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C) Captazione attraverso lo strumento tecnologico

3. Il provvedimento autorizzativo

Come già esposto, l’iniziativa è nelle mani del pubblico ministero che richiede al giudice per le indagini preliminari

l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’art. 266.

Sebbene il codice non lo preveda espressamente, è da ritenersi che la richiesta del P.M. debba essere adeguatamente motivata e circostanziata, con espresso e dettagliato riferimento alle ipotesi di reato ed ai presupposti specificati dall’articolo 267 c.p.p.. Il Giudice, ai fini della concessione dell’autorizzazione, deve essere posto in grado di valutare se l’intercettazione riguardi le ipotesi criminose di cui all’art. 266 e deve poter verificare la sussistenza degli ulteriori presupposti indicati nell’art. 267 c.p.p..

Come già precisato, poi, attesa la particolare insidiosità di questo mezzo di ricerca della prova, si è preferito sottrarre al P.M. il potere di adottare direttamente il provvedimento dispositivo, affidando, invece al Giudice delle indagini preliminari il compito di provvedere all’emissione della relativa autorizzazione, cosicché le intercettazioni costituiscono l’unico mezzo di ricerca della prova il cui esperimento richieda il preventivo consenso dell’organo giurisdizionale.

Non è pacifico in dottrina se onere del pubblico ministero debba essere anche quello di trasmettere, con la suddetta richiesta, il fascicolo delle indagini preliminari, oltre quello di dimostrare la

presenza dei gravi indizi di reato e dell’assoluta indispensabilità dell’intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini, posto che il codice di rito nulla dice a tale riguardo.

I dubbi sono sorti soprattutto a seguito della modifica dell’art. 291 c.p.p. (80), il quale, in materia di misure cautelari, prevede che il pubblico ministero presenti al giudice competente anche gli elementi su cui la sua richiesta si fonda. Da una lettura sistematica emergerebbe, a contrario, che per la richiesta d’intercettazioni ciò non sia necessario.

Parte della dottrina (81) ha ritenuto che l’art. 267 c.p.p. lascerebbe libero l’inquirente di selezionare gli atti da trasmettere in allegato alla richiesta di intercettazioni. Secondo Altri (82), il pubblico ministero non sarebbe libero di decidere quali elementi di prova desecretare ma dovrebbe, al contrario, trasmettere al giudicante l’intero fascicolo delle indagini esperite.

Dall’esame dei due orientamenti, appare preferibile quest’ultima impostazione, per cui l’allegazione integrale del fascicolo delle indagini preliminari alla richiesta presentata al giudice, permetterebbe a quest’ultimo di valutare meglio la procedibilità e la sussistenza delle ragioni fondanti il ricorso al mezzo intercettivo. Infatti, si consentirebbe in tal modo di avere un panorama più ampio del quadro generale delle indagini fino a quel momento svolte.

Accertata la simultanea presenza dei presupposti di legge, il giudice autorizza le intercettazioni con decreto motivato, anche in ossequio a quanto espressamente richiesto dall’art. 15 Cost. che impone, quale strumento di tutela dei possibili abusi, la motivazione dell’atto volto a limitare la libertà e la segretezza delle comunicazioni.

Qualora il giudice non ritenga sussistenti i presupposti necessari, il decreto con il quale rigetta la richiesta del pubblico ministero non                                                                                                                

(80) Modifica avvenuta con l’art. 8, 1 co, L. 8 agosto 1995, n. 332.

(81) M. FERRAIOLI, Il ruolo di “garante” del giudice per le indagini preliminari Ferraioli, CEDAM, 2006, p. 122.

può essere impugnato in virtù del principio di tassatività delle impugnazioni ex art. 568 c.p.p.. Ciò non esclude, tuttavia, la possibilità per il P.M. di ripresentare richiesta, formulata in maniera diversa.

Dalla motivazione del G.i.p., definita in letteratura “garanzia delle garanzie” (83), si deve poter ricostruire l’iter logico seguito e l’effettiva esistenza dei requisiti che legittimano l’operazione intercettiva.

Il decreto autorizzativo del G.i.p. è atto non impugnabile autonomamente, come pacificamente ritengono dottrina e giurisprudenza.

La Corte Costituzionale, già con sentenza n. 34 del 1973 (84) affermava che: “Del corretto uso del potere attribuitogli il giudice

deve dare concreta dimostrazione con una adeguata e specifica motivazione del provvedimento autorizzativo”, dunque esplicita e

non per relationem.

Infatti, proprio con riferimento all’adeguatezza della motivazione del giudice, una delle questioni più affrontate ha riguardato l’ammissibilità o meno della motivazione c.d. per relationem, che si manifesta come un mero rinvio agli atti del pubblico ministero, per cui l’onere di motivazione si tradurrebbe in un “giudizio implicito di

adesione” al “provvedimento del pubblico ministero e alle note di polizia” ( 85 ). Pertanto, mediante rinvio alla richiesta d’intercettazione, questa si trasforma, così, nell’atto da cui evincere vuoi la gravità (o la sufficienza) degli indizi, vuoi la necessità (o l’opportunità) investigativa.

                                                                                                               

(83) A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1996, p. 110.

(84) C. Cost., 21 marzo 1973, n. 34 in Giur. Cost., 1973, 617.

(85) M. BORGOBELLO, L’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni, G. Giappichelli, Torino, 2013, p 48, richiama Cass., Sez. I, sent. 2 febbraio 2010, n. 8218.

In materia si è pronunciata la Corte di Cassazione a sezioni unite (86), la quale, a seguito di un riepilogo delle tendenze assunte dalla giurisprudenza a sezioni semplici, ha elaborato dei criteri di legittimità della motivazione per relationem.

Nello specifico, è necessario che la motivazione, in virtù dell’esigenza di completezza del suo contenuto, faccia riferimento a un atto del procedimento che sia adeguatamente motivato, e che non si limiti a un mero rinvio, ma che faccia emergere che i dati riportati sono stati comunque criticamente valutati e positivamente recepiti dal giudice.

Infine, la Suprema Corte ha espresso la necessità che, al momento del deposito di cui all’art. 268, 4 co., c.p.p., la parte privata sia messa in grado di prendere effettiva visione degli atti di riferimento, così da garantirne un controllo, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed eventualmente di gravame.

Nella stessa sentenza, poi, le Sezioni Unite hanno chiarito la differenza tra mancanza e difetto di motivazione. Per quanto riguarda la prima ipotesi, questa si ravvisa quando la motivazione risulti

apparente o addirittura inesistente ovvero del tutto incongrua

rispetto al provvedimento che dovrebbe giustificare, e dunque nel caso di motivazione per relationem, quando sia palese che il giudice, nel rinviare al provvedimento del pubblico ministero, non abbia valutato i presupposti richiesti dalla legge.

Il mancato rispetto degli obblighi motivazionali cagiona il divieto di utilizzo delle intercettazioni, secondo l’espressa disposizione di cui all’art. 271, 1 co., c.p.p., con conseguente perdita del supporto probatorio già formatosi.

Si è sottolineato, altresì, come in tal caso non potrà essere eccepita la sanzione della nullità generale, perché lo stesso vizio non può dar                                                                                                                

luogo a due concorrenti sanzioni processuali. Difatti, quando

l’inosservanza di una data disposizione, comunque qualificabile, produce, per esplicita volontà della legge, l’inutilizzabilità, allora è evidente come il sistema delle nullità sia superato perché l’inutilizzabilità opera, e va dichiarata, in ogni stato e grado del procedimento mentre la nullità opera in limitati ambiti di rilevabilità e di opponibilità.

Diversamente, si ha difetto di motivazione quando questa appaia insufficiente, incompleta o non perfettamente adeguata, così da non pregiudicare la motivazione sottostante, ma da renderla non puntuale, seppur rinvenibile. In tale ipotesi la conseguenza è l’irrilevanza, ed è ammesso il potere di emenda da parte del giudice. È legittimo, infatti, in tali casi che il vizio sia emendato dal giudice cui la

doglianza venga prospettata, sia esso il giudice del merito, che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni, sia da quello dell’impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità.

Da ultimo occorre evidenziare che, riguardo alla motivazione per

relationem nei provvedimenti di proroga, è stato precisato che essi possono, sotto il profilo razionale, scontare un minore impegno motivazionale quanto ai presupposti, se verificati ancora sussistenti, ma debbono ugualmente dar conto della ragione di persistenza dell’esigenza captativa (87).