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C) Captazione attraverso lo strumento tecnologico

5. Le intercettazioni delle comunicazioni informatiche e

L’art. 266 bis del c.p.p. disciplina il terzo tipo d’intercettazioni previsto all’interno del nostro ordinamento.

                                                                                                               

(62) Cass. pen., Sez. VI, 23 ottobre 2008, n. 42711, in CED Cass. Pen., 2008, rv. 241880.

(63) Anche se, in senso contrario, cfr. Cass. pen., Sez. IV, 16 marzo 2000, n. 7063,

in Dir. Pen. e Proc., 2001, 87, la quale afferma che è esistente, in capo al soggetto che vi fa ricorso, una sorta di pretesa di riservatezza e di temporanea potestà di esclusione di chiunque vi voglia accedere.

Tale norma consente, nei procedimenti concernenti i reati indicati nell’art. 266 c.p.p., e riguardo ai fatti penalmente rilevanti commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche, l'intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi.

La disposizione è stata aggiunta con l’art. 11, L. 23-12-1993, n. 547, il quale ha previsto nuove ipotesi di reato, caratterizzate dall’impiego di tecnologie informatiche e telematiche.

L’introduzione di tale disposizione è stata chiaramente spinta da esigenze di completezza normativa, dovute all’apertura del mondo del crimine al progresso tecnologico.

La scelta del legislatore è stata, tuttavia, criticata.

Si è osservato che l’art. 266 c.p.p., facendo riferimento ad “altre forme di telecomunicazione”, rappresentasse già una manifestazione di lungimiranza da parte del legislatore, il quale aveva previsto che lo sviluppo tecnologico non avrebbe mancato di influire anche sulle modalità comunicative.

A ciò si aggiunge che la disposizione di apertura del Capo dedicato alle intercettazioni non fosse portatrice di una rigida predeterminazione tipologica, ma anzi che fosse una norma potenzialmente omnicomprensiva di tutti i mezzi di comunicazione astrattamente ipotizzabili in un dato momento storico.

Da ciò, secondo tale ricostruzione, ne deriverebbe che l’introduzione dell’art. 266 bis nel nostro codice di rito sia non solo superflua, ma anche problematica (64).

Infatti, in particolare, è stato rilevato che l’articolo in esame riduca la portata generale dell’art. 266 c.p.p. e sia latore di complicazioni definitorie. È riportata, ad esempio, la difficoltà di inserire le comunicazioni via fax in una o in un’altra disposizione, poiché da nessuna delle due esplicitamente previste, arrivando a concludere                                                                                                                

(64) A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1996, pp. 12-13.

addirittura che è illegittimo captare tali colloqui, pur rientrando il telefax nel mondo delle telecomunicazioni.

In realtà, a parere di chi scrive, l’introduzione della disposizione di cui all’art. 266 bis, è tutt’altro che superflua o inutile. Anzi, l’aggiunta operata nel 1993 non solo è da ritenersi necessaria, ma anche doverosa. E ciò per due ordini di motivi.

Innanzitutto per coerenza sistematica: è inevitabile che modifiche sostanziali (65) abbiano ricadute anche a livello processuale.

Infatti, pur rimanendo il piano sostanziale e il piano processuale del tutto separati e non in una situazione di dipendenza e subordinazione del secondo dal primo, comunque pare appropriato un coordinamento sistematico.

In secondo luogo, qualora non si prevedesse esplicitamente tale modalità intercettativa, si lascerebbe ampio spazio a dubbi critici circa la legittimità delle intercettazioni medesime, eventualmente disposte.

SEZIONE II

LIMITAZIONI E GARANZIE NEL CODICE DI

RITO

1. La disciplina codicistica

L’inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, così come sancita dall’art. 15 Cost., soggiace alla possibilità di limitazione                                                                                                                

(65) La legge 23 dicembre 1993, n. 547 ha apportato modifiche anche al codice penale, introducendo gli artt. 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies.

esclusivamente in ragione del soddisfacimento di un interesse primario e costituzionalmente rilevante, quale quello della prevenzione e repressione dei reati.

A tal proposito, è compito del legislatore ordinario, in virtù della riserva di legge prevista dal disposto costituzionale, garantire per un verso il pieno rispetto della libertà tutelata e, per un altro, contemperare tal esigenza con quella di prevenire e reprimere i reati,

interesse fondamentale anch’esso oggetto di protezione

costituzionale.

La riserva di legge in questione trova trasposizione negli artt. 266 e segg. c.p.p., che fissano una cornice di presupposti e garanzie entro cui l’autorità giudiziaria può e si deve muovere.

Innanzitutto, è possibile scorgere un limite circa il soggetto legittimato a procedere.

La disciplina codicistica, difatti, come emerge da una prima lettura delle disposizioni in questione, identifica l’organo dell’accusa come

dominus dell’attività intercettiva: egli è titolare dell’iniziativa,

determina le modalità e la durata dell’attività esecutiva, ecc..

Tuttavia, in virtù della particolare efficacia e insidiosità del mezzo di ricerca della prova, si è evidenziato in dottrina (66) come l’espressione “autorità giudiziaria” utilizzata dal Costituente debba interpretarsi in termini restrittivi, nel senso che solo l’organo giurisdizionale sia competente a limitare la libertà costituzionale sacrificata in caso di intercettazioni.

Infatti, nonostante i relatori definissero le intercettazioni come “atto del Pubblico Ministero” (67), quest’ultimo ha perso il potere – previsto invece dall’art. 226-ter del precedente codice di procedura penale – di poter procedere in via autonoma con lo strumento intercettivo. Egli deve semplicemente valutare la necessità del mezzo                                                                                                                

(66) L. FILIPPI, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, Giuffrè, 1997, p. 61. (67) Rel. Prog. Prel., 1988.

e, a seguito del decreto autorizzativo emesso dal GIP, disporne la materiale attuazione.

Ciò nonostante, non è mancato chi, in dottrina (68), ha ipotizzato una violazione del diritto di difesa e del principio di parità delle armi – in lesione dell’art. 24, 2 co. Cost. – derivante dalla mancanza, tra le facoltà delle parti private, di poter fare ricorso allo strumento intercettivo, sebbene anche il dettato costituzionale dell’art. 15 Cost. faccia riferimento esclusivamente a “un atto motivato dell’autorità giudiziaria”.

Per queste ragioni, in passato, era stata proposta una soluzione: introdurre la possibilità del difensore di sollecitare il pubblico ministero affinché procedesse a intercettazioni, con l’aggiunta di un obbligo per quest’ultimo, in caso di diniego, di trasmettere la richiesta al Giudice delle indagini preliminari. Si sarebbe trattato, dunque, di “un’estensione dell’art. 368 c.p.p.” (69).

Quanto al margine temporale, il pubblico ministero può chiedere l’autorizzazione a disporre le operazioni captative solo durante le indagini preliminari. Questa conclusione emerge chiaramente sia dall’articolo 267, 1 co., c.p.p., che riserva il potere di autorizzazione al Giudice delle indagini preliminari, sia dall’art. 268, 5 co., c.p.p., che individua quale termine ultimo per il deposito di verbali e registrazioni, la chiusura delle indagini preliminari.