Quando avrete ancora mutato di residenza parecchie volte, e sarà più difficile assai di capire da chi abbiate avuto queste carte, allora cercate di uno scrittore in buona fede, e dategliele, perché le mandi fuori a modo suo, nella sua lingua e nel suo paese. Se la semente sarà buona, darà qualche frutto su qualche terreno; se sarà cattiva, vada pure al vento dovunque sia.»66

Il tramite accetta dunque la cura di queste carte e l’autore chiude il Prologo con una raccomandazione del narratore, oltre alla premessa stesa di pugno dal sovrano, che da qui in poi prenderà la parola nel racconto. Le chiameremo: 'premessa prima' e 'premessa seconda'. Premessa prima:

Ora leggete.

[…] La parola è al re.

Di quando era ancora meno libero dello spirito, cioè a dire principe reale soltanto, egli non da [sic] che un solo paragrafo: il primo. Osserverete bene allora e poi, e lo vedrete diventare sempre più capriccioso, come più dovrà digerire nuovi anni e nuovi guai.

Accadrà facilmente il medesimo a tutti gli umoristi.67

Questa la premessa seconda:

65 Cfr. ALBERTO CANTONI, Un re umorista, cit., p. 212.

66 Ivi, p. 214.

67 Ivi, p. 215.

Le pagine che seguono rappresentano, per la massima parte, le più grandi e le più piccole giornate della mia vita. Quando esse mi davano troppo pensiero, io non aveva nulla di meglio a fare che mettermi a scrivere, e questo po’ di lavoro finiva spesso per giovarmi più assai che se fossi rimasto lì colle braccia penzoloni ad aspettar la grazia.

Ne ho fatte tante in vita mia, di grazie, che mi è passata la voglia di chiederne, sia pure al tempo che non sa far altro.68

La scrittura, secondo le parole del re, si fa dunque sfogo e rifugio al tempo stesso:

luogo dove tirare le somme non di ciascuna giornata – come si farebbe in un diario privato – ma di un’intera esistenza.

Questo meccanismo è esplicitato ancor più chiaramente da un altro personaggio cantoniano, il già visto protagonista dell’Altalena delle antipatie,69 il quale, al paragrafo 1. del Libello Primo, intitolato Panacea universale, scrive:

Ho quarant’anni, anzi li finisco appunto oggi. Ottima giornata questa per dire di me e delle cose mie […]. […] Scrivo tutt’ora […]. Voglio fare delle figure e non dei paesaggi, però non vedo punto la necessità di determinare i luoghi più precisamente di così.70

Dato questo nuovo uso della pagina scritta, abbassata a resoconto individuale e contemporaneamente innalzata a luogo di presa di coscienza, risulta ancor più chiara la stonatura delle parole dell’Alfonso sveviano quando, gonfio di boria da letterato saccente, tenta di ergersi al di sopra dei suoi colleghi di lavoro con il seguente sfogo:

Non poco aumenta i miei dolori la superbia dei miei colleghi e dei miei capi. Forse mi trattano dall’alto in basso perché vado vestito peggio di loro. Son tutti zerbinotti che passano metà della giornata allo specchio. Gente sciocca! Se mi dessero in mano un classico latino lo commenterei tutto, mentre essi non ne sanno il nome.71

Queste parole – ricordiamo che il romanzo è ancora steso in terza persona – provengono da uno scritto nello scritto: si tratta, infatti, della lettera di apertura che il protagonista redige, malinconico e languido, per la madre rimasta al paese natìo.

Il richiamo è chiaramente alla letteratura romantica, ricca di pathos e di sentimentalismo, di grandi uomini dalle azioni decise e dai valori saldi, nonché satura di atmosfere rarefatte e artificiosamente composte perché al loro interno ciascun personaggio possa trovarvi un ruolo sicuro. La particolarità di questa epistola sta, però, proprio nel voler distruggere – con appunti che ironicamente capovolgono i canoni e le aspettative del lettore – questo mondo e questa letteratura, codificati e inopinabili, a vantaggio del palesamento dell’umano-troppo umano, che alberga nei nuovi eroi degli

68 Ibid.

69 ID., L’altalena delle antipatie, Firenze, Barbèra, 1893, in L’umorismo nello specchio…, cit., pp. 295-329.

70 Ivi, pp. 285-6.

71 ITALO SVEVO, Una vita, cit., p. 6.

scrittori. In particolare è l’idillio della campagna a essere distrutto, in nome di un’ottica disincantata e viziata dal sogno del denaro e del successo:

Gli altri che stanno qui [in città] sono tutti o quasi tutti lieti e tranquilli perché non sanno che altrove si possa vivere tanto meglio.

«Credo che da studente io vi sia stato più contento perché c’era con me papà che provvedeva lui a tutto e meglio di quanto io sappia. È ben vero ch’egli disponeva di più denari. Basterebbe a rendermi infelice la piccolezza della mia stanza. A casa la destinerei alle oche.72

Sono parole, queste, non certo scaturite da sentimento, ma anzi assai razionali e persino calcolatrici, che fanno ben comprendere come tutto il malessere e la nostalgia del ragazzo siano da imputare a una disagiata situazione economica e a un modesto stile di vita, anziché alla reale mancanza di casa, tanto che anche il padre non viene ricordato che come una fonte di denaro.

Questa lettera ha, dunque, nell’economia del testo, una valenza distruttiva e scardinatrice: deve servire per il lettore, per metterlo all’erta verso le pagine che verranno, rendendolo abbastanza astuto e accorto nel leggere fra le righe, per interpretare i clichè letterari, i quali pur ancora ci sono, con la debita distanza e secondo l’ottica capovolta, con cui lo stesso Svevo li sta trattando.73

È in passi come questo che troviamo l’ironia pura, quasi il sarcasmo disilluso che l’autore usa per demistificare la materia minandola dall’interno, così come fin dalle prime pagine è posta in discussione la credibilità del protagonista, la quale viene messa persino in ridicolo. È il caso di un altro passo dell’epistola, di poco seguente a quello sopra citato:

«Non farei di meglio a ritornare a casa? Ti aiuterei nei tuoi lavori, lavorerei magari anche il campo, ma poi leggerei tranquillo i miei poeti, all’ombra delle quercie, respirando quella nostra buona aria incorrotta.74

Queste parole non sono credibili perché Alfonso ha ormai dimostrato che è il suo animo a essere corrotto e che, perciò, l’aria di campagna non basterà più a infondere la pace, la serenità e tutti quei buoni valori che sino a quel momento la letteratura predicava attraverso il suo filtro estraniante dal mondo.

72 Ibid.

73 Per un’analisi approfondita di questa lettera in apertura di Una vita e del peso che essa ha nell’economia del testo, si veda la trattazione che vi ha dedicato GIANCARLO MAZZACURATI nel capitolo Un «jeu de trompe-l’œil», in Le stagioni dell’apocalisse. Verga, Pirandello, Svevo, Torino, Einaudi, 1998, pp. 167-83.

74 ITALO SVEVO, Una vita, cit., p. 6.

Non che mai prima si fosse cantata la sconfitta e la caduta delle illusioni; ma era l’ottica con cui lo si faceva a essere diversa: c’erano ancora la volontà e la lotta per salvarle, queste illusioni; o, almeno, si avvertiva il rimpianto nel celebrarle; ora, invece, a essere innalzata a oggetto di celebrazione è, parossisticamente, proprio la loro stessa caduta. Anche Cantoni fa qualcosa di simile quando, a titolo del paragrafo secondo del suo Bastianino, scrive:

Nel quale due donne, madre e figlia, parlano forte e chiaro, siccome usa nel contado, checchè ne dicano gli Arcadi.75

La letteratura, in tal caso quella arcadica, non viene completamente negata, ma messa in discussione, con l’intento di violare quell’aurea di intangibilità di cui si era ammantata fin’allora, non senza l’aiuto della critica predisposta a propagandare mode e correnti catalogatrici, a scapito della spontanea creazione dell’artista. Anche l’esercizio critico, dunque, diventa ora oggetto di analisi riflessiva, con lo scopo di dichiararne la corruzione e il filisteismo, la faziosità e la mercificazione. Leggiamo in Scaricalasino di Cantoni:

Quando un critico mostra espressamente di voler esser benevolo (lasciamo da parte il merito che a priori non conta nulla) deve pur servirsi del solito frasario laudativo, il quale, per il pubblico, è omai [sic] diventato inconcludente. Ottiene così l’effetto contrario, e fa nascere l’idea che egli non abbia nemmeno guardato il libro che loda. Quando invece egli si mostri, non dirò del tutto ostile, ma piuttosto burbero, piuttosto arcigno, viene subito in mente che se egli non ha trovato a notare più mende di quelle che nota, vuol dire che l’opera, al di fuori di quelle mende, ha molto, ha forse tutto di buono, perché, se non le avesse, il critico lo avrebbe detto.76

Non meno forte è quanto espresso dal protagonista del racconto Una burla riuscita di Italo Svevo, che ugualmente punta il dito sul degrado dell’arte, fattasi oggetto atto solamente a soddisfare esigenze quantitative e non qualitative, trasformando l’artista medesimo in un prodotto confezionato ad hoc per il gradimento del pubblico, non più fruitore, ma acquirente de bene artistico: 77

75 ALBERTO CANTONI, Bastianino, scene della bassa Lombardia, «Nuova Antologia», anno XII, vol. II, fasc. I, 1° gennaio 1877, pp. 97-138, in L’umorismo nello specchio…, pp. 38-75, p. 40.

76 ID., Scaricalasino, cit., pp. 496-7.

77 Probabilmente poté influire sul giudizio negativo verso la critica italiana l’esperienza personale dello scrittore, che certo non vide la propria carriera baciata successo e dal consenso del pubblico, nemmeno quando scrisse la Coscienza, dopo 25 anni di silenzio dagli esordi nel mondo delle lettere. Svevo scrive nel suo Profilo autobiografico, proprio al punto in cui si parla di questo romanzo, che si deve scontrare con «un’incomprensione assoluta ed un silenzio glaciale»: «Lo Svevo diceva che ad onta della sua lunga esperienza tale insuccesso lo stupì e lo addolorò tanto profondamente da danneggiare la sua salute. Aveva 62 anni e scopriva che se la letteratura era nociva sempre, a quell’età era addirittura pericolosa». ITALO

SVEVO, Profilo autobiografico, in Italo Svevo nella sua nobile vita, Milano, Morreale, 1928, pp. 3-16, p.

16, poi in edizione anastatica a cura di Paolo Briganti, Parma, Zara, 1985.

Tutta la storia della letteratura era zeppa di uomini celebri, e non già dalla nascita. A un certo momento, era capitato da loro un critico veramente importante (barba bianca, fronte alta, occhi penetranti), oppure un uomo d’affari, ed essi subito assurgevano alla fama. Perché la fama arrivi, non basta che lo scrittore lo meriti. Occorre il concorso di uno o più altri valori, che influiscano sugli inetti, quelli che poi leggono le cose che i primi hanno scelto. Una cosa un po’ ridicola, ma che non può mutare. E succede anche che il critico non capisca nulla del mestiere altrui e l’editore (l’uomo d’affari) nulla del proprio, e l’esito resti il medesimo. Quando i due si associano l’autore, anche se non lo merita, è fatto per un tempo più o meno lungo.78

Il triumvirato che sta alla sovrintendenza dei beni artistici e culturali è dunque sarcasticamente composto, secondo il triestino, da uno scrittore non necessariamente meritevole di tale appellativo; da un critico, spesso incapace; da un editore che è anzitutto «uomo d’affari», dunque in cerca dell’interesse; il connubio fra i tre è realizzabile senza troppe difficoltà perché il prodotto così confezionato sarà dato in pasto a un pubblico di «inetti», cioè di incapaci e di svogliati a sciogliersi in critico giudizio e a sbilanciarsi a consapevole scelta. Una sorta di condizionamento della moda e alla moda, per molti aspetti simile a quello che decreta e condiziona le norme del mercato attuale, librario e non. Anche nei suoi saggi, il triestino non lesina parole dure verso la critica contemporanea, come nello scritto Del sentimento in arte:

Si vanta il nostro il secolo della critica ma questo straordinario ragionamento sull’arte non è divenuto in certe parti un danno? Già da lungo tempo la critica dalle sommità in cui sembrava esiliata trapiantò nella pianura le sue idee, snaturate alquanto nel passaggio, le sue superbie, quelle intatte, i suoi metodi, monchi.79

Altrettanto eloquenti sul tema prescelto e sul giudizio sviluppatovi, sono fin i titoli di altri due saggi sveviani: Della critica italiana e Critica negativa. L’incipit del primo così, provocatoriamente, recita:

Della critica italiana non bisogna dir male perché essa non esiste. […] Il vero critico sente l’importanza delle cose che lui solo legge. Queste cose sono importanti perché lui le lesse. All’italiano ciò non sembra. Quello che non arriva al pubblico non ha importanza.80

In Critica negativa, testo dedicato in particolare all’esercizio critico nei confronti dell’arte drammatica, si legge una considerazione che può essere, però, estesa anche ad altri campi, sino a farsi universale:

78 ID., Una burla riuscita, in La novella del buon vecchio e della bella fanciulla ed altri scritti, con una nota introduttiva di E. Montale, Milano, Morreale, 1929, in Racconti, saggi, pagine sparse, in Opera omnia, a cura di Bruno Maier, (“Ammiraglia”), Milano, dall’Oglio, 1968, pp. 78-128, pp. 97-8.

79 ID., Del sentimento in arte, in Saggi e pagine sparse, a cura di Umbro Apollonio, Milano, Mondadori, 1954; in Opera Omnia, cit.; in Teatro e saggi, saggio introduttivo e cronologia a cura di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, (“I Meridiani”), 2004, pp. 825-47, p. 831.

80 ITALO SVEVO, [Della critica italiana], in Saggi e pagine sparse, in Opera omnia, cit.; in Teatro e saggi, cit., pp. 890-2, p. 890.