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Le politiche del lavoro, rivestono nell’ambito delle politiche sociali, un ruolo basilare per tutelare l’interesse collettivo all’occupazione. Le politiche del lavoro come si vedrà nel corso del presente capitolo hanno subito un rilevante processo evolutivo dal secondo dopoguerra ad oggi, e si sono sviluppate a seguito della centralità che il concetto di lavoro ha assunto nell’organizzazione degli Stati moderni, «divenendo il protagonista di una società di produttori e consumatori dotati di più elevate esigenze soggettive di autorealizzazione e di incidenza sui processi economici»96.

Il lavoro fu considerato dall’economia classica una fonte del valore e un fattore sociale fondamentale che la società industriale ha poi confermato. Queste basi culturali e morali dell’agire economico non sono venute meno nel capitalismo maturo, che ha proseguito a valorizzare il lavoro: infatti «quasi tutti i regimi politico-sociali affermano di essere fondati sul lavoro, come dichiara per altro la nostra Costituzione»97. In un sistema economico basato essenzialmente sul lavoro, l’identità sociale degli individui, dipende altresì dall’attività lavorativa, che fornisce loro una collocazione nella stratificazione sociale determinandone il rispettivo status; tanto è vero che «lavori dissimili comportano redditi diversi, contesti e abitudini lavorative e di formazione al lavoro differenti, quindi stili di vita e di consumo variegati, designando un sistema di disuguaglianze di cui la divisione del lavoro è, in linea di principio, il fattore basilare»98. Ne consegue che l’assenza di lavoro non coincide meramente con la mancata percezione di un compenso, ma significa essere forzatamente esclusi dalla partecipazione attiva

96 Donati P., Il lavoro che emerge, Bollati Boringhieri, 2001, p. 103. 97 Accornero A., Il mondo della produzione, il Mulino, 2002, p. 257. 98 Mingione E., Pugliese E., Il lavoro, Carocci, 2003, p. 17.

nella vita economica e sociale del Paese, creando conseguenti cambiamenti e costrizioni nei propri stili di vita.

Come ha sostenuto Lunghini, «l’attuale disoccupazione, rappresenta uno spreco di risorse che si accompagna a una disuguaglianza crescente nella distribuzione della ricchezza e del reddito, e a una massa di bisogni sociali insoddisfatti: l’obiettivo dell’incremento occupazionale dovrebbe tornare al primo posto nell’agenda dei governi democratici»99. Le politiche del lavoro sono promosse, pertanto, per far fronte alla problematica della disoccupazione e dell’inoccupazione, e per favorire il reinserimento dei soggetti esclusi dal mercato del lavoro, che altrimenti sarebbero destinati all’emarginazione sociale e alla povertà.

Le politiche del lavoro si definiscono, in genere, come interventi pubblici nel mercato del lavoro indirizzate a gruppi particolari di individui. Queste, a loro volta, supportano e integrano gli strumenti delle più generali politiche per l’occupazione (tab. 2.1). Per quanto riguarda queste ultime, l’obiettivo di ridurre lo stato di disoccupazione viene affidato essenzialmente a strumenti di carattere monetario o fiscale in un’ottica ampliata, che comprende anche le politiche sociali, le politiche delle infrastrutture e quelle formative.

Tab. 2.1 – Gli interventi microeconomici e macroeconomici che agiscono sul mercato del lavoro Politiche Contenuti, orientamenti, obiettivi

Politiche per l’occupazione

Interventi macroeconomici (politiche monetarie, fiscali, valutarie) tendenti ad agire principalmente sulle grandezze aggregate dell’economia (consumi, investimenti, spesa pubblica) e quindi in modo indiretto sul livello dell’occupazione globale

Politiche del lavoro (Servizi per l’impiego, misure attive e passive)

Interventi di tipo microeconomico, tendenti ad agire su specifici segmenti di forza lavoro e quindi sulla struttura dell’occupazione/disoccupazione

Politiche sociali, industriali e di sviluppo

Strategie di crescita socioeconomica a livello locale che favoriscono indirettamente la crescita dell’occupazione

Politiche dei redditi Controllo dei redditi da lavoro e da capitale, per favorire il contenimento dell’inflazione e la crescita dell’occupazione

Fonte: Capparucci (2009).

99 Lunghini G., Politiche eretiche per l’occupazione, in Lunghini G., Silva F., Torgetti Lenti R. (a cura di), Politiche pubbliche per il lavoro, il Mulino, 2001, p. 35.

L'origine delle politiche del lavoro ha seguito percorsi diversi a seconda dei Paesi di appartenenza. Nel corso degli ultimi ottant'anni le innovazioni che si sono avute nell’ambito delle politiche del lavoro sono state il risultato dell'intreccio fra l'azione statale e le strategie dei gruppi degli interessi economici. Le politiche del lavoro in Europa e negli Stati Uniti nascono innanzitutto come politiche pubbliche per la tutela dei senza lavoro, dove è particolarmente forte l'influenza delle dinamiche politico- istituzionali. Come osserva Gualmini infatti, «la salienza elettorale del problema della disoccupazione, la priorità della questione lavoro nelle strategie dei gruppi di interesse economici e le tensioni sociali legate alle conseguenze del non lavoro, hanno sempre accresciuto il suo valore oggettivo e simbolico»100.

Il primo Paese europeo che introdusse un sistema assicurativo volontario nazionale nel 1905 fu la Francia seguito dalla Norvegia, Danimarca, dall'Olanda, Belgio, della Svezia. Negli Stati Uniti, invece, il forte radicamento dell'ideologia liberale, imperniata sul valore degli individui, e la debole organizzazione dei sindacati hanno rallentato lo sviluppo delle prestazioni assicurative.

Il Paese precursore nell'introduzione dell'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione fu la Gran Bretagna nel 1911 con la quale si prevedeva un sistema tripartito fra imprenditori, lavoratori e Stato e si concerneva una carta assicurativa per ogni lavoratore nella quale venivano registrati i contributi versati. L'esempio inglese fu seguito nel 1919 dall'Italia che, così come per la Germania, non concepì un'assicurazione a carattere universale, ma piuttosto a favore dei soli lavoratori dell'industria.

Con la grande depressione degli anni 30, si moltiplicò il tasso di disoccupazione ed esplose la conflittualità sociale101. I governi americani ed europei trovatisi impreparati alla recessione ricorsero alle tradizionali misure monetarie di tipo deflazionistico che aggravarono e prolungarono lo stato delle problematiche del mercato del lavoro. Questa fase negativa dal punto di vista economico e sociale fece comprendere la natura involontaria della disoccupazione e contribuì a far maturare nei governi la necessità di dare risposte veloci e precise in merito alle problematiche dell’occupazione.

100 Gualmini E., La politica del lavoro, il Mulino, 1998, p. 26.

101 Si consiglia a questo proposito la lettura di Orientale Caputo G., op.cit., 2009, nella quale si rintracciano nella Grande Depressione elementi di similitudine con l'attuale situazione economica mondiale, caratterizzata dalla crisi dei mercati finanziari statunitensi ed europei: tra i più preoccupanti fattori di similitudine emerge l'aumento della disoccupazione.

In questo contesto in Svezia, per la prima volta nel 1934, si sperimentarono politiche attive del lavoro grazie ai socialisti al governo che riuscirono a varare una riforma per introdurre un’assicurazione volontaria nazionale dei disoccupati nella quale il controllo dell'erogazione delle prestazioni restava nelle mani della classe sindacale. Inoltre la riforma prevedeva una serie di incentivi economici per la creazione di nuovi impianti industriali in sostituzione dei vecchi, l’addestramento dei lavoratori scarsamente qualificati e il controllo dei flussi di credito. Negli Stati Uniti, invece, il conflitto fra i valori della tradizione liberale e le politiche per la garanzia della sicurezza sociale fece ritardare il Social Security Act al 1935, tramite cui tutti gli Stati si dotarono di indennità per i disoccupati attraverso i quali l’imprenditore contribuiva al finanziamento di sussidi in relazione alle disponibilità del fondo da lui stesso costituito.

Per quanto riguarda l’esperienza francese, i primi provvedimenti in materia di politiche del lavoro, rispetto al resto dei paesi europei, si caratterizzano per il grande ritardo, soprattutto per quel che concerne l’introduzione dell’assicurazione. Le ragioni del ritardo sono da attribuirsi al carattere rurale dell’economia, alla mancanza di una legislazione sui poveri, alla debole organizzazione e alla frammentazione dei movimenti sindacali, al rallentamento delle tendenze demografiche e al tasso di disoccupazione che negli anni ‘30 rimase comunque il più basso d'Europa. Dopo la costituzione dello schema volontario nel 1905, solo nel 1958 a seguito di ripetute pressioni degli organi internazionali, la Francia adottò un sistema obbligatorio nazionale che continuò tuttavia a coesistere con il vecchio sistema volontario provocando un'elevata frammentazione dei programmi e delle istituzioni responsabili.

Si può dunque affermare che in uno stadio primordiale, le politiche del lavoro in Europa e negli Stati Uniti, volte primariamente alle prestazioni di disoccupazione, sono state il frutto dell'intreccio fra le condizioni economiche e la forza del movimento operaio, a seguito dei processi di modernizzazione e di industrializzazione. Inoltre la rilevanza oggettiva del problema della disoccupazione possiede un forte legame con i tempi di introduzione degli schemi assicurativi. Il basso livello della disoccupazione in Belgio e in Francia durante la grande depressione spiega infatti il parziale ritardo con cui in questi paesi l’assicurazione da volontaria si trasformò in obbligatoria. Di converso l'elevato numero di disoccupati in Svezia, Stati Uniti e Germania proprio negli

anni in cui le assicurazioni furono introdotte evidenzia la tendenza da parte di questi paesi ad introdurre le riforme in risposta a situazioni di crisi.

A partire dal secondo dopoguerra, ha inizio una fase di estensione e consolidamento dei programmi di assicurazione. In questo periodo gli Stati Uniti consolidano i programmi previsti dal Social Security Act, ritoccando le categorie dei beneficiari e il livello delle prestazioni, anche se in realtà si è trattato di cambiamenti marginali rispetto all'originale sistema assicurativo. Le novità che invece introduce l’Inghilterra e la Svezia in materia di tutela della disoccupazione sono state molto più significative. Nel caso inglese, il rapporto Beveridge del 1942 ha segnato il passaggio dall'assicurazione alla sicurezza sociale, secondo un principio di universalità. Con il rapporto Beveridge, le categorie dei beneficiari sono state estese, l'ammontare delle prestazioni è stato leggermente diminuito e adeguato a quello delle indennità per malattia e i sussidi sono stati collegati alle misure di formazione professionale.

Il governo socialdemocratico svedese durante gli anni 50, invece, ha completato il programma di politiche attive per il mercato del lavoro iniziato con successo negli anni 30. Il paradigma teorico neokeynesiano che le ha ispirate, ne ha definito gli obiettivi prioritari e le condizioni essenziali per una loro efficacia, e ne ha individuato soprattutto la complementarietà con altre politiche di tipo macroeconomico. Secondo il «piano Rehn-Meidner», dal nome dei due ricercatori sindacalisti che avevano modificato la legge del 1934, è stata, infatti, indicata, come principale finalità delle politiche del lavoro, quella di assicurare maggiori livelli di occupazione grazie ad una migliore organizzazione e struttura dei mercati del lavoro, in contesti di politica economica diretti ad assicurare la piena occupazione, anche attraverso misure di espansione della domanda aggregata, integrata da politiche dei redditi antinflazionistiche. Sono stati introdotti quindi interventi selettivi sulla domanda e sull'offerta di lavoro, sotto forma di disposizioni speciali per la formazione professionale, di incentivi alle imprese per avviare i processi di modernizzazione degli impianti e dei lavori di pubblica utilità. Il sindacato ha potuto così perseguire una politica salariale solidaristica mirata a ridurre quanto più possibile gli eventuali differenziali nei salari e nelle condizioni di impiego.

Se fino agli anni ‘60 le politiche del lavoro hanno per lo più riguardato le prestazioni di protezione per la disoccupazione, a partire dagli anni ‘70, le politiche del lavoro sono state incentrate su nuovi programmi che si sono sviluppati in parallelo alla nascita di

nuove regole di scambio fra attori pubblici e gli attori sociali, gli assetti neo-corporativi caratterizzati dalla partecipazione dei gruppi di interessi al policy making, economico e sociale sia nella fase di formulazione che nella fase di attuazione dei programmi dell'emergenza102. Nel periodo degli anni ‘70 le strategie di policy dei paesi europei, hanno cominciato a riformare profondamente programmi per il mercato del lavoro ampliando il ventaglio degli strumenti utilizzabili a favore delle politiche attive e confermando i vincoli normativi per la protezione dei lavoratori dentro e fuori i luoghi di lavoro, come quello sui licenziamenti individuali e collettivi. Di lì in poi, il modello di politica attiva del lavoro, si affianca al modello della flessibilità e il raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla Strategia Europea dell’Occupazione (SEO), avviata dalla fine degli anni ’90, hanno rappresentato l’inizio del coordinamento europeo delle politiche nazionali in materia di occupazione. Da politiche del lavoro volte a contenere fenomeni di disoccupazione di massa, si è passati a interventi più strutturati, integrati e complessi di politiche del lavoro, coordinati dall’Unione Europea in grado da una parte di arginare la disoccupazione, specie in periodi di forte recessione, dall’altra di favorire l’incontro fra domanda e offerta.

Infatti, le politiche del lavoro si configurano oggi come interventi di carattere selettivo, che incidono sulla domanda e sull’offerta di lavoro, sulle scelte dei datori di lavoro, nonché sulle condizioni contrattuali e sulla riduzione della disoccupazione103. Come ha sostenuto Delors all’inizio degli anni ’90 nel libro Bianco della Commissione Europea in tema di occupazione, «la strada indicata per creare occupazione passa non solo dalla ripresa della crescita economica, dagli interventi strutturali per accrescere la competitività dell’industria, ma anche dagli interventi di tipo micro e da misure che facilitino l’ingresso nel mondo del lavoro della forza lavoro, soprattutto delle fasce deboli, affinché sviluppino le competenze e le professionalità richieste dal sistema economico-produttivo»104.

Le origini e l’evoluzione delle politiche per il mercato del lavoro nei principali Paesi europei e negli Stati Uniti, consentono quindi, di spiegare come i governi hanno

102 Gualmini E., op.cit..

103 Capparucci M., Politiche del lavoro e politiche dei redditi: modelli teorici e processi di riforme, in «Quaderni di Economia del Lavoro», nn. 88-89, 2009, pp. 74-102.

104 Commissione Europea (a cura di), Crescita, competitività e occupazione. Le sfide da percorrere

per entrare nel XXI secolo. Libro bianco di Delors, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità

formulato i programmi per il lavoro e soprattutto quanto hanno inciso il contesto politico-istituzionale, i vincoli e gli spazi d’azione, per la definizione delle riforme attuate e dei campi di intervento progressivamente delineati.

In generale, i campi di intervento a cui le politiche del lavoro fanno fronte, seguendo Borzaga e Fazzi105, sono essenzialmente quattro: 1) la regolamentazione del mercato del lavoro senza la quale si massimizzerebbero gli interessi di quegli attori che possiedono il maggior numero di risorse. Le misure di regolamentazione, sono diventate basilari in tutta l’Europa occidentale e hanno come obiettivi principali quelli di garantire sicurezza economica e salute fisica sui luoghi di lavoro, rapporti di lavoro più saldi con le aziende, internalizzazione dei costi di assunzione, licenziamento e qualificazione; 2) Le misure volte a supportare ed incentivare l’occupabilità e l’occupazione di soggetti deboli, quali le donne, i giovani, i disoccupati, persone con problemi sociali o sanitari, ecc.; 3) Sussidi di disoccupazione che mirano a sostenere economicamente i soggetti che hanno perso il posto di lavoro; hanno la duplice finalità di contribuire alla stabilizzazione del reddito durante periodi di congiuntura economica caratterizzati da bassi livelli di crescita e di dare la possibilità ai disoccupati di cercare un nuovo lavoro senza essere costretti ad accettare un posto di lavoro non corrispondente alle proprie professionalità e competenze per motivi di necessità immediata; 4) La contrattazione che regola le condizioni di impiego attraverso accordi tra rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro106.

Nonostante, per chiarezza argomentativa, si tenti di presentare le politiche del lavoro per precisi ambiti di intervento, ciò non implica pensare alla loro autonomia nel vasto campo delle politiche pubbliche, bensì «considerarle strettamente legate ad altre particolari politiche di settore, nonché influenzate dalla politica macro-economica perseguita dalle autorità governative; infatti, non avendo confini ben delineati, le

105 Borzaga C., Fazzi L., op. cit.; si veda in particolare p. 90.

106 Esistono tre principali modelli di contrattazione, ossia, quella centralizzata dove il salario viene contrattato a livello nazionale (contrattazione tipica dei Paesi scandinavi), quella settoriale, dove le associazioni di impresa dei singoli settori contrattano con i sindacati, e quella decentrata caratterizzata da bassi livelli di centralizzazione e coordinamento e si è sviluppato prevalentemente nei Paesi anglosassoni. In Italia esiste un doppio livello di contrattazione, che concerne sia quello centralizzato per la negoziazione dei criteri generali, sia quello locale per la negoziazione dei livelli cosiddetti «integrativi». Regini M., op. cit., 2007. Si vedano in particolare pp. 267-272.

politiche del lavoro si intrecciano e sovrappongono con altre politiche di carattere fiscale, sociale o economico»107.

Le politiche del lavoro, secondo il criterio proposto dall’OECD e dal sistema di rilevazione statistica ESSPROS (European System of Integrated Social Protection Statistics) vengono normalmente suddivise in base al tipo di azione intrapresa, distinguendole in misure passive e attive. Le politiche passive del lavoro, si riferiscono a quegli interventi di tipo regolativo e assistenziale (o difensive a causa della perdita del lavoro), volti principalmente ad una egualitaria distribuzione delle opportunità di lavoro tramite misure di protezione sociale e di salvaguardia del reddito. Le politiche passive provvedono a fornire una rendita economica ai soggetti che hanno perso il lavoro, tentando di migliorarne temporaneamente la situazione economica. In Italia, le politiche passive sono rappresentate dalla cassa integrazione, prepensionamenti, indennità di mobilità, contratti di solidarietà, indennità di disoccupazione. Seguendo Frey, «in realtà le politiche passive non sarebbero introdotte per incidere sulle cause della problematica occupazionale bensì per correggere a posteriori le conseguenze di essa. In verità tali politiche in quanto non avrebbero l’obiettivo di trasformare il disoccupato in occupato, non dovrebbero essere considerate politiche del lavoro in senso proprio. In quanto trasferimenti di reddito dagli organi pubblici ai lavoratori che perdono o non riescono a trovare un posto di lavoro, esse rientrerebbero piuttosto nelle politiche sociali, a maggior ragione nei casi in cui il reddito trasferito ai lavoratori non sia fondato sui contributi versati in precedenza ma finisca con l’assumere fondamentalmente un carattere assistenziale»108.

L’espressione politiche attive del mercato del lavoro, è stata coniata da due svedesi, Rehn e Meidner nel 1948, intendendole come una strategia socialdemocratica sia per perseguire il pieno impiego che per mantenere l’inflazione sotto controllo109. Le politiche attive del lavoro sono quelle che incidono sull’incremento delle opportunità affinché i soggetti senza lavoro possano trovarlo migliorando le loro possibilità di inserimento attraverso meccanismi di formazione o di riavvicinamento al mercato del lavoro. Sono anche politiche attive quelle «destinate a facilitare la relazione tra la

107 Reyneri E., La politica del lavoro, in Dente B., op. cit., p. 238.

108 Frey L., Le politiche dell’occupazione e del lavoro in Europa, in «Quaderni di economia del lavoro», n. 55, 1996, p. 40.

109 Sordini M., Politiche attive come politiche di attivazione, in Donolo C., (a cura di), Il futuro delle

domanda e l’offerta di lavoro, e sono destinate a intervenire nel mercato del lavoro al fine di evitare una situazione di disoccupazione»110. Le politiche attive del lavoro costituiscono, dunque, interventi finalizzati a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro e a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, sia stimolando la domanda per creare nuova occupazione, sia adeguando l’offerta di capitale numano alle competenze richieste.

Nell’ambito delle politiche attive c’è una molteplicità di interventi e programmi. Essi variano per durata, beneficiari, contenuto, collegamento con i regolamenti relativi alle modalità di accesso al sussidio. Le politiche attive del lavoro hanno ricevuto un notevole sviluppo durante gli ultimi due decenni. L’importanza attribuita alle azioni di politica attiva e la necessità di limitare sempre più interventi di tipo passivo è dimostrata anche dal cambiamento nel lessico utilizzato per definire gli interventi attuati. Nel 2006, la metodologia Eurostat Labour Market policies, ha eliminato il lemma “passive”, a cui viene di solito data una connotazione negativa, introducendo una nuova classificazione che esula dalla dicotomia «passiva/attiva». Secondo Eurostat è maggiormente corretta la distinzione tra servizi, misure e supporto (tab. 2.2). Nei servizi sono incluse le attività di aiuto nella fase di ricerca di un impiego, offerte dai centri per l’impiego e dalle agenzie private (il bilancio delle competenze, l’orientamento, l’informazione) che possano aiutare il cittadino ad inserirsi più facilmente nel mercato del lavoro). Nelle misure si riscontrano tutte le attività di formazione e di riqualificazione, come stage, tutoraggio, incentivi all’assunzione, ecc.. Le azioni di supporto rimandano ad interventi che garantiscono assistenza economica alle persone legate al mercato del lavoro, come ad esempio sostegno in caso di licenziamento per crisi aziendale o cessazione dell’attività produttiva111.

110 Hernàndez J. G., I servizi per l’occupazione in Spagna: dall’intermediazione al collegamento tra